Mario Signore è filosofo che non
esaurisce il suo compito nell’ermeneutica e nella storiografia filosofica,
dentro l’accademia, secondo una tendenza prevalente in Italia, ma fa incursioni
nell’attualità della polis,
intercetta i problemi, li analizza, offre contributi di soluzione. Dà un senso
al suo essere pensante e agente. «Solo così – dice – il filosofo non sarà il
fantasma che si aggira, indesiderato ospite, tra esperti che rivendicano
l’esclusività di “saper guardare a tutti”, ma un collaboratore discreto che
aiuta a conoscere anche la scienza e l’esercizio economici, impedendo in
qualche modo che diventino…antieconomici» e «ridurre i guasti di un
economicismo autoriferito». Così nel suo ultimo libro: “Prolegomeni ad una nuova/antica idea di Welfare” (Lecce, Pensa
Multimedia 2011, pp. 142). Ne ripercorriamo il percorso argomentativo, in condivisione di desiderio, dubbiosi nell’esito.
Parte dalla crisi epocale che
stiamo vivendo, generata dal mercato globale, che ha messo in discussione le
forme politiche, economiche e sociali, una fra tutte il Welfare. In ragione di questa crisi le classi dirigenti, i
tradizionali governanti, sono sempre più a responsabilità limitata. Il mondo è
in mano ad una élite globale, una sorta di Leviathan, che lascia ai governi
nazionali spazi operativi sempre più residuali. «La mobilità del capitale –
egli dice – e il potere ormai illimitato e senza vincolo dei mercati
finanziari, lasciano nella solitudine e senza protezione gli individui, che
dovrebbero tutelarsi da soli. […]… il “rischio” è divenuto insicurezza sociale,
la flessibilità tanto enfatizzata dal mercato del lavoro si è trasformata in “precarietà”
e perdita del futuro, per gli adulti e ancor più per i giovani» (pp. 28-29). E’
necessario perciò ripensare il Welfare,
partendo proprio da una «rivoluzione antropologica», che richiede a monte
un’operazione culturale importante, la conoscenza dell’uomo nella sua umanità,
che è qualcosa di più dell’uomo, «comprendendo anche in sé il sovraumano e il
post-umano» (p. 63). Egli ricorda con Heidegger che l’umanità dell’uomo va
pensata più riccamente per poter dare una risposta adeguata alla domanda was ist Mensch?, a cui finora la nostra
epoca non ha saputo rispondere (pp. 62-63).
Per questo, occorre
risemantizzare il linguaggio politico ed economico. Impresa non facile. Signore
è d’accordo con Darhendorf che dobbiamo abbandonare Malthus e Darwin e tornare
ad Adam Smith, perché «La ricchezza non equivale semplicemente al P.I.L. pro
capite, ma a quell’insieme di condizioni che concorrono a formare il
benessere», e «Un programma dettagliato per la reinclusione di quelle persone
temporaneamente o permanentemente escluse è tanto necessario quanto possibile»
(p. 71).
Saltato il vecchio modello di Welfare, è necessario costruirne un
altro su basi diverse e con soggetti diversi. Una forma solo apparentemente
nuova, però, dato che – dice Signore – rimanda per certi aspetti «al Basso
Medioevo, allorché istituzioni ecclesiastiche, corporazioni d’arte e mestieri,
confraternite e misericordie operavano insieme per assistere i bisognosi,
sostenere il credito per i poveri, intervenire per la cura di malati senza mezzi
economici» (p. 31). E’ la Big society, come l’ha proposta il premier
britannico David Cameron e in qualche modo richiamata di recente dal “Sole 24
Ore”, il quotidiano della Confindustria. Le comunità insomma dovrebbero
prendere il posto dello statalismo centralistico, ormai incapace di
provvedervi.
Quale il luogo in cui deve
realizzarsi questa nuova forma di Welfare
aperto e condiviso? Per Signore, che si rifà alla tradizione aristotelica, è la
polis, il solo luogo in cui l’uomo
può realizzarsi in tutta la sua interezza, umanità e complessità: «Solo nella
realtà della città l’uomo ha la possibilità di realizzarsi come uomo-intero,
sottratto all’astrattezza della mera individualità, attraverso un itinerario,
ben chiaro nella Politica di
Aristotele, che dalla vita personale conduce all’uomo “intero”, passando per
l’esperienza della polis» (p. 51).
All’interno di essa va fatta la ricerca delle categorie dei bisogni per
redigere una vera e propria tavola, giacché l’uomo è un “animale con bisogni”.
«Ogni concezione dei diritti – dice Signore – della libertà, della stessa
dignità umana [deve] fare i conti con la condizione di bisogno degli esseri
umani» (p. 91). Ma anche qui è necessario «almeno come ipotesi percorribile, la
possibilità non solo di una globalizzazione degli scambi commerciali e
finanziari, ma anche della globalizzazione di alcuni valori essenziali, tra i
primi certamente il valore della solidarietà,
che ha come riferimento universale, fondativo, la persona umana» (p. 69 e poi
129-130).
Una conversione radicale, perciò,
verso la “filosofia pratica”, una filosofia che interpreta il mondo e lo cambia
(p. 73). E se tra i bisogni economici e le libertà politiche si pone un
problema di «contrapposizione che finisce col negare la rilevanza dei secondi, facendo
leva sull’urgenza dei primi»? Signore va
oltre l’empirico suggerimento del primum
vivere e suggerisce la «logica dell’et
et, e non dell’aut aut, con la
logica ad includendum e non ad excludendum» (p. 92). «La democrazia
– aggiunge – cresce con il suo reale esercizio!» (p. 93). Essa «ha in sé la
capacità strumentale di rendere più trasparenti le azioni politiche a favore
dei bisogni di tutti, e di far pervenire ai politici la voce dei bisogni reali
e preferenziali, e dello strumento adeguato, un nuovo Welfare, per soddisfarli» (p. 95). E’ col mercato-incontro, col
dialogo aperto nell’agorà che si va
verso «una società giusta prima ancora che verso un’economia giusta». Più che
per la sua “società di decrescita” Latouche, secondo Signore, va
seguito per la sua «messa in discussione del primato dell’economia sugli altri
aspetti della vita» (pp. 96-97).
Connesso con l’idea di un nuovo Welfare è il problema «tra ricerca della
giustizia ed esercizio della democrazia, intesa quest’ultima come “governo per
mezzo del dibattito” (p. 109). Convinto assertore della democrazia liberale,
Signore è per una giustizia comparativa, ossia per una scelta sociale, aperta a
giuste relazioni.
Il saggio ha un doppio profilo: è
scientifico nella sua autoreferenzialità filosofica e nello stesso tempo ha un
approccio dialogante col mondo esterno, come specificamente detto in apertura.
Al netto delle ricche e dotte argomentazioni filosofiche, funzionali al
sostegno e alla comprensione della tesi di fondo, ora in condivisione ora in
dissenso con molteplici autori, Signore, senza mai citare una sola volta
cristianesimo o cattolicesimo – lo fa nell’extra-time
della Conclusione (pp.133-139) – in buona sostanza si “muove” entro le
coordinate del pensiero cattolico, secondo la lezione ratzingeriana di fede e
ragione. Non a caso il saggio si apre e si chiude con “fraternità”, che degli
immortali princìpi dell’89 è quello che «ha conosciuto minore sviluppo sul
piano etico-politico e sociale, fino quasi alla dimenticanza» (p. 19), ma
meglio caratterizza questa nuova/antica idea di Welfare. Basata sulla fraternità, essa costituisce un passo oltre
la solidarietà, pur importante ma risarcitoria, e perciò anche oltre la
sussidiarietà, che, per Signore, «si impone come norma etica quasi sempre coniugata
insieme alla “solidarietà”» (p. 137), prima di diventare anche,
“meritoriamente”, un’indicazione giuridica.
Fraternità universale, dunque, in
un incontro tra cristianesimo e illuminismo. Ma, se pur fosse possibile, nel
mondo ci sarebbe altro, c’è altro. E su tutto aleggia e resiste l’utopia.
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