lunedì 9 settembre 2019

Quanto conta il popolo in una democrazia parlamentare




La crisi di governo conclusasi col ritorno al potere del Pd, ormai da anni partito cardine dell’establishment, ha dimostrato quanto conti il popolo in una democrazia parlamentare. Giova ricordare quanto la Costituzione della Repubblica gli riconosce. All’art. 1 si legge che “La sovranità appartiene al popolo”, che è chiamato a votare ogni cinque anni per il rinnovo delle Camere (art. 60) salvo che non accada prima per lo scioglimento anticipato delle stesse (art. 88).
Qui per popolo si vuole indicare più che l’insieme di individui cittadini di uno stato la sua componente di base, le cui aspirazioni attivistiche danno vita al populismo.
Il popolo, dunque, vota, E’ così che esercita la sua sovranità. Quella sua componente populistica può vincere le elezioni, ma non necessariamente va al potere e neppure riesce ad influenzarlo. A volte la sua volontà è prevaricata dalla componente che si riconosce nell’assetto politico-istituzionale, tendenzialmente conservativa. Può accadere che l’establishment, temendo il voto anticipato del popolo, ne impedisce l’esercizio, risolvendo la crisi con una raccogliticcia maggioranza parlamentare. Che – sia detto per inciso – è formalmente corretta, ma quando non lo è altrettanto politicamente si risolve per un fraudolento escamotage antipopulistico.  
Come può accadere? In un sistema elettorale proporzionale o misto, come è oggi il nostro, è possibile che in Parlamento si formi un’alleanza di sconfitti che mette all’angolo chi, pur avendo vinto le elezioni, non è in grado di governare da solo.
La situazione politica italiana, nella circostanza del secondo governo Conte, è arrivata ad un punto limite: la legittimazione di ogni capriola politica pur di trovare i numeri in Parlamento e impedire di votare. Con l’aggravante che a questo si accompagni una politica in controtendenza con quanto indica e chiede il popolo. Oggi, attraverso i sondaggi, si può seguire l’elettorato nei suoi umori e nelle sue tendenze con attendibile riscontro.
Facciamo un esempio per capire. Una delle criticità più forti e insistenti, da qualche anno in qua, è la sicurezza, messa in discussione dall’immigrazione, ossia da quell’invasione lenta e costante che di qui ad una decina di anni potrebbe modificare in maniera decisiva l’Europa e i suoi singoli paesi.
L’establishment cerca di tener calmo il popolo con pietismi e bugie. Che volete che siano poche migliaia di poveri disgraziati a fronte di un paese di sessanta milioni di abitanti? Oppure con scene di toccante umanità, a volte confezionate ad arte: come si può rimanere insensibili di fronte a tanta sofferenza? Un problema biblico, epocale, viene così stemperato in figurine deamicisiane.
E’ chiaro a tutti che alla maggioranza del popolo italiano l’immigrazione non piace. Ha torto? Ha ragione? Non conta: è il popolo!
Populismo e antipopulismo, come si può arguire, non sono affatto ideologie, sono modi di essere e di sentire. Ed è sbagliato associarli sic et simpliciter alla destra o alla sinistra. Tant’è che il popolo si riconosce, a seconda dei tempi e delle problematiche in atto, ora nella destra, ora nella sinistra, ora nel qualunquismo. Nell’immediato dopoguerra il populismo, specialmente quello socialcomunista, era di sinistra; oggi in gran parte è di destra, mentre il M5s ha comportamenti qualunquistici.
I populisti ragionano così: c’è un problema, noi, popolo, indichiamo le nostre istanze dando il nostro voto ad una classe politica di cui ci fidiamo. Quando questa volontà viene disattesa, sia pure con pezze costituzionali e all’insegna di un presunto superiore fine, come può essere l’antifascismo, semplicemente si impedisce al popolo di esercitare il suo potere o la sua influenza.
Ora, è vero che la Costituzione dice al suo art. 1 che la sovranità del popolo va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ma questo non può giungere mai fino al paradosso di mistificarne l’assunto e di negarne la titolarità, trasferendola dal popolo ad una rappresentanza che del popolo non ha nessuna considerazione. La forma non può mai prevaricare la sostanza; se accade si pone un grave fatto politico. Quando Romano Prodi, campione dell’establishment e principe dell’antipopulismo, dice “una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile” (Corsera del 4 settembre 2019), esprime un pensiero anche condivisibile ma nello stesso tempo tradisce tutta la sua lontananza dal popolo reale: a me non interessa come è fatto il popolo o che vuole, a me interessa il potere “possibilmente stabile”.
Dopo la caduta del primo governo Conte, c’erano due vie: una, prioritaria, cercare una maggioranza politica in Parlamento; l’altra, conseguente, fare elezioni anticipate. L’una e l’altra erano formalmente ineccepibili, ma, mentre la prima era del tutto incentrata sull’establishment, la seconda si ancorava al popolo ed era quella che nella sostanza rispondeva alle istanze del paese. Averla impedita non è stato un colpo di stato, ma un colpo politico, del tutto legittimo dal punto di vista formale, che, però, in sostanza ha impedito ad una parte politica, la populistica, di esercitare un suo diritto, di cogliere un successo nel momento in cui poteva riuscirci. La maggioranza che si è formata in Parlamento non era una maggioranza politica, ma numerica, composta al solo scopo di impedire le elezioni, riconoscentesi unicamente nel comune intento di danneggiare l’avversario.Lo hanno detto loro stessi. Una bravata politica!  Che rischia di produrre non pochi guasti nel sentire democratico della gente, che nelle istituzioni non vede trasparenza e rispetto ma trame e imbrogli.

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