A Roma la mattina del 4 febbraio
i romani potevano leggere affisso sui muri della città un manifesto anonimo con
accuse a Papa Francesco. “A France’, hai
commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e
i Francescani dell’Immacolata, ignorato i Cardinali… ma n’do sta la tua
misericordia?”. Una pasquinata, i contenuti della quale però rivelano una
fonte più alta, in quanto riferiscono provvedimenti relativi ai piani alti
della chiesa: congregazioni, ordini religiosi, cardinali. Per stare nello
schema della comunicazione, popolare non è il messaggio, ma il mezzo e il
destinatario. La protesta anti Bergoglio è passata dalle sale e dai corridoi
dei palazzi vaticani alle strade di Roma.
Da tempo si parla di opposizione
al verbo bergogliano tra teologi, ecclesiastici, gerarchie vaticane.
Conservatori e reazionari, come vengono chiamati dai progressisti coloro che
difendono l’ortodossia, scontenti delle cosiddette aperture del papa sudamericano,
considerate vere e proprie svendite dottrinali: gay, divorziati, unioni civili,
aborti e via permettendo dietro il carro che in Italia è tirato da radicali,
sinistra estrema e centri sociali, hanno deciso di portare nelle piazze le
ragioni del dissenso.
Quale la materia del contendere?
E soprattutto che cosa lega le cosiddette aperture di Bergoglio coi suoi
provvedimenti nei confronti di congregazioni e ordini?
Fatti salvi gli aspetti marginali
del modo di essere e di apparire di Papa Francesco, che riguardano la sfera
caratteriale, questo papa, nella sua politica inclusiva di peccatori, sacrifica
punti cardine della dottrina cattolica, fino a mettere in discussione perfino
il concetto di peccato. E va oltre quando afferma che la sua è la chiesa dei
poveri, con ciò dandole una connotazione esclusiva. Ne consegue che i ricchi,
solo per essere tali, sono esclusi dalla sua chiesa. E così quelli che ricchi
non sono ma vorrebbero esserlo. Ma una chiesa di parte non può rappresentare la
chiesa che, per definizione, è “assemblea”, perciò di tutti. Bergoglio vuole
una chiesa-partito. Il suo proclama sembra fare il paio con quello
engels-marxista “poveri di tutto il mondo unitevi”; anzi “peccatori di tutto il
mondo unitevi, purché siate poveri”, la chiesa vi accoglie, in nome della misericordia. I peccati dei poveri non sono peccati.
Papa Francesco, fin dal suo primo
pantofolato ingresso nel mondo dell’ecumene cristiana, “buonasera”, si è
proposto come il capo dell’internazionale dei poveri, non per far loro cambiare
condizione ma per esaltarne le virtù. Il suo atteggiamento mentale è di
esaltazione della povertà. In lui la condizione di povero non deve essere
considerata fase da superare verso la ricchezza secondo un ordine naturale e
universale – gli uomini da sempre tendono a vivere meglio – ma uno stato di
felicità da conservare e coltivare. In contrasto, chi è ricco e soprattutto chi
cerca di essere ricco, per Papa Bergoglio è un malvagio. Rispetto all’elogio
della povertà del poverello d’Assisi, che non esecrava chi era ricco o chi
cercava di esserlo, Papa Bergoglio si pone come un autentico leader politico o
sindacale. Viva la povertà, morte alla ricchezza! E’ qui il corto circuito.
I suoi continui attacchi al
capitalismo, in quanto pensiero e prassi dell’accumulo e dell’investimento a
fini economici per migliorare e potenziare le strutture del sistema, in cui
trovano miglioramenti di vita il singolo e la società, mettono fuori della
chiesa persone che, fino a prova contraria - basterebbe una lettura più critica
della storia - hanno dato vita ad un progressivo benessere individuale e
sociale. Il capitalismo si è realizzato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo,
ha provocato guerre e devastazioni. Questo è indiscutibile, ma ha anche
promosso la civiltà di cui tutti nel mondo, sia pure in maniera e misura
diversa, godono i benefici.
Quando si combatte il capitalismo
per i suoi effetti negativi, per i suoi eccessi e le sue storture, occorre
tener presente che nessun progresso sarebbe stato possibile senza il suo
formarsi, senza il suo esercizio. Sarebbe come se davanti ad una grande e
meravigliosa opera d’arte ci si soffermasse esclusivamente a considerare la
fatica fisica costata al suo artefice e ai tanti lavoratori che hanno
contribuito a realizzarla. Se non ci fosse stato lo sfruttamento, perfino
animalesco, di quei lavoratori, evidentemente non ci sarebbe stata l’opera
bella e meravigliosa. Sono considerazioni banali, che dovrebbero essere capite
già alla prima elementare. Invece abbiamo ancora oggi colti e finissimi storici
dell’arte e critici d’arte, che mentre si estasiano davanti alla bellezza di
un’opera d’arte, predicano contro la ricchezza che quell’opera ha prodotto.
Chi critica e maledice la
ricchezza e il capitalismo ha ragione di farlo purché sia consequenziale.
Nessuno può beatificare l’effetto maledicendo la causa. La povertà è una
condizione che va superata. In questo la ricchezza ha un ruolo fondamentale, in
quanto è l’unica che possiede i mezzi per aiutare i poveri a soffrire di meno
le conseguenze della povertà o a farli diventare meno poveri o addirittura
ricchi. Ma tutto ciò è secondario, non è lo scopo precipuo dell’economia, che,
come la politica, è autonoma con le sue leggi. La carità non può essere lo
scopo dell’economia; essa si basa e tende al profitto; la carità rende ancor
più importante e nobile la funzione.
Un papa, chiunque esso sia, deve
saper rappresentare tutti i cristiani, poveri e ricchi, dicendo ai primi di non
rassegnarsi e di impegnarsi ad uscire dalla loro condizione e convincere i
ricchi a fornire ai poveri tutti gli aiuti di cui hanno bisogno. “Chi ha avuto in copia – dice il Manzoni
ne “La pentecoste” – doni con volto amico
/ con quel tacer pudico / che lieto il don ti fa”. Ai tempi del Manzoni si
poteva parlare di “dono”, oggi quel dono va inteso come condizione che lo Stato
e la Società pongono al servizio del cittadino per migliorarsi.
Il comunismo di Bergoglio è
viscerale e si pone fuori da ogni dialettica. La sua cultura qui da noi è stata
ampiamente superata, non sui libri ma nella realtà della vita. A ben riflettere
la sua posizione di apologeta della povertà e di iconoclasta della ricchezza, a
lungo andare penalizza i poveri e favorisce i ricchi. Negli uni spegne ogni
forza di guardare oltre la propria condizione; negli altri rafforza le loro
difese mettendoli al riparo da quelle minacce che la storia ha sempre prodotto
col pensiero, la volontà e la forza dei poveri e dei bisognosi.
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