sabato 24 agosto 2019

Crisi governativa: nel bailamme delle finzioni




Sembra che il Presidente Mattarella abbia parlato a sordi. La sua raccomandazione di giovedì sera, 22 agosto, rivolta a tutti – e al Paese per conoscenza – al termine dei due giorni di consultazioni, di essere chiari e solleciti nei cinque giorni di proroga concessi, si è persa nelle nebbie delle finzioni e delle furbate dei protagonisti, chiamiamoli così, della crisi governativa. Il primo giorno è passato inutilmente, tra dichiarazioni e smentite, fakenew  e soprattutto messaggi obliqui.
L’incontro di venerdì, 23 agosto, tra Nicola Zingaretti, segretario Pd, e Luigi Di Maio, capo dei Cinquestelle, si è concluso con un nulla di fatto. Anzi, peggio, perché i due interlocutori hanno messo delle condizioni non per accordarsi ma per precludere qualsiasi accordo.
Zingaretti ha proposto discontinuità rispetto al dimesso governo gialloverde, e Di Maio, anche su suggerimento di Beppe Grillo, ha risposto o con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi o niente. Zingaretti non ha risposto niente, ma qualcosa che gli somiglia per perdere tempo.
Ma pare modo di incontrarsi per raggiungere una via d’uscita dalla crisi? La verità è che né l’uno né l’altro intendono veramente accordarsi, perché sanno di essere non a capo di partiti coesi ma di bande che tirano ognuna dalla propria parte.
Pd e Cinquestelle, dopo le Europee, sanno di essere due partiti sconfitti. Perché continuano ad usare la spocchia, l’uno (Pd) di una supposta superiorità culturale e l’altro (M5s) di una rivendicata purezza civile? Non dovrebbero abbassare le ali e volare terra terra, anzi stare coi piedi per terra?
Zingaretti, dopo aver preteso la chiusura di uno dei due forni dei Cinquestelle – niente fornicazioni segrete con la Lega – ha dovuto subire l’ennesimo attacco della sua opposizione interna, quella di Renzi, maestro anche a gettare il sasso e a nascondere la mano. La minaccia di scissione nel caso di fallimento delle trattative coi Cinquestelle, allo scopo di evitare il voto anticipato, in seguito alle condizioni inaccettabili che sarebbero state poste da Gentiloni, è stata una messinscena, altro che disobbedienza di un suo allievo a tener spento il cellulare a lezione. Se non voleva che quelle parole non si sapessero Renzi semplicemente non le avrebbe dette. E’ stato un messaggio che doveva giungere con efficacia a chi poi è giunto. Ed ha dimostrato che il Pd è lontanissimo dalla propagandata compattezza.
Da parte loro i Cinquestelle non sono meno disuniti. Il canto delle sirene della Lega di rifare insieme il governo gialloverde non è affatto da sottovalutare. Intanto il loro dissidio interno è aperto e solare. Di Battista e Paragone lo hanno detto apertamente: meglio con la Lega che col Pd; se no, meglio ancora il voto.
Massimo Franco sul “Corriere della Sera” di sabato, 24 agosto, ha detto una verità grande quanto Montecitorio e Palazzo Madama messi assieme: “La sensazione è che quasi nessuno riesca a andare oltre il tornaconto personale”.
Matteo Salvini si è reso conto del disastro che ha combinato ed ecco perché ripete che bisogna fare l’impossibile pur di evitare che il governo torni nelle mani del Pd, disposto perfino ad offrire Palazzo Chigi a Di Maio e lui a tenersi fuori dal governo. Una presa di coscienza la sua che in altri tempi, neppure lontanamente paragonabili ai nostri, quando si aveva il coraggio dei gesti estremi di fronte al fallimento, portava ad un dignitoso e virile suicidio. Bruto e Cassio non esitarono a farlo a Filippi. La Filippi di Salvini è una data: l’8 agosto, quando ha comunicato a Giuseppe Conte di voler mettere in crisi il governo.
Sul fronte del centrodestra si continua col mantra delle elezioni anticipate, che, a dire il vero, sembrerebbe la via più scontata. Senonché il centrodestra è ben lontano dall’essere un soggetto politico coeso. Anzi, oggi, lo è molto meno rispetto alle elezioni del 2018, quando Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, non erano passati dal “tradimento” di Salvini, che finiva nel contratto coi Cinquestelle. 
Questa crisi è davvero bestiale nella sua intempestività e nella sua sconclusionatezza. Basti considerare che, a differenza di una normale crisi, che in genere è preceduta dai motivi, questa è seguita dai motivi, con cui i leghisti cercano di limitare gli effetti devastanti.  Non che tutto prima filasse alla perfezione o che già non si fosse parlato di mettere fine ad un governo che non riusciva più ad essere operativo, ma non si era verificato nulla di particolare che la giustificasse qui e ora. La situazione ingarbugliata che è seguita lo dimostra.
La fretta di concluderla quanto prima non giova alla sua soluzione. Che potranno dire di preciso e di positivo martedì, 27 agosto, gli stessi che Mattarella ha sentito cinque giorni prima in preda a confusione e a indeterminatezza?
Può essere che proprio questa mancanza di direzione alternativa al voto anticipato sia la migliore e più efficace per indurre Mattarella a sciogliere le Camere e a procedere a nuove elezioni. Salvo che anche Mattarella non sia preso da ripensamento e metta su un governo istituzionale per gli adempimenti più immediati.

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