Erano trascorsi esattamente
quattro anni da quando il 9 maggio 1978 fu trovato in via Caetani a Roma il
cadavere di Aldo Moro nella Renault 4
rossa fra Via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e Piazza del Gesù, sede
della Dc. Era stato ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia.
Moro non era amato dagli italiani
e neppure dai democristiani, a parte una minoritaria componente di seguaci che
non si era mai formalizzata in corrente, come ce n’erano tante in quel partito.
Ma la morte, avvenuta dopo la strage dei suoi cinque uomini di scorta e un
lungo processo, detto del popolo, aveva creato intorno a lui un alone quasi di
martirio. Altri erano caduti in quegli anni sotto il fuoco del terrorismo rosso
e nero; altri ne sarebbero caduti dopo. Il Paese rinnovava dolore e
preoccupazione ogni volta che si verificava l’ennesimo attentato, l’ennesima
strage. Le vittime, importanti e meno importanti, e addiritture sconosciute,
quelle delle stragi, destavano compassione, a prescindere dalla loro
appartenenza partitica e dalla fede politica di ciascuno. Nessuno divenne moroteo
dopo e per la morte di Moro; semmai qualcuno se ne allontanò. Perfino i più
accaniti avversari sospesero giudizi e considerazioni per un sentimento di pietas verso lo scomparso.
Un po’ dappertutto in Puglia,
quasi in spirito risarcitorio, allo statista ucciso furono intitolati edifici
pubblici, vie e piazze, anche per il prodigarsi dei tanti democristiani che
ricoprivano cariche amministrative e rappresentative nelle istituzioni e negli
enti locali; i quali, senza essere morotei, promossero iniziative importanti.
All’epoca presidente della Regione Puglia era Nicola Quarta e della Provincia
di Lecce Pietro
Licchetta, entrambi democristiani di altra corrente.
Ad Acquarica del Capo, tranquillo
paesino del Capo di Leuca, a Moro, due anni dopo la morte, fu intitolata la
villa comunale da poco costruita e al centro della stessa gli fu eretto un
monumento, una stele di pietra col suo busto in bronzo, opera dello scultore
Franco Filograna, originario di Casarano e residente a Galatina. Nella parte
alta della colonna l’iscrizione “ad Aldo
Moro / maestro di sapere / e di vita / apostolo di libertà / dal martirio
consacrato / alla storia e all’Italia”. L’inaugurazione si tenne il 1°
giugno 1980. All’epoca era Sindaco il democristiano Giuseppe Palese, che, a
dire il vero, moroteo non era mai stato. L’iniziativa di dedicargli villa
comunale e monumento era partita all’indomani della tragedia di via Caetani.
La villa comunale di Acquarica
sorge alla periferia del paese poco prima di entrare nell’abitato di Presicce,
lungo la via che porta a Santa Maria di Leuca. La sera del 9 maggio 1982 –
chiaro l’intento “celebrativo” – intorno alle nove di sera, i residenti della
zona sobbalzarono in casa per uno scoppio improvviso che aveva fatto tremare i
vetri delle finestre. Si resero conto subito di quanto era accaduto fuori nella
villa. L’esplosione dell’ordigno posto
alla base del monumento aveva scaraventato a distanza il busto di Moro. La
pietra del basamento, che proveniva dal “manfìo”, una località posta tra
Taurisano, Ruffano e Casarano, simbolicamente a rappresentare la salentinità
del tributo reso allo statista di Maglie, aveva sostanzialmente retto. Il busto
rimase danneggiato, per fortuna non in modo grave, tant’è che non ci fu bisogno
di restauro. Anzi, a quel che riportarono le cronache del tempo, non si volle
restaurarlo per consegnare alla storia anche le tracce dell’attentato.
La notizia rimbalzò in tutta
Italia. Lo sconcerto fu enorme, la condanna unanime; a prescindere da simpatie
e antipatie, appartenenze ed avversioni. Oltre tutto Acquarica era stato da
sempre un comune tranquillo, dove raramente erano accaduti ed accadevano fatti
politici di rilievo. Qualche scontro politico di una certa importanza c’era
stato nell’immediato primo dopoguerra, quando si fronteggiarono per qualche
tempo ex combattenti e reduci, popolari e socialisti, fascisti e nazionalisti.
Ma tanto accadeva in ogni comune. Un attentato così grave ad un monumento era
un fatto nuovo; uno sfregio, tanto meno comprensibile perché portato ad un uomo
che aveva pagato con la vita il suo impegno pubblico. Legittimo da parte di
autorità e politici temere un terrorismo incipiente nel sud più sud d’Italia,
che avrebbe potuto annunciare imprese molto più gravi.
La macchina investigativa si mise
subito in moto e non impiegò molto tempo a giungere agli autori dell’attentato;
o forse furono gli stessi a costituirsi spinti dalle famiglie per evitare guai
peggiori. Erano sei giovani di Presicce, i quali, meno di un mese dopo, furono
processati e condannati. La sentenza fu mite, la pena più pesante di un anno e
quindici giorni di reclusione, con sospensione della stessa. Per i giudici
della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce fu una “ragazzata”,
l’impresa di ragazzi annoiati dalla vita di paese, monotona e vuota. Ma per
difendere quei ragazzi furono scomodati i migliori penalisti del foro leccese,
fra cui Aymone, Corleto, Salvi e Vernaleone. Francamente una sproporzione per
difendere una “ragazzata”. Lo stesso pubblico ministero, Rosario Colonna, escluse
la motivazione terroristica. Insomma, ci fu un concorso di “aiuti” molto
importanti nei confronti di quei ragazzi, che, tra ideazione del gesto
criminoso ed esecuzione, avevano dimostrato comunque di saperci fare.
Resta l’aspetto politico, che
sfugge alle attenuanti processuali. Si volle colpire il simbolo di un uomo
politico allo scadere di un anniversario della sua morte; un gesto senza dubbio
mirato e di avversione. Troppo poco tempo era passato dalla strage di Via Fani
e le polemiche che avevano sempre accompagnato le scelte politiche di Moro
avevano lasciato code. Non a caso la legge vuole che passino dieci anni dalla
morte prima che si intitoli un edificio o un luogo pubblico allo scomparso,
salvo che non si tratti di persona obiettivamente importante e nei confronti
della quale si è tutti d’accordo. Ma la condivisione istituzionale, per quanto
ampia possa essere e addirittura unanime, non sempre coincide con quella
popolare. Quel gesto, esecrabile, contro l’omaggio pubblico ad Aldo Moro, resta
un episodio politico non senza significato. Nessuno di quei ragazzi proveniva
da famiglia democristiana, socialista o comunista, ma tutti da famiglie
notoriamente di destra.
E’ bensì vero che gesti vandalici
contro monumenti sono stati compiuti e se ne compiono in tutta Italia. Per
restare nel Salento, ad Alessano alcuni anni fa fu messo in testa al monumento
di don Tonino Bello un secchio di immondizie dopo averglielo rovesciato
addosso; a Taurisano, una statua in marmo di Padre Pio, opera dello scultore
Donato Minonni, nemmeno ventiquattr’ore dopo la sua inaugurazione nella Villa
Comunale, fu presa a martellate e gravemente danneggiata.
Quella dei giudici leccesi, pur
senza fare dietrologie, fu una sentenza “politica” sicuramente importante. Si
volle esorcizzare la paura del terrorismo, e soprattutto, evitando condanne
esemplari, scongiurare “vittime” giudiziarie, che avrebbero potuto alimentare
l’avversione al sistema, come allora si diceva. Una scelta opportuna, se
consideriamo che quell’attentato sarebbe poi rimasto un fatto isolato con
grande soddisfazione di tutti. Fu una sentenza di grande saggezza e umanità.
Erano ragazzi, che potevano avere pure delle idee politiche, magari ancora
acerbe e confuse, ma alla loro età i gesti sono come i pensieri, d’istinto e in
libertà. Le autorità investigative accertarono che dietro non c’era nulla di
importante; e tanto bastò per chiudere lì la vicenda.
Ma l’iscrizione in alto sulla stele, con la bella dedica, non è stata
ancora ripristinata.
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