domenica 9 ottobre 2016

Papa Ratzinger si racconta


Joseph Ratzinger va verso i novant’anni; ha avuto un ictus e non vede dall’occhio sinistro; ha una grafia minuta e da sempre scrive a matita, stenografando. I suoi libri hanno ancora un successo straordinario nel mondo. La trilogia del suo “Gesù” è fondamentale per gli studiosi di cristologia. Più che al culto mariano è legato a Gesù: “La venerazione di Maria mi ha segnato – dice – ma mai disgiunta da quella per Gesù Cristo, bensì al’interno di essa”.
Nel suo ultimo libro-intervista Benedetto XVI. Ultime conversazioni, curato da Peter Seewald, uscito in Germania col titolo Letzte Gespräche nel 2016 per la Droemer Verlag e in Italia per la Garzanti, ma distribuito anche dal “Corriere della Sera”, egli si racconta in lungo e in largo, apparentemente in libertà, ma sempre molto abbottonato e protetto dal suo tratto agostiniano. Spesso, alle domande dell’intervistatore, ride divertito e compiaciuto.
“Agostino – dice – lotta con sé stesso, anche dopo la conversione, ed è questo che rende la sua esperienza tanto bella e drammatica”. E’ la sua stessa condizione, nella quale è maturata la sua decisione di lasciare il soglio pontificio; ma anche quella del dopo.
Una decisione spontanea – assicura – senza nessuna pressione esterna, “perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione”; “Alle richieste non ci si deve piegare, naturalmente. E’ per questo che nel mio discorso ho sottolineato che io agivo liberamente”; “Sono convinto che non si sia trattato di una fuga, e sicuramente non di una rinuncia dovuta a pressioni esterne, che non esistevano”. Parole sue! Ma questo riguarda il suo percorso di fede.
Nella storia il discorso è diverso. Ratzinger lascia per motivi di salute: “Anche il medico mi disse che non avrei dovuto attraversare l’Atlantico. […] Per me era chiaro che avrei dovuto dimettermi in tempo perché il nuovo papa andasse a Rio [per la Giornata Mondiale della Gioventù]”. Esclude che abbia mai costituito un problema per la Chiesa: “che io fossi, per così dire, il problema della Chiesa non lo ritenevo allora né lo ritengo oggi”.
La sua è una scelta che viene da lontano. “Fede e ragione – dice – sono i valori in cui ho riconosciuto la mia missione e per le quali la durata del pontificato non era importante”. Esclude addirittura che potesse essere dissuaso dal dimettersi: “dentro di me ero certo di doverlo fare, e quando è così, uno non lo si può dissuadere”.
Non sempre è convincente. Non convince, per esempio, l’entrare e uscire dalla dimensione spirituale, il voler conciliare l’opportunità di lasciare per motivi di salute con motivazioni di fede, il suo scendere dalla croce dimettendosi e il suo diversamente restare, il funzionalismo della carica col mandato divino attraverso lo Spirito Santo. Non convince quando afferma che lui si è dimesso in un momento tranquillo della chiesa: “uno non può dimettersi quando le cose non sono a posto, ma può farlo solo quando tutto è tranquillo”. La cronaca del suo tempo lo smentisce. Soprattutto non convince sull’astio dei tedeschi nei suoi confronti: “In Germania […] alcune persone cercano da sempre di distruggermi”. A Berlino, nel settembre del 2010, fu accolto male. 
Quando non convince, tuttavia, lo mette in conto. “In questo mondo – dice – il messaggio di Cristo è uno scandalo iniziato con Cristo stesso. Ci sarà sempre contraddizione, e il papa sarà sempre segno di contraddizione. E’ una sua caratteristica distintiva, ma ciò non significa che deve morire sotto la mannaia”. 
Convince certamente quando parla distante dalla sua esperienza. “La Chiesa è in movimento – afferma – è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi”. E dunque è stato un bene il cambio con l’arrivo di Bergoglio, che ha portato “una nuova freschezza in seno alla Chiesa, una nuova allegria, un nuovo carisma che si rivolge agli uomini”.
Su uno degli aspetti più controversi della Chiesa, centralismo romano e localismi, pur approvando “che le Chiese locali siano il più possibile autonome e vitali, senza bisogno di assistenza da parte di Roma”, ribadisce che “è importante anche che [esse] restino aperte le une verso le altre e anche verso il ministero petrino, perché altrimenti è facile che prevalga l’elemento politico, nazionale, e si crei un impoverimento culturale” e che “non è possibile fare a meno del ministero petrino e del ministero dell’unità”. 
Nel suo lungo percorso di docente è importante e significativo il suo esordio, che non fu affatto facile. Su di lui si incentrarono non pochi sospetti, addirittura di eresia. Accadde quando, in seguito alla sua esperienza di cappellano a Bogenhausen, pubblicò nel 1958 l’articolo “I nuovi pagani e la Chiesa” e quando sostenne a Frisinga l’esame di abilitazione alla libera docenza. Fu per lui un’autentica umiliazione, lo superò non senza contrasti; ebbe la sensazione di trovarsi “sull’orlo di un baratro”. E tuttavia quell’esperienza la visse come una prova di vita importante. “Credo che per un giovane sia pericoloso bruciare una tappa dietro l’altra ricevendo sempre e solo elogi”. Aveva ottenuto il dottorato, ora l’abilitazione. Tutto molto in fretta. “Era giusto – dice – che subissi quell’umiliazione”. Ma anche dopo non gli fu facile l’avvio accademico e spesso entrò in conflitto coi suoi colleghi in teologia. Insomma, letti con un minimo di dietrologia, contrasti e difficoltà hanno un significato diverso e forse mettono in una luce diversa le sue dimissioni da papa.
Personaggio amletico o, come lui ama dirsi, agostiniano, Ratzinger è incerto, dubbioso; ricorda il nostro Petrarca del Secretum, agostiniano pure lui. Che fosse incerto lo dimostra perfino nell’uso della matita anziché della penna: “Scrivevo così da ragazzo e mi è rimasta l’abitudine. La matita ha il vantaggio che si può cancellare. Quando scrivo con l’inchiostro, ciò che è scritto è scritto”.
Ma, nonostante le difficoltà e le incomprensioni, la carriera di accademico di Ratzinger passa di successo in successo, Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona; poi la carriera religiosa con la nomina di vescovo a Monaco.
La sua affermazione più importante e decisiva fu quando chiamato dal Cardinale Josef Frings, prima scrisse nel 1961 per suo conto la relazione di Genova, “Il Concilio e il pensiero moderno”, con la quale si dava l’imput al Concilio e per la quale Giovanni XXIII si congratulò, e poi teologo ufficiale del Concilio Vaticano II.  Nel 1977 fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da Paolo VI; poi cardinale e infine Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio) a Roma, nominato da Giovanni Paolo II. Il 19 aprile del 2005 fu eletto papa col nome di Benedetto XVI.
Il 28 febbraio del 2013 si chiude, con le sue dimissioni, il cerchio della sua straordinaria carriera, iniziata nelle difficoltà e nelle incomprensioni e finita in altrettante difficoltà e incomprensioni.

E’ un libro, questo, che non aggiunge granché al già conosciuto di questo controverso papa, ma, avendone data egli stesso l’autorizzazione a pubblicarlo, costituisce un documento essenziale per gli studiosi e gli storici. 

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