La crisi di governo conclusasi
col ritorno al potere del Pd, ormai da anni partito cardine dell’establishment,
ha dimostrato quanto conti il popolo in una democrazia parlamentare. Giova
ricordare quanto la Costituzione della Repubblica gli riconosce. All’art. 1 si
legge che “La sovranità appartiene al popolo”, che è chiamato a votare ogni
cinque anni per il rinnovo delle Camere (art. 60) salvo che non accada prima
per lo scioglimento anticipato delle stesse (art. 88).
Qui per popolo si vuole indicare più
che l’insieme di individui cittadini di uno stato la sua componente di base, le
cui aspirazioni attivistiche danno vita al populismo.
Il popolo, dunque, vota, E’ così
che esercita la sua sovranità. Quella sua componente populistica può vincere le
elezioni, ma non necessariamente va al potere e neppure riesce ad influenzarlo.
A volte la sua volontà è prevaricata dalla componente che si riconosce
nell’assetto politico-istituzionale, tendenzialmente conservativa. Può accadere
che l’establishment, temendo il voto anticipato del popolo, ne impedisce l’esercizio,
risolvendo la crisi con una raccogliticcia maggioranza parlamentare. Che – sia
detto per inciso – è formalmente corretta, ma quando non lo è altrettanto
politicamente si risolve per un fraudolento escamotage antipopulistico.
Come può accadere? In un sistema elettorale
proporzionale o misto, come è oggi il nostro, è possibile che in Parlamento si
formi un’alleanza di sconfitti che mette all’angolo chi, pur avendo vinto le
elezioni, non è in grado di governare da solo.
La situazione politica italiana,
nella circostanza del secondo governo Conte, è arrivata ad un punto limite: la
legittimazione di ogni capriola politica pur di trovare i numeri in Parlamento
e impedire di votare. Con l’aggravante che a questo si accompagni una politica in
controtendenza con quanto indica e chiede il popolo. Oggi, attraverso i
sondaggi, si può seguire l’elettorato nei suoi umori e nelle sue tendenze con attendibile
riscontro.
Facciamo un esempio per capire. Una
delle criticità più forti e insistenti, da qualche anno in qua, è la sicurezza,
messa in discussione dall’immigrazione, ossia da quell’invasione lenta e costante
che di qui ad una decina di anni potrebbe modificare in maniera decisiva
l’Europa e i suoi singoli paesi.
L’establishment cerca di tener
calmo il popolo con pietismi e bugie. Che volete che siano poche migliaia di
poveri disgraziati a fronte di un paese di sessanta milioni di abitanti? Oppure
con scene di toccante umanità, a volte confezionate ad arte: come si può
rimanere insensibili di fronte a tanta sofferenza? Un problema biblico,
epocale, viene così stemperato in figurine deamicisiane.
E’ chiaro a tutti che alla
maggioranza del popolo italiano l’immigrazione non piace. Ha torto? Ha ragione?
Non conta: è il popolo!
Populismo e antipopulismo, come
si può arguire, non sono affatto ideologie, sono modi di essere e di sentire.
Ed è sbagliato associarli sic et simpliciter alla destra o alla sinistra.
Tant’è che il popolo si riconosce, a seconda dei tempi e delle problematiche in
atto, ora nella destra, ora nella sinistra, ora nel qualunquismo.
Nell’immediato dopoguerra il populismo, specialmente quello socialcomunista,
era di sinistra; oggi in gran parte è di destra, mentre il M5s ha comportamenti
qualunquistici.
I populisti ragionano così: c’è
un problema, noi, popolo, indichiamo le nostre istanze dando il nostro voto ad
una classe politica di cui ci fidiamo. Quando questa volontà viene disattesa,
sia pure con pezze costituzionali e all’insegna di un presunto superiore fine,
come può essere l’antifascismo, semplicemente si impedisce al popolo di esercitare
il suo potere o la sua influenza.
Ora, è vero che la Costituzione
dice al suo art. 1 che la sovranità del popolo va esercitata “nelle forme e nei
limiti della Costituzione”, ma questo non può giungere mai fino al paradosso di
mistificarne l’assunto e di negarne la titolarità, trasferendola dal popolo ad
una rappresentanza che del popolo non ha nessuna considerazione. La forma non
può mai prevaricare la sostanza; se accade si pone un grave fatto politico. Quando
Romano Prodi, campione dell’establishment e principe dell’antipopulismo, dice
“una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una
maggioranza di governo possibilmente stabile” (Corsera del 4 settembre 2019), esprime
un pensiero anche condivisibile ma nello stesso tempo tradisce tutta la sua
lontananza dal popolo reale: a me non interessa come è fatto il popolo o che
vuole, a me interessa il potere “possibilmente stabile”.
Dopo la caduta del primo governo
Conte, c’erano due vie: una, prioritaria, cercare una maggioranza politica in
Parlamento; l’altra, conseguente, fare elezioni anticipate. L’una e l’altra
erano formalmente ineccepibili, ma, mentre la prima era del tutto incentrata
sull’establishment, la seconda si ancorava al popolo ed era quella che nella
sostanza rispondeva alle istanze del paese. Averla impedita non è stato un
colpo di stato, ma un colpo politico, del tutto legittimo dal punto di vista
formale, che, però, in sostanza ha impedito ad una parte politica, la
populistica, di esercitare un suo diritto, di cogliere un successo nel momento
in cui poteva riuscirci. La maggioranza che si è formata in Parlamento non era
una maggioranza politica, ma numerica, composta al solo scopo di impedire le
elezioni, riconoscentesi unicamente nel comune intento di danneggiare l’avversario.Lo
hanno detto loro stessi. Una bravata politica! Che rischia di produrre non pochi guasti nel
sentire democratico della gente, che nelle istituzioni non vede trasparenza e
rispetto ma trame e imbrogli.
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