domenica 11 aprile 2010

Democrazia alle pezze

Continuano a chiamarla democrazia. Ma della democrazia, ossia potere del popolo, non ha più nulla. Forse confondono il potere, la concreta partecipazione alla res publica, con la libertà di chiacchierare oziosamente. Si continua a votare, è vero. Ma del potere di voto vero non è rimasto che la liturgia. Il voto è vuoto. Niente più preferenza. Gli eletti, fino all’ultimo di essi, li decidono i vertici. Il cittadino ratifica la messinscena. I fenomeni dell’astensionismo crescente e dei vari grillismi e dipietrismi, che hanno ridotto la politica a risse e spettacoli da quartieri malfamati, sono conseguenze della degenerazione democratica.
Salutarono con entusiasmo, qualche anno fa, la morte delle ideologie, come se esse fossero state delle tare mentali, responsabili di tutti i misfatti di un secolo. E non pensarono che una lingua senza l’idea che la muova e che la guidi fa solo frinire come le cicale. Le ideologie sono le ali del pensiero; senza, si starnazza come fanno le galline nel cortile, al massimo per beccare nella propria stessa cacca.
Ma chi sono quelli che “continuano”, “confondono”, “salutarono”, “non pensarono”? I soliti innovativi, quelli che basta che una cosa sia diversa dalla precedente per andare in brodo di giùggiole. Quelli che frettolosamente mettono a confronto situazioni diseguali: negative reali con positive ipotetiche; come se si potesse confrontare il reale con l’immaginario. Dice l’innovativo: basta con questa pioggia; evviva il sole. Sa per certo – lo ha sperimentato – che la pioggia gli procura il raffreddore e i dolori reumatici, ma non immagina che col sole può prendere un’insolazione.
Si tratta di saper accettare e mediare. C’è un bellissimo romanzo dello scrittore sardo Salvatore Niffoi, “L’ultimo inverno”, in cui pioggia a non finire e siccità prolungata sono metafora della vanità umana in fatto di aspettative.
Quando entrarono in crisi i partiti e le ideologie che li animavano, questi signori inneggiarono ad una nuova libertà. Oggi sono ridotti alle pezze della democrazia. Infierivano contro i partiti, che avevano adulato fino al giorno prima, come tanti Tersite sul corpo esanime di Ettore. Oggi sono dei fazionari, dei tifosi, e chiamano bipartitismo il sistema politico attuale per illudersi del nuovo, mentre sulle due rive, come litiganti pronti alla zuffa, invocano cancri, malattie inguaribili, incidenti mortali ai politici della fazione avversa. Si curano così la frustrazione di fottuti.
Ovviamente ai livelli alti del dibattito politico-culturale c’è una diversa offerta di partecipazione. I grandi giornali hanno i loro editorialisti strapagati, che in qualche modo compensano il difetto di partecipazione della base. Sono professori d’università, saggisti, scrittori, che garantiscono un livello alto al dibattito; non sono quasi mai ascoltati, ma è indubbio che si fanno sentire, vengono citati, offrono spunti di discussione, qualche volta proposte e suggerimenti.
Ma, ai livelli più bassi, non c’è assolutamente nulla. Cittadini derubati, espropriati di tutto. C’è qualcuno che li rappresenti? I politici no di certo. I sindacati sono l’altra ruota del carro che non c’è. Dovrebbero essere i mezzi di comunicazione a svolgere un’azione di supplenza, di sussidiarietà popolare; ma questi sono nelle mani di capitalisti “lontani” che li usano strumentalmente per le loro aziende, sempre bisognose dell’appoggio dei politici per i loro affari. I direttori dei giornali sono i nuovi travet, dei Fantozzi che possono fare tutto tranne andare contro il proprio datore di lavoro e i suoi amici politici. Guai a sospettare di loro! Si ritengono come assunti in cielo, ma non contano nulla, tra editori finanzieri e politici finanziati. Sui “loro” giornali, infatti, continuano a tenere banco i politici, con periodiche interviste ed interventi diretti. Il dibattito è limitato, esclusivo.
Le tante piccole testate che circolano a scadenza più o meno mensile, tutte uguali, figlie di improvvisate cooperative, giocano a fare i giornali. In realtà dello schema della comunicazione non hanno che il mittente. Vivono di sovvenzionamenti pubblici, di pubblicità commerciale, il più delle volte di fame, e di propaganda politica in campagna elettorale. Si sono sostituite agli spazi pubblici di affissione, ai grandi striscioni degli anni Sessanta che andavano da una parte all’altra delle strade e alle auto con gli altoparlanti sopra. Le notizie di questo o quel paese, quando escono, sono abbondantemente scadute, già ampiamente trattate dai quotidiani maggiori. Non hanno finalità, non hanno un pubblico cui rivolgersi. Si autogiustificano.
E i cittadini? Niente! Fino a qualche tempo fa, forse retaggio della vecchia partitocrazia, si dava spazio a opinionisti di provate competenze e capacità. Non erano Sartori o Panebianco, Ricolfi o De Rita, Magris o Citati; ma non erano neppure i grafomani che vengono sprezzantemente considerati. Oggi non c’è più posto per loro. Essi, infatti, dovendo rappresentare il punto di vista dei cittadini o forse il proprio per personale civetteria di intellettuali, non hanno riguardi per i politici. Ma non avere riguardo per i politici è cosa gravissima. Qualcosa che somiglia al reato di lesa maestà di una volta.
Si è passati dal sessantottino “vietato vietare” al “vietato non vietare”. Si assiste all’assurda situazione di direttori di quotidiani che sono mandati dalla proprietà come una volta gli intendenti dai loro signori feudali per curare nei feudi più lontani le rendite, il più delle volte oziose.
Altrettanto fanno le emittenti televisive. Esse riservano spazio ed esposizione ai soliti politici, che se la cantano e se la suonano; mentre lasciano ai cittadini solo i circenses, nelle nuove versioni deamicisiane – qui nel leccese, ma non diversamente da altri luoghi – di “cuore amico” e di “Salento d’amare” e di altre amenità turistiche, tra pìzziche, tarante e sagre.
Si è passati dalla democrazia partecipativa e finalizzata alla democrazia dei canti e dei suoni, pezzente ma allegra.

[ ]

Nessun commento:

Posta un commento