Le esclusioni non avvengono mai a
caso. Dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia di due anni
fa fu escluso uno dei più importanti poeti italiani, Francesco Petrarca, autore
della prima grande canzone di impegno civile della letteratura italiana, meglio
nota con l’incipit Italia mia…Troppo
nazionalismo e troppo antigermanesimo nei suoi versi, e dunque troppo
antieuropeismo.
Uno dei temi di fondo di quella
canzone è lo stato di disordine e di contrasto dell’Italia delle Signorie che tra di loro si fanno la
guerra spesso ricorrendo a truppe mercenarie, facendosi cioè invadere da
soldataglie straniere, vanificando lo schermo che la natura ha posto a
protezione “fra noi e la tedesca rabbia”.
Si dirà, i tempi son cambiati!
Sta di fatto che oggi più ancora di ieri, benché in atmosfere e in forme
diverse, si può dire col Petrarca che “dentro ad una gabbia / fiere selvagge et
mansüete gregge / s’annidan sì, che sempre il miglior geme”. Al netto della
retorica cui il poeta fa ricorso per inneggiare alla nostra superiore civiltà,
non c’è chi realisticamente non veda nell’Europa di oggi la “gabbia”
petrarchesca, in cui ad avere la peggio sono sempre i più deboli e i più
divisi, ossia noi.
Per stare in questa “gabbia”
abbiamo rinunciato a consistenti “quote” di sovranità. La rinuncia ad esse, non
afferendo territorialità bensì cultura, costume, filosofia di vita,
intelligenza operativa, ha opacizzato la nostra identità, mortificato la nostra
genialità e indotti ad una sorta di semiletargo. Oggi siamo costretti per legge
ad omologarci agli altri, dobbiamo rinunciare alle nostre specificità per
uniformarci a quelle degli altri, senza avere né vocazione né mezzi. Abbiamo
forse dimenticato l’incidente di Buttiglione di alcuni anni fa quando per
essere ammesso come commissario europeo fu sottoposto ad esame e bocciato per
aver risposto a specifica domanda sull’omosessualità che lui da cattolico la
considerava peccato? Fuori! Gli fu intimato. E il povero Buttiglione dovette
uscire con la coda fra le gambe nel tripudio perfino degli illuministi
nostrani.
Non c’è stato mai nella storia un
potere imperiale così centralizzato come oggi l’Europa. Perfino l’impero romano
lasciava i popoli nelle loro credenze. Noi non possiamo fare più neppure la
pizza, imbottigliare il vino, mungere le vacche e le pecore coi nostri sistemi.
E se perfino nelle monete siamo tutti d’accordo a simboleggiare su una faccia
il comune dio Euro, sull’altra non possiamo mettere nessun simbolo che
contraddistingua un popolo dall’altro. La Slovenia è stata diffidata dal togliere la croce
dalla sua moneta di due euro. Se questa è sovranità vuol dire che tutti gli
scrittori precedenti a questa bella trovata non hanno capito niente. Per avere
una rappresentazione plastica di questa perdita di sovranità e di identità
immaginiamo di aver rinunciato alla Toscana, alla Sicilia, alla Lombardia con
tutta la loro arte, la loro storia, la loro potenzialità economica e culturale.
Chiameremmo più Italia la parte restante?
Intanto l’Europa si allarga,
arrivano nuovi clienti, che per forza di cose incideranno sugli equilibri
interni. La Polonia
ci ha superati nella produzione di elettrodomestici. E chi si meraviglia? Se
noi siamo costretti ad operare nelle regole dettate da altri e stare nelle
regole dei “limiti condivisi” per forza che gli altri ci fottono.
Sì – ci ricordano i soliti
imbroglioni di Stato – ma poi ci sono i benefici! E quali? Viviamo in
recessione, stiamo precipitando nella povertà, i giovani sono disoccupati, lo
Stato non garantisce più niente, taglia di qua e taglia di là non si gode più
della sanità, dei trasporti, della scuola, della tutela dei beni culturali,
della giustizia. L’Italia è ricaduta in una nuova schiavitù europea, poco
cambia se napoleonica, asburgica o borbonica. E siccome non c’è schiavitù che
non sia anche povertà, ecco che aumentano le difficoltà e si riducono giorno
dopo giorno le possibilità di ripresa. Una condizione dalla quale bisognerebbe
trovare il coraggio di evadere.
Perché stiamo volontariamente
rinunciando ad essere liberi e benestanti, come eravamo fino ad una ventina di
anni fa? “Se da le proprie mani / questo n’avene – diceva il Petrarca – or chi
fia che ne scampi?”.
Le risposte potrebbero essere
due. La prima è l’ubriacatura neoilluminista. La convinzione che se tutti siamo
uguali tutti stiamo meglio porta all’abbaglio dell’annullamento delle
differenze. Errore, perché le differenze torneranno a riproporsi con
l’aggravante per quei paesi che avevano posizioni di vantaggio. L’Europa dei
ventotto o dei trenta non significa che tutti beneficeranno allo stesso modo,
ma quelli che stavano peggio staranno meglio e quelli che stavano meglio
staranno peggio, come per il principio dei vasi comunicanti. E questo sarebbe
poco male se non si verificassero le conseguenze che in genere si verificano e
cioè che i trend di miglioramento e di peggioramento continuano, col
ribaltamento delle posizioni iniziali. La qualcosa potrebbe pure andar bene per
i tanti illusi e masochisti di questo neoilluminismo; ma non può essere
tollerato da chi sa di possedere le doti e le risorse di riscattarsi. Sol che
riesca a liberarsi da lacci e laccioli che lo imbrigliano. Non a caso
l’Inghilterra non ha voluto entrare nell’Euro e ogni tanto minaccia perfino di
uscire dall’Europa.
La seconda risposta è che noi
paghiamo il prezzo della pace. Il vecchio ordine di cose portava
inesorabilmente a dover regolare i conti periodicamente con le guerre. Quando i
potenti si accorgevano che era a rischio la loro supremazia ricorrevano alla
guerra, che riportava alle gerarchie consolidate. E probabilmente anche oggi,
se non ci fossero state le istituzioni europee e mondiali di unione e di
cooperazione, si sarebbe giunti alla stessa conclusione. Ma il mantenimento
della pace comporta la rinuncia non solo a quote di sovranità, come detto, ma
anche a parte del nostro benessere.
Questo vale per tutti? Per noi
come per Francesi e i Tedeschi? Evidentemente no – la realtà ci è sbattuta in
faccia – vediamo che la
Germania dall’Europa e dal suo ampliamento trae benefici, a
danno di altri popoli, una volta concorrenti. Di qui l’attualità della “gabbia”
petrarchesca e della necessità di liberarci delle nuove “dannose some”.
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