Joseph Ratzinger va verso i
novant’anni; ha avuto un ictus e non vede dall’occhio sinistro; ha una grafia
minuta e da sempre scrive a matita, stenografando. I suoi libri hanno ancora un
successo straordinario nel mondo. La trilogia del suo “Gesù” è fondamentale per
gli studiosi di cristologia. Più che al culto mariano è legato a Gesù:
“La venerazione di Maria mi ha segnato – dice – ma mai disgiunta da quella per
Gesù Cristo, bensì al’interno di essa”.
Nel suo ultimo libro-intervista Benedetto XVI. Ultime conversazioni,
curato da Peter Seewald, uscito in Germania col titolo Letzte Gespräche nel 2016 per la Droemer Verlag e in
Italia per la Garzanti, ma distribuito anche dal “Corriere della Sera”, egli si
racconta in lungo e in largo, apparentemente in libertà, ma sempre molto
abbottonato e protetto dal suo tratto agostiniano. Spesso, alle domande
dell’intervistatore, ride divertito e compiaciuto.
“Agostino – dice – lotta con sé
stesso, anche dopo la conversione, ed è questo che rende la sua esperienza
tanto bella e drammatica”. E’ la sua stessa condizione, nella quale è maturata
la sua decisione di lasciare il soglio pontificio; ma anche quella del dopo.
Una decisione spontanea –
assicura – senza nessuna pressione esterna, “perché non bisogna lasciare quando
si è sotto pressione”; “Alle richieste non ci si deve piegare, naturalmente. E’
per questo che nel mio discorso ho sottolineato che io agivo liberamente”;
“Sono convinto che non si sia trattato di una fuga, e sicuramente non di una
rinuncia dovuta a pressioni esterne, che non esistevano”. Parole sue! Ma questo
riguarda il suo percorso di fede.
Nella storia il discorso è
diverso. Ratzinger lascia per motivi di salute: “Anche il medico mi disse che
non avrei dovuto attraversare l’Atlantico. […] Per me era chiaro che avrei
dovuto dimettermi in tempo perché il nuovo papa andasse a Rio [per la Giornata Mondiale
della Gioventù]”. Esclude che abbia mai costituito un problema per la Chiesa:
“che io fossi, per così dire, il problema della Chiesa non lo ritenevo allora
né lo ritengo oggi”.
La sua è una scelta che viene da
lontano. “Fede e ragione – dice – sono i valori in cui ho riconosciuto la mia
missione e per le quali la durata del pontificato non era importante”. Esclude
addirittura che potesse essere dissuaso dal dimettersi: “dentro di me ero certo
di doverlo fare, e quando è così, uno non lo si può dissuadere”.
Non sempre è convincente.
Non convince, per esempio, l’entrare e uscire dalla dimensione spirituale, il
voler conciliare l’opportunità di lasciare per motivi di salute con motivazioni
di fede, il suo scendere dalla croce dimettendosi e il suo diversamente restare,
il funzionalismo della carica col mandato divino attraverso lo Spirito Santo.
Non convince quando afferma che lui si è dimesso in un momento tranquillo della
chiesa: “uno non può dimettersi quando le cose non sono a posto, ma può farlo
solo quando tutto è tranquillo”. La cronaca del suo tempo lo smentisce.
Soprattutto non convince sull’astio dei tedeschi nei suoi confronti: “In
Germania […] alcune persone cercano da sempre di distruggermi”. A Berlino, nel
settembre del 2010, fu accolto male.
Quando non convince, tuttavia, lo
mette in conto. “In questo mondo – dice – il messaggio di Cristo è uno scandalo
iniziato con Cristo stesso. Ci sarà sempre contraddizione, e il papa sarà
sempre segno di contraddizione. E’ una sua caratteristica distintiva, ma ciò
non significa che deve morire sotto la mannaia”.
Convince certamente quando parla
distante dalla sua esperienza. “La Chiesa è in movimento – afferma – è
dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi”. E dunque è
stato un bene il cambio con l’arrivo di Bergoglio, che ha portato “una nuova
freschezza in seno alla Chiesa, una nuova allegria, un nuovo carisma che si
rivolge agli uomini”.
Su uno degli aspetti più
controversi della Chiesa, centralismo romano e localismi, pur approvando “che
le Chiese locali siano il più possibile autonome e vitali, senza bisogno di
assistenza da parte di Roma”, ribadisce che “è importante anche che [esse]
restino aperte le une verso le altre e anche verso il ministero petrino, perché
altrimenti è facile che prevalga l’elemento politico, nazionale, e si crei un
impoverimento culturale” e che “non è possibile fare a meno del ministero
petrino e del ministero dell’unità”.
Nel suo lungo percorso di docente
è importante e significativo il suo esordio, che non fu affatto facile. Su di
lui si incentrarono non pochi sospetti, addirittura di eresia. Accadde quando,
in seguito alla sua esperienza di cappellano a Bogenhausen, pubblicò nel 1958
l’articolo “I nuovi pagani e la Chiesa” e quando sostenne a Frisinga l’esame di
abilitazione alla libera docenza. Fu per lui un’autentica umiliazione, lo
superò non senza contrasti; ebbe la sensazione di trovarsi “sull’orlo di un
baratro”. E tuttavia quell’esperienza la visse come una prova di vita
importante. “Credo che per un giovane sia pericoloso bruciare una tappa dietro
l’altra ricevendo sempre e solo elogi”. Aveva ottenuto il dottorato, ora
l’abilitazione. Tutto molto in fretta. “Era giusto – dice – che subissi
quell’umiliazione”. Ma anche dopo non gli fu facile l’avvio accademico e spesso
entrò in conflitto coi suoi colleghi in teologia. Insomma, letti con un minimo
di dietrologia, contrasti e difficoltà hanno un significato diverso e forse
mettono in una luce diversa le sue dimissioni da papa.
Personaggio amletico o, come lui
ama dirsi, agostiniano, Ratzinger è incerto, dubbioso; ricorda il nostro
Petrarca del Secretum, agostiniano
pure lui. Che fosse incerto lo dimostra perfino nell’uso della matita anziché
della penna: “Scrivevo così da ragazzo e mi è rimasta l’abitudine. La matita ha
il vantaggio che si può cancellare. Quando scrivo con l’inchiostro, ciò che è
scritto è scritto”.
Ma, nonostante le difficoltà e le
incomprensioni, la carriera di accademico di Ratzinger passa di successo in
successo, Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona; poi la carriera religiosa con la
nomina di vescovo a Monaco.
La sua affermazione più
importante e decisiva fu quando chiamato dal Cardinale Josef Frings, prima
scrisse nel 1961 per suo conto la relazione di Genova, “Il Concilio e il
pensiero moderno”, con la quale si dava l’imput al Concilio e per la quale Giovanni
XXIII si congratulò, e poi teologo ufficiale del Concilio
Vaticano II. Nel 1977 fu nominato
arcivescovo di Monaco e Frisinga da Paolo VI; poi cardinale e infine Prefetto
della Congregazione per la dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio) a Roma,
nominato da Giovanni Paolo II. Il 19 aprile del 2005 fu eletto papa col nome di
Benedetto XVI.
Il 28 febbraio del 2013 si
chiude, con le sue dimissioni, il cerchio della sua straordinaria carriera,
iniziata nelle difficoltà e nelle incomprensioni e finita in altrettante
difficoltà e incomprensioni.
E’ un libro, questo, che non
aggiunge granché al già conosciuto di questo controverso papa, ma, avendone
data egli stesso l’autorizzazione a pubblicarlo, costituisce un documento
essenziale per gli studiosi e gli storici.
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