domenica 7 luglio 2013

Or dentro ad una gabbia...


Le esclusioni non avvengono mai a caso. Dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia di due anni fa fu escluso uno dei più importanti poeti italiani, Francesco Petrarca, autore della prima grande canzone di impegno civile della letteratura italiana, meglio nota con l’incipit Italia mia…Troppo nazionalismo e troppo antigermanesimo nei suoi versi, e dunque troppo antieuropeismo.
Uno dei temi di fondo di quella canzone è lo stato di disordine e di contrasto dell’Italia delle Signorie che tra di loro si fanno la guerra spesso ricorrendo a truppe mercenarie, facendosi cioè invadere da soldataglie straniere, vanificando lo schermo che la natura ha posto a protezione “fra noi e la tedesca rabbia”.
Si dirà, i tempi son cambiati! Sta di fatto che oggi più ancora di ieri, benché in atmosfere e in forme diverse, si può dire col Petrarca che “dentro ad una gabbia / fiere selvagge et mansüete gregge / s’annidan sì, che sempre il miglior geme”. Al netto della retorica cui il poeta fa ricorso per inneggiare alla nostra superiore civiltà, non c’è chi realisticamente non veda nell’Europa di oggi la “gabbia” petrarchesca, in cui ad avere la peggio sono sempre i più deboli e i più divisi, ossia noi.
Per stare in questa “gabbia” abbiamo rinunciato a consistenti “quote” di sovranità. La rinuncia ad esse, non afferendo territorialità bensì cultura, costume, filosofia di vita, intelligenza operativa, ha opacizzato la nostra identità, mortificato la nostra genialità e indotti ad una sorta di semiletargo. Oggi siamo costretti per legge ad omologarci agli altri, dobbiamo rinunciare alle nostre specificità per uniformarci a quelle degli altri, senza avere né vocazione né mezzi. Abbiamo forse dimenticato l’incidente di Buttiglione di alcuni anni fa quando per essere ammesso come commissario europeo fu sottoposto ad esame e bocciato per aver risposto a specifica domanda sull’omosessualità che lui da cattolico la considerava peccato? Fuori! Gli fu intimato. E il povero Buttiglione dovette uscire con la coda fra le gambe nel tripudio perfino degli illuministi nostrani.
Non c’è stato mai nella storia un potere imperiale così centralizzato come oggi l’Europa. Perfino l’impero romano lasciava i popoli nelle loro credenze. Noi non possiamo fare più neppure la pizza, imbottigliare il vino, mungere le vacche e le pecore coi nostri sistemi. E se perfino nelle monete siamo tutti d’accordo a simboleggiare su una faccia il comune dio Euro, sull’altra non possiamo mettere nessun simbolo che contraddistingua un popolo dall’altro. La Slovenia è stata diffidata dal togliere la croce dalla sua moneta di due euro. Se questa è sovranità vuol dire che tutti gli scrittori precedenti a questa bella trovata non hanno capito niente. Per avere una rappresentazione plastica di questa perdita di sovranità e di identità immaginiamo di aver rinunciato alla Toscana, alla Sicilia, alla Lombardia con tutta la loro arte, la loro storia, la loro potenzialità economica e culturale. Chiameremmo più Italia la parte restante? 
Intanto l’Europa si allarga, arrivano nuovi clienti, che per forza di cose incideranno sugli equilibri interni. La Polonia ci ha superati nella produzione di elettrodomestici. E chi si meraviglia? Se noi siamo costretti ad operare nelle regole dettate da altri e stare nelle regole dei “limiti condivisi” per forza che gli altri ci fottono.
Sì – ci ricordano i soliti imbroglioni di Stato – ma poi ci sono i benefici! E quali? Viviamo in recessione, stiamo precipitando nella povertà, i giovani sono disoccupati, lo Stato non garantisce più niente, taglia di qua e taglia di là non si gode più della sanità, dei trasporti, della scuola, della tutela dei beni culturali, della giustizia. L’Italia è ricaduta in una nuova schiavitù europea, poco cambia se napoleonica, asburgica o borbonica. E siccome non c’è schiavitù che non sia anche povertà, ecco che aumentano le difficoltà e si riducono giorno dopo giorno le possibilità di ripresa. Una condizione dalla quale bisognerebbe trovare il coraggio di evadere.
Perché stiamo volontariamente rinunciando ad essere liberi e benestanti, come eravamo fino ad una ventina di anni fa? “Se da le proprie mani / questo n’avene – diceva il Petrarca – or chi fia che ne scampi?”.
Le risposte potrebbero essere due. La prima è l’ubriacatura neoilluminista. La convinzione che se tutti siamo uguali tutti stiamo meglio porta all’abbaglio dell’annullamento delle differenze. Errore, perché le differenze torneranno a riproporsi con l’aggravante per quei paesi che avevano posizioni di vantaggio. L’Europa dei ventotto o dei trenta non significa che tutti beneficeranno allo stesso modo, ma quelli che stavano peggio staranno meglio e quelli che stavano meglio staranno peggio, come per il principio dei vasi comunicanti. E questo sarebbe poco male se non si verificassero le conseguenze che in genere si verificano e cioè che i trend di miglioramento e di peggioramento continuano, col ribaltamento delle posizioni iniziali. La qualcosa potrebbe pure andar bene per i tanti illusi e masochisti di questo neoilluminismo; ma non può essere tollerato da chi sa di possedere le doti e le risorse di riscattarsi. Sol che riesca a liberarsi da lacci e laccioli che lo imbrigliano. Non a caso l’Inghilterra non ha voluto entrare nell’Euro e ogni tanto minaccia perfino di uscire dall’Europa.
La seconda risposta è che noi paghiamo il prezzo della pace. Il vecchio ordine di cose portava inesorabilmente a dover regolare i conti periodicamente con le guerre. Quando i potenti si accorgevano che era a rischio la loro supremazia ricorrevano alla guerra, che riportava alle gerarchie consolidate. E probabilmente anche oggi, se non ci fossero state le istituzioni europee e mondiali di unione e di cooperazione, si sarebbe giunti alla stessa conclusione. Ma il mantenimento della pace comporta la rinuncia non solo a quote di sovranità, come detto, ma anche a parte del nostro benessere.
Questo vale per tutti? Per noi come per Francesi e i Tedeschi? Evidentemente no – la realtà ci è sbattuta in faccia – vediamo che la Germania dall’Europa e dal suo ampliamento trae benefici, a danno di altri popoli, una volta concorrenti. Di qui l’attualità della “gabbia” petrarchesca e della necessità di liberarci delle nuove “dannose some”.


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