Dal Salento un caso a dir poco
singolare. Gli imputati al processo legato all’operazione di polizia “Eclissi” davanti
alla Corte d’Assise di Lecce hanno minacciato di ricusare gli avvocati che in
sede di dibattimento negano l’esistenza della sacra corona unita e fuori del
tribunale sostengono che la mafia nel Salento esiste – e come! – per dissuadere
il governo dal togliere a Lecce la Corte d’Appello. Per gli avvocati è un bel
problema. Difendendo la permanenza a Lecce della Corte d’Appello essi fanno gli
interessi propri, ma con argomentazioni che nuocciono ai loro clienti. Non
possono essere servi di due padroni, specialmente se uno dei due sono loro
stessi. E qui si configurerebbe un difetto di deontologia, dato che un avvocato
non può dire o fare cosa che nuoccia ad un suo assistito nell’ambito delle
accuse di cui è fatto oggetto.
Cosa chiedono gli imputati di
mafia? Che i loro avvocati abbiano una sola voce, quella della difesa dei loro
assistiti, dentro e fuori del tribunale. Chiedono, insomma, ai loro avvocati di
rinunciare al loro essere dei liberi cittadini e dei professionisti con le
proprie opinioni, con le proprie capacità critiche, in grado e nel dovere di
dare anche un contributo importante alla lotta alla mafia. Che, come ognuno sa,
è il male dei mali della società meridionale e ormai anche, purtroppo, della
nazione.
Ma il problema va ben oltre la
sortita apparentemente stravagante di questi imputati e pone un quesito che
interessa tutta la società: la sacra corona unita, esiste o non esiste più in
questo angolo d’Italia? Secondo alcuni storici, Andrea Apollonio , per
esempio, questa organizzazione ha cessato di esistere nel 2003. “La Sacra corona
unita ha compiuto una parabola storica lunga, tutto considerando, circa un
ventennio, esaurendo definitivamente la propria spinta propulsiva criminogena –
in quanto mafia a vocazione monopolistica – nella prima parte del primo
decennio degli anni Duemila. E, cerrto, ho avuto modo di riflettere sullo
strano destino della Sacra corona unita: sottovalutata negli anni di massima
espansione e radicamento, ampiamente sopravvalutata oggi, che non esiste più in
quanto struttura mafiosa, ed è
divenuta piuttosto un brand, un
«marchio» che, ove possibile, la criminalità locale sfrutta per i propri
abietti fini; ma che non risponde più alla realtà delle cose”. Questo si legge
nelle pagine introduttive del suo recente volume “Storia della Sacra corona unita. Ascesa e declino di una mafia anomala”
(Rubbettino, 2016). Questa affermazione, così netta e chiara, andrebbe nella
direzione favorevole agli imputati del suddetto processo e darebbero ragione a
metà agli avvocati che li difendono.
A metà perché, a rigor di logica,
non si può sostenere una verità in un luogo e negarla in un altro. Gli
imputati, quando chiedono agli avvocati di essere consequenziali, difendono se
stessi; e questo è un loro sacrosanto diritto. Senonché, da che mondo è mondo,
gli avvocati non difendono innocenti o colpevoli, difendono imputati e basta e
nell’esercizio professionale fanno di tutto, entro l’orizzonte giudiziario, di
far assolvere i loro assistiti o di ridurre al massimo la pena ove questi dovessero
risultare senza dubbio alcuno responsabili e condannabili.
A questo punto, più che gli
imputati a minacciare i loro avvocati di ricusarli, dovrebbero essere gli
avvocati, tutti, con alle spalle l’intero ordine, a minacciare di non difendere
più gli accusati di mafia, stante uno status insuperabile di conflittualità. Si
profila un braccio di ferro davvero importante sul piano etico-professionale.
Come venirne fuori?
Se si trattasse di reati comuni e
generici si potrebbe dire che in fondo un avvocato che difende un assassino non
è vincolato a dover difendere l’assassinio in generale anche fuori dal
tribunale. Ma qui si tratta di mafia e il caso è completamente diverso, direi
singolare. E’ proprio la singolarità della richiesta degli imputati di mafia
che potrebbe loro nuocere, connotandosi essa come tipicamente mafiosa, e quindi
del tutto contraria ai loro interessi se questi sono nel dimostrare di non
essere mafiosi. La loro pretesa, infatti, di impedire ai loro avvocati di dire
che esiste la mafia non solo serve a se
stessi a difendersi dall’accusa, che è sempre circostanziata, ma tende a difendere i loro sodali che sono
fuori. Se la Corte d’Appello dovesse lasciare Lecce i malavitosi, di ogni
ordine e grado, sarebbero meno vigilati dallo Stato.
Qui la partita è assai più
complessa di quanto appaia. La mafia, vera o presunta, rivendica il diritto e
la forza di condizionare scelte importanti delle istituzioni. Se così non fosse,
gli imputati di mafia potrebbero semplicemente affermare: la mafia esiste e
dunque la Corte d’Appello non si muove da Lecce, ma noi che c’entriamo? E qui
la parola passerebbe agli avvocati. I quali, pur convinti che la mafia esiste,
devono fare di tutto, secondo la loro deontologia, per dimostrare che i loro
assistiti nulla hanno a che fare con essa. Le cose nella giustizia hanno sempre
funzionato così. Pretendere che dei professionisti si deprivino della loro
componente sociale più importante, ossia di fare esercizio di libertà, se non è
mafia, è qualcosa di peggio.
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