domenica 16 ottobre 2016

Dario Fo: fine di un giullare


E’ morto, ma sembrava che scherzasse. Ricoverato da una decina di giorni per una crisi cardiorespiratoria, si è spento giovedì, 13 ottobre. Un giorno o due prima del ricovero si era esibito in un lungo monologo di tre ore. Soffriva, ma recitava. Aveva novant’anni, ma saltellava sul palcoscenico come un saltimbanco.
Dario Fo se n’è andato così, tra mille polemiche. A sollevarle il figlio Jacopo, che ha scambiato un umanissimo tributo ad un grande talento del palcoscenico, un artista geniale, con un ipocrita consenso verso il padre, che, in vita, ne aveva fatte di cotte e di crude e si era creato numerosissimi nemici ed altrettanti amici.
Ora tutti lo osannate, ipocriti, quando prima lo avete perseguitato e condannato. Più o meno si è espresso così. Probabilmente Jacopo ha preso dalla madre Franca Rame. Dario l’avrebbe messa sul ridere, perché lui le cose del mondo sapeva perfettamente come vanno.
Dario Fo la sua vita da irregolare la iniziò nel 1943 aderendo alla Repubblica Sociale Italiana (Salò). Aveva 17 anni; ma dopo lui non ci stava a passare per un fascista, alleato dei nazisti. Se ne parlò negli anni Settanta di questa cosa, sotto l’incalzare della contestazione studentesca, il Sessantotto e il terrorismo. Poi tentò di spiegare il suo essere stato repubblichino: coprire il padre partigiano, salvare la pelle e cose del genere. Tutte comprensibilissime, intendiamoci, ma con certi vestiti non si va alla prima comunione.
Il suo problema, che è di tutti gli uomini di spettacolo, fu la platea. Senza pubblico non esiste l’attore, come non esiste la luce senza il buio. Era intelligente e capì che il suo pubblico non poteva essere che quello popolare, di sinistra, comunista, antifascista soprattutto. Dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino, e oltre, il vento non è mai cambiato. Strada facendo si è modificato, come quei virus che resistono proprio perché si trasformano.
Dopo aver predicato il comunismo senza neppure chiedersi quanta libertà abbiano mai concesso i regimi che al comunismo si ispiravano, Fo si era convertito ai diritti civili, senza accorgersi della profonda contraddizione. Ma chi se ne fotte – avrà pensato Dario – quel che conta è il pubblico; e il pubblico mi applaude. Quel che conta è il successo; e senza quelle idee non se ne fa. Addosso ai re, ai papi, ai ricchi e ai potenti: sono così fessi che ridono pure!
Non ci voleva molto ad accorgersene. Onori e riconoscimenti per tutta la seconda metà del Novecento sono andati ai soliti comunisti, attentamente travestiti da asceti e mistici della libertà. Del resto, a 17 anni, quando aderì a Salò, in una situazione che in molti casi non lasciava libertà di scelta, non aveva ancora maturato nessun interesse di vita; e si era formato durante il regime tra, marce, guerre, bandiere e mistica fascista. Qualcuno ha perfino detto – Mattia Feltri su “La Stampa” del 14 ottobre – che “a guardar bene la vita politica del Nobel ha seguito una linea di coerenza espressa attraverso un ribellismo giovanile simile a quello adulto e senile”. Ma lasciamo stare. Il carattere è una cosa, la coscienza politica e civile un’altra! 
Il pubblico, il successo, i soldi sono l’ossessione dei teatranti. Essi costituiscono una razza a sé. A volte trasformano le loro stesse esperienze di vita in spettacolo. Franca Rame, violentata da alcuni neofascisti – così dicono e così dico – strumentalizzò la traumatica e orrenda esperienza ricavandone una pièce teatrale, che a vederla c’era da contorcersi non dalle risa ma dal mal di stomaco; uno spettacolo che nascondeva la gravità del fatto con lo sconcerto della sua rappresentazione.
Gli attori, i cantanti e tutti gli uomini di spettacolo seguono i gusti del pubblico; e di chi se no? Dicono tutti la stessa cosa e tutti per lo stesso motivo. Unipensiero, unipensanti. E’ una questione di mercato, dell’odiato mercato. Una cosa è ciò che pensano nell’intimo e un’altra è ciò che conviene dire e fare. Sì, ci sono pure i tipi alla Albertazzi, che non rinnegò mai il suo essere stato un combattente della Repubblica di Salò. Ma non si può pretendere che una rondine faccia davvero primavera.
Dario Fo è stato un uomo di talenti, geniale. Non v’è dubbio. Di originale, però, non ha detto niente. Bravo, bravissimo come attore; bravo, bravissimo come pittore. Ha affondato le mani nella tradizione medievale italiana. Da quel guitto naturale che era parlava col corpo, con la mimica. Il suo grammelot non era altro che una miscela di rumori vocali e di gestualità. Ha semplicemente trasformato cose altrui, dando loro significati ispirati e richiesti dall’attualità, in una direzione che alimentava il pubblico e il successo.
Bella scoperta, potrebbe dire qualcuno: quale attore va di proposito a farsi fischiare? Quando cercò di forzare quel pubblico, di allargarsi, fu stoppato. La Rai lo cacciò in seguito a certo suo uso politico che ne voleva fare, a prescindere se quello che diceva era sostenibile o meno.
Ma anche qui: dove sta l’osceno? Tu non puoi servirti di un mezzo pubblico, come la televisione, per far passare messaggi che sono rivolti ad un pubblico che non è venuto a vederti e a sentirti di proposito pagando il biglietto, ma se ne sta in casa sua, ha pagato il canone ed ha il diritto sacrosanto di non essere insultato. La differenza tra un teatro, una piazza e la televisione, specialmente ai tempi di quando c’era un solo canale televisivo, è che mentre al teatro uno va di proposito, in piazza si ferma se è interessato, la televisione viene a trovarti in casa coi suoi portati di informazione e coi suoi spettacoli. C’è una bella differenza, che non può essere trascurata o misconosciuta.
La sua assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1997, a prescindere se lo meritava o meno – per me lo meritava – fu dovuto non tanto all’uomo di spettacolo quanto alla solita ragione politica. Andava premiato un uomo di sinistra, schierato su posizioni ideologiche che avrebbero fatto parlare e discutere all’infinito. Come all’infinito fa discutere l’assegnazione dello stesso premio, diciannove anni dopo, ad un cantante pop, a Bob Dylan. Perché, in fondo, anche l'Accademia di Stoccolma cerca una platea che discuta e rumoreggi sul nulla.
La sua adesione al movimento di Beppe Grillo? Un po’ per amicizia, un po’ per colleganza e tanto per pubblico garantito.  

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