La situazione dei Cinquestelle
nella circostanza della crisi di governo e della sua eventuale soluzione è
apparentemente privilegiata rispetto a quella di altri in quanto ha due
possibilità, o accordarsi col Pd o riaccordarsi con la Lega. E’ la politica dei
due forni, come si dice con una metafora collaudata fin dalla prima repubblica.
Appare tuttavia fatalmente rovinosa. I Cinquestelle, già abbastanza cotti nel
precedente forno leghista, potrebbero finire di cuocersi nel forno dem. Fuor di
metafora, il M5s ha perso molto della sua carica primigenia, per intenderci dei
tempi in cui umiliava Bersani in
streaming, e le sue prospettive oggi sono tali che non può scegliere il bene
maggiore ma casomai il male minore. E questo non sta né nell’uno né nell’altro
forno, ma lontano dai forni, ovvero nell’affrontare le elezioni subito. Vedrebbe
diminuire i suoi voti e i suoi seggi in parlamento, ma potrebbe recuperare una
parte di credibilità persa e ricominciare su alcuni punti particolarmente
identitari, se così si può dire per un movimento che si è caratterizzato
proprio per la sua mancanza di identità. Potrebbe dire al suo elettorato: in
quindici mesi abbiamo fatto delle cose buone e degli errori; ridateci la fiducia
per dimostrare di saper continuare a fare cose buone e di aver imparato ad
evitare gli errori.
L’accordo col Pd nel segno della
discontinuità, formula dem, con cambio di premier e abolizione di alcuni
provvedimenti in tema di immigrazione e sicurezza, sarebbe per i Cinquestelle come
un’ammissione di colpevolezza e di incapacità, confligge con la loro formula,
che è di sostanziale continuità. E’ in questo dilemma continuità-discontinuità
che si consuma il tentativo di accordo fra il più scafato dei partiti italiani
e il più atipico movimento populista.
Perché i Cinquestelle non continuino
ad essere colpevoli ed incapaci i Dem propongono loro un governo assieme. Si sa
che i Dem si ritengono gli unici “unti” dal signore: loro, i capaci, gli
onesti, i puri, sani per sé e curativi per gli altri.
Per i Cinquestelle non dovrebbe
essere difficile veder chiaro. Non è passato un secolo, ma appena dieci anni,
da quando essi sono nati e si sono affermati proprio contro quelli coi quali
oggi potrebbero fare un governo. Se i Dem sono l’acquasanta, il M5s è il
diavolo, o viceversa.
Peraltro i Dem non sono cambiati,
sono gli stessi di sempre, con un pizzico di spocchia in più in presenza del
fallimento del governo degli altri, di quelli che avrebbero dovuto realizzare
il cambiamento. Se i Cinquestelle dovessero fare il governo coi loro più
ostinati avversari, coi loro nemici storici, finirebbero per suicidarsi,
arriverebbero alle prossime elezioni ai minimi termini. La levata di scudi di
alcuni loro rappresentanti, Di Battista e Paragone, interessi personali a
parte, che pure ci sono, che si oppongono a qualsiasi intesa coi Dem, dimostra
come nel Movimento si coltiva ancora l’ambizione della diversità e l’aspirazione
a cambiare il paese. Come cambiarlo il paese con chi ha contribuito a renderlo
così com’è? Al limite si potrebbe solo risolvere qualche piccolo problema di
normale amministrazione. La base, inoltre, si è scatenata contro simile
prospettiva.
L’alternativa, tuttavia, non
lascia tranquilli. Il riaccordo con la Lega, proposto da una parte dei
Cinquestelle, dopo il tornado estivo di Salvini, suscita non poche perplessità.
Tutti i no detti dai Cinquestelle diventerebbero dei sì? O la Lega ritirerebbe
tutte le sue proposte non condivise? I problemi che c’erano prima della caduta
del governo molto probabilmente resterebbero anche dopo. Forse Salvini
diventerebbe più prudente e riflessivo e Di Maio starebbe più attento e
guardingo. Ma in buona sostanza il nuovo governo gialloverde sarebbe copia
conforme al precedente, con qualche ministro sostituito. Ci sarebbe, inoltre,
l’ostacolo Conte, che, data la sua avversione alla Lega, avrebbe qualche
difficoltà a riproporsi alla guida. Nel suo discorso “catilinario” in Senato
del 20 agosto, fra i tanti errori fatti, c’è quello madornale di rompere in
maniera anche personale con Salvini e la Lega, dimostrando scarsa dimestichezza
con le cose politiche. Mai essere ultimativi in politica.
L’opzione voto anticipato, che è
poi la soluzione giusta per tutti, sarebbe per il M5s una via d’uscita
importante. E’ vero che si vedrebbe ridimensionato, ma con un bagaglio notevole
di esperienze acquisite ed una classe dirigente cresciuta e scaltrita. Ci
sarebbe un ricompattamento ed una ripartenza su una base comune ritrovata.
E’ inutile nascondere la
confusione che regna oggi nel Movimento coi diversi leader che si dividono su
tutto, perfino sull’opportunità di contarsi sulla piattaforma Rousseau per
decidere se fare o non fare l’accordo col Pd o se lasciare Conte alla guida di
un eventuale nuovo governo.
E’ realistico constatare che dopo l’esperienza governativa il M5s è
ridimensionato, non solo nel numero ma anche nella carica propositiva. Sa che
non si può governare da soli e che con gli altri occorre fare non un contratto
ma un patto politico per riconoscersi su un comune programma di legislatura. In
difetto non sarebbe una tragedia, anzi, tornare all’opposizione potrebbe
giovare. Ma con l’appreso come viatico!
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