domenica 8 ottobre 2023

La scuola e la dignità degli insegnanti

Lo diceva Aristotele: nomina sunt consequentia rerum. I nomi conseguono alle cose. Sarà stato anche per questo che per secoli e secoli le cose sono state chiamate coi loro nomi. È una questione di comunicazione. Oggi si tende a cancellare anche questa verità. Così quella che una volta si chiamava delinquenza minorile oggi si chiama bullismo. Si parte dal presupposto che un minore non possa delinquere, proprio perché minore. Quella che prima si chiamava pena oggi si chiama rieducazione, comunque niente di afflittivo, perché l’afflizione non educa ma incattivisce la persona. Qui il discorso diventa più complicato perché ripropone l’antico dilemma: si rieduca con la punizione o con la persuasione? I due ragazzi che in una nostra scuola hanno sparato al loro professore di Diritto con una pistola ad aria compressa sono stati “puniti” con quattordici giorni di sospensione e cinque in condotta. Una punizione che può tradursi in niente, perché la sospensione è un non frequentare la scuola e per dei ragazzi che sparano ai loro professori è un mezzo premio mentre il cinque in condotta è ipotetico. Le nuove disposizioni infatti lo prevedono non sulla base di un episodio ma su tutto il comportamento dell’alunno nel corso del quadrimestre o dell’anno intero. Se i due ragazzi non daranno adito ad altri provvedimenti “rieducativi” riscuoteranno a fine anno il loro bell’otto o nove in condotta. A poco vale sostenere che l’atto dei due ragazzi è dovuto alla voglia smodata di esibizione, di far parlare gli altri di sé, di uscire dall’anonimato in un modo qualsiasi, meglio se in maniera clamorosa. L’importante è che gli altri ne parlino. Va da sé che chi non può o non sa far parlare bene di sé può senz’altro far parlare male, che è cosa assai più facile e alla portata di tutti. Fin qui l’alunno. E il professore? Sembra che per uno stipendio da fame, addirittura umiliante se paragonato a quello che guadagna un qualsiasi artigiano, il professore debba esporsi a tutti gli insulti e le vessazioni dei ragazzi, fino a subire veri e propri attacchi fisici o da loro o dai loro genitori. Il professore, quando la pena era pena, era rispettato, almeno formalmente. Se voleva sapere che pensassero i suoi alunni di lui poteva solo chiederlo alle pareti dei bagni, dove fra epigrammi e vignette scopriva quanto fosse amato e stimato. Oggi sembra che il professore non abbia più una sua dignità, non abbia più diritti, che nel suo stipendio da fame e umiliante siano compresi anche gli insulti e gli attacchi pubblici. È stato detto che il professore di Diritto vittima del bullismo di due suoi alunni sbagliava a chiedere l’espulsione degli stessi e alla fine ha rinunciato perfino a ricorrere alla giustizia ordinaria. Tutti in Italia lo possono fare, tranne l’insegnante, che, per essere un educatore, per come oggi si intende questa figura, deve avere nei confronti dei suoi educandi una disposizione senza limiti a subire di tutto. Sfregi alla sua auto, ingiurie scritte a caratteri cubitali sulle pareti della sua scuola, sberleffi in classe, pareti di bagni trasferite sui social, se occorre perfino mazzate dai genitori dei suoi alunni. E lui, niente: non può, non deve, non vuole. Si dice: non è opportuno. E perché? Perché un insegnante deve dare l’esempio. Nel momento in cui diventa un insegnante finisce di essere un cittadino come tutti gli altri, di avere una sua dignità, per dare l’esempio. Ma di che? Di non smettere mai di dimostrare che l’educazione è sempre e soltanto fatta di clemenza, di comprensione, di persuasione. Sembra quasi che un buon insegnante è quello che passa attraverso esempi di rinuncia a difendersi, di ambire quasi ad essere preso a pubbliche umiliazioni per dimostrare di essere un educatore di vaglia, uno che rinuncia a rivalersi. Non è scritto da nessuna parte, ma è universalmente accettato che tra alunno e professore c’è una presunzione di ragione sempre in favore dell’alunno. E se pure questi commette un atto di delinquenza o come si dice di bullismo nei suoi confronti, deve essere sempre capito, perché lui ha il diritto di essere educato e tu, professore, il dovere di educarlo. In una società in cui contano il potere e il successo in ogni loro forma o declinazione l’insegnante è l’unica figura di cittadino che deve presentarsi come l’elogio della debolezza e della frustrazione. Non si creda che i casi di bullismo come lo sparare al professore in fin dei conti sono rarità. La vita dell’insegnante, nella sua routine è spesso un far finta di non vedere, di non sentire per non dover parlare, per il quieto vivere. Non è così tutta la scuola, per fortuna; ma è anche così la scuola!

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