mercoledì 11 luglio 2012

Ternitti di Mario Desiati, dalla dissoluzione familiare al recupero dei valori sociali

“Ternitti” evoca una malattia letale, il terribile mesotelioma pleurico, tristemente noto per le innumerevoli morti di lavoratori nelle fabbriche di Eternit e nelle località dove sorgevano; anzi, ne è la causa. Nell’omonimo romanzo di Mario Desiati (Mondadori 2011) è soprattutto una metafora. Lo scrittore di Locorotondo unisce nell’intreccio di questa storia vicende famigliari, ambientate negli anni Settanta e poi Novanta del secolo scorso, polarizzate su singoli personaggi di una famiglia salentina del Capo di Leuca (Antonio e Rosanna Orlando, Mimì, Biagino, Arianna). Sulla protagonista Mimì Orlando lo scrittore concentra le tematiche maggiori del romanzo, sullo staglio di fenomeni sociali di più ampia portata, emigrazione con conseguente dissoluzione familiare e patologie di lavoro, riferimenti a fatti che hanno segnato la storia italiana negli anni terminali del Novecento: strage di Bologna del 2 agosto 1980, sbarchi di clandestini extracomunitari sulle coste salentine. La realtà viaggia diegeticamente con la metafora. L’andar narrativo avanti e indietro non è solo una scelta estetica, una condizione non più rispondente alla classica tripartizione temporale, è un’indicazione di lettura, come un seguire due film in contemporanea su due video diversi. Ternitti devasta i polmoni di chi lavora nelle sue fabbriche come l’emigrazione devasta fatalmente la famiglia. Non c’è resistenza che tenga nell’uno come nell’altro caso; proteggersi è inutile.

Per lo scrittore di Locorotondo c’è uno studio dietro la sua storia, sul Salento più basso, estremo, su luoghi fisici, costumi sociali, sentimenti, comunicazione. Desiati dimostra di conoscere perfettamente i luoghi, gli ambienti, le abitudini degli abitanti e la lingua. Forse ha qualche difficoltà ad innestare il dialetto del Capo di Leuca, dall’inflessione ambigua e scivolosa, con vocali aperte e sfrangiate e consonanti strascicate, all’italiano. Ma chi ha contezza della varietà, anche linguistica, di cui è fatta la Puglia, non si meraviglia.

La scelta del Capo di Leuca come location è funzionale al messaggio del romanzo. L’ambiente si è caratterizzato fino ad anni assai vicini del Novecento per la sua forza, compattezza e chiusura. E’ quello che ha resistito di più alla modernizzazione, resa traumatizzante, quando è arrivata, da tanti fenomeni connessi, crisi dei valori tradizionali, scorciatoie nel sesso, nell’alcol e nella droga.

Il luogo dove i nostri vanno ad alloggiare a Zurigo è una fabbrica dismessa di vetro, laddove, indipendentemente dalla rispondenza reale – molti emigranti hanno alloggiato veramente anche per anni in fabbriche dismesse, palazzi abbandonati, baracche allestite dai datori di lavoro – il vetro è già simbolo di fragilità e frantumazione. Dove la giovanissima Mimì, contravvenendo alle più ferree leggi dell’onore familiare, va a giacere di notte nella branda del giovane compaesano Pati, così vicino ai genitori da sentirne il respiro. Ma già Mimì si presenta a quindici anni come una donna senza incertezze: ha bisogno di calore fisico e affettivo e se lo va a cercare, poi sarà quel che sarà.

Conseguenza dell’emigrazione è la dissoluzione famigliare, la perdita dei valori tradizionali. Un po’ come la Milano di “Rocco e i suoi fratelli” del 1960. Ma se nel film di Luchino Visconti il processo di dissoluzione è favorito dagli incontri dei protagonisti con la gente del luogo, nel romanzo di Desiati il processo fatalmente implode, perché anche a Zurigo, come in ogni altra città svizzera, gli emigranti di prima e seconda generazione costituivano gruppi chiusi, impenetrabili, fino ad avere storie d’amore e perfino a litigare e a picchiarsi tra di loro, come realisticamente descrive Desiati, a volte anche indulgendo in gratuito turpiloquio (coglioni, fica), in inaspettate stecche lessicali. Se l’autore voleva evidenziare la dissoluzione familiare anche di gruppi chiusi e consapevolmente protetti non poteva scegliere di meglio del Capo di Leuca, dove fino a pochi anni fa chi scendeva in certi paesini dell’entroterra aveva la sensazione di calarsi nella macchina del tempo e trasferirsi almeno a cinquant’anni addietro, pur provenendo da una località di confine.

Ternitti è il più salentino dei romanzi, non solo per l’ambientazione, la descrizione dei paesi (Scorrano, Tricase, Lucugnano, Alessano, Gagliano, Tiggiano, Corsano ecc.) e dei luoghi (la meravigliosa scogliera che da Leuca porta a Tricase, Marina Serra, il Ciolo), le tradizioni popolari, le prèfiche, le parasìe, le focarazze, ma soprattutto perché c’è la protagonista, Mimì Orlando, una donna che vive la modernità con una straordinaria compostezza interiore, tipica della saggezza senza tempo delle donne salentine. Mimì vive la condizione di stuprata della sua giovinezza, che inevitabilmente poi per spontanea compensazione reitera in anni non più giovanili (nel gioco di piccoli amori, partite a calciobalilla, pegni di verità), con la consapevolezza piena della sua condizione, in un equilibrio interiore che coniuga l’inevitabilità di un presente, da vivere con gentilezza, nonostante tutto, e un richiamo di quei valori della sua tradizione, ormai sfocati ma non tanto da non essere avvertiti e rispettati. La protagonista li sa trovare nei momenti più drammatici appartandosi a “parlare” coi suoi antenati, come gli antichi greci andavano a chiedere risposte agli oracoli. L’amore per il fratello deviato, “l’uomo rotto”, il dispiacere per la figlia quando la sente sempre più lontana da lei, la gioia quando la sente recuperata, sono i valori familiari di ritorno, quelli che alla fine fanno pensare positivo e sperare. Essi verbalizzano la superiorità dello spirito, che dalla dissoluzione finisce per recuperare il recuperabile e va avanti, sulla materialità, che, identificata in ternitti e nel suo terribile male, uccide per sempre. Che è anche la vittoria della metafora sulla realtà, della tradizione saggia sulla modernità sconsiderata.

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