domenica 21 agosto 2011

Salento: quarto regno dell'aldilà

Se uno volesse farsi un’idea di come potrebbe essere un quarto regno ultraterreno – un regno che neppure Dante con la sua fervida fantasia seppe immaginarsi – potrebbe venir giù nel Salento e avrebbe modo addirittura di viverci dentro.
Visto sulla carta geografica, attaccato all’Italia, il Salento appare nella sua inequivocabile peninsularità; Messapia era detto, ossia “Terra di mezzo, tra due mari”. Più da vicino, sempre sulla carta geografica, appare nella sua mesta pendularità.
Sta sulla terra, ma vive al di là, come fosse in una dimensione ultraterrena, in una sorta di pre-inferno o di post-paradiso. Sta oltre le colonne d’Ercole della fatica, del lavoro, della produttività. La sua vita è insieme vera e virtuale. Il Salento non ha latte e vende ricotta.
Canti e suoni, danze e spettacoli, sagre e mostre, notti bianche e rosse, della pizzica o della taranta, caratterizzano le lunghissime estati salentine, una volta grondanti sudori agricoli. Il grano, l’orzo, il tabacco, i pomodori, i legumi, i fichi, che impegnavano le famiglie e le tenevano inchiodate ai campi, sono diventati folklore, attrazione turistica. Cultura la chiamano. Il Salento laborioso non c’è più. Al suo posto una sorta di Las Vegas dilatata. Trionfano le godurie più varie, i gozzovigli, le sfrenatezze, con la complicità delle classi politiche locali, che offrono sostegni, spazi, strutture. Panem et circenses, esattamente come una volta. L’importante è che la gente s’illuda di stare bene. La benzina corre verso i due euro al litro più veloce delle auto che alimenta. Ma chi se ne frega! Ai distributori devi fare la coda.
Da più di tre anni la società occidentale è depressa, vuoi per testa vuoi per croce. In questi ultimi tempi, poi, è un martellamento continuo del calo delle borse. Ma l’importante è che quella della gente sia ben piena o tale appaia, per fare gioco e festa.
Il ciclo è continuo, con un altipiano estivo. Seguono le altre feste comandate, a partire da San Martino e via continuando per le feste natalizie, carnacialesche, pasquali e di nuovo estive. Lo spirito del giovane Lorenzo de’ Medici aleggia su tutto il Salento – siamo o non siamo la Firenze del Sud? – con qualche aggiustatina: quanto è bella l’allegrezza, che già dura tuttavia; chi vuol esser lieto, sia, del doman c’è la certezza. Le risorse del Salento sono il cielo, il mare, il vento. Chi potrà mai portarcele via? I turisti vengono in massa. E se non dovessero aver più la possibilità di venire?
In verità, del domani non v’è certezza alcuna. Il Salento non produce più materialità, produce immaterialità, inconservabilità, volatilità, effimero. E carta, tanta, tantissima carta. Un profluvio di giornali di ogni formato invade i bar, i locali pubblici, le strade. Li scaricano a pacchi e li abbandonano sulle soglie degli esercizi pubblici, tutti gratis. Li pagano i contributi dello Stato e la pubblicità tanto sfavillante quanto pidocchiosa di imprenditori e commercianti stitici. Si perde il conto di quanti sono e di quanti ne escono a getto continuo, come se uno si alzasse la mattina e sentisse il bisogno di un nuovo foglio. Li leggo, per curiosità. Faccio il… giornalista. Riprendono notizie da altri giornali, dai quotidiani locali soprattutto. Non hanno una linea politica o culturale. Incapaci di uno sbadiglio critico. Non hanno cognizione alcuna di partiti o di classi, di poteri o di dinamiche sociali. Non hanno uno spazio proprio. La cultura che esprimono è superficiale, copiata, orecchiata, piena di immarcescibili luoghi comuni. Prevale una vaga cultura del territorio, ma senza militanza alcuna. Il giornale come il campanile: ce l’hai tu, lo devo avere anch’io. Lo Stato finanzia le cooperative; e, allora, c’è la possibilità di farsi qualche centinaio di euro, giusto per le spese o per qualche maglietta, su cui si legge qualche breve modo di dire popolare, rigorosamente in dialetto. Pochi giovani, ma meglio di nessuno, sbarcano il lunario così; non sono del tutto disoccupati.
Chi non se la spassa da una sagra all’altra, si chiude nelle discrete cabine di certi locali, dove si gioca a tutto, ad accanirsi soprattutto ai videogiochi, fino a giocarsi come si dice il culo; mentre le donne, notoriamente più sfacciate, trascorrono interi quarti d’ora a grattare per vincere, poi perdono grattando, tra la spesa delle patate e quella della carne. Per mezzogiorno c’è sempre tempo! E i mariti? Ma sì, chi se ne fotte dei mariti. Se fanno i fessi, c’è lo stalking, il reato di chi in casa chiede giusta ragione del loro comportamento.
Se pure non ci fossero altri indicatori della gravissima crisi che la società attuale sta vivendo basterebbero i divertimenti e i giochi a farla apparire in tutta la sua vastità e profondità. Come la nostra solo la società del Seicento, sissignori, quella del barocco, che, nel Salento sta come il pesce nel mare. Anche nel Seicento dominavano lo sfarzo, le stravaganze, i divertimenti, le lotterie. Non si credeva nel lavoro e nel progresso, ma nella fortuna.
E chi lavora, nel senso che produce o rende servizi? Pochissimi, autentiche mosche bianche. Se hai bisogno di un contadino non lo trovi neppure a pagarlo a peso d’oro. I pochi artigiani, idraulici, falegnami, fabbri, pavimentisti, intonacatori, elettricisti, tinteggiatori o altrimenti detti pittori, guadagnano dai duecento ai trecento euro al giorno, esentasse, nel senso che non rilasciano fattura alcuna. Del resto la stragrande maggioranza della gente non sa che farsene della fattura; e non pretenderla fa risparmiare. Oggi questi unici “laboratores” hanno redditi da medici specialisti, da luminari della scienza. Nei soldi che ti chiedono c’è una sorta di tassa del prestigio: paga, professore o medico della minchia, io guadagno dieci volte più di te. Se chiedi loro la fattura o la ricevuta fiscale, li irriti, ti fanno pagare l’iva, e poi scordati che li puoi più chiamare nel caso di bisogno. Col passaparola son tutti informati. Quello lì? E’ un rompicoglioni, ne va trovando tante; meglio lasciarlo perdere!
Non so quanto possa durare una simile condizione “ultraterrena”, di non produzione, di virtualità economica, di sbafo, di pezzenteria allegra. Il Papa lo denuncia ad ogni latitudine, ma si guarda bene dall’assumere toni da Gerolamo Savonarola, sa come andò a finire per il frate ferrarese.
Ad ogni buon conto io dalla buonanima di mia madre appresi di distinguere le erbacce dalla verdura commestibile. Non si sa mai. E – Dio mi perdoni i cattivi pensieri – vorrei tanto verificare le mie competenze con cicorine e zanguni.

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