domenica 1 settembre 2013

Siria: un plauso al governo italiano


Quando ci vuole, ci vuole! Il governo italiano merita un plauso, ha detto no all’intervento in Siria quando i venti di guerra soffiavano forte dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia. Poi si sono tutti placati. Ha detto no il Parlamento inglese, mettendo in crisi il premier Cameron che era per l’intervento; ha detto no la Nato; ha detto quasi no perfino la Francia della sempre proverbiale “furia francese”; e perfino gli Stati Uniti non sono più così certi, anche se per “parola detta” continuano a minacciare. Sia negli Stati Uniti che in Francia l’opinione pubblica si sta mobilitando per scongiurare l’intervento.  Solo la Germania con noi, fin dall’inizio. Fa piacere che il proprio paese faccia scelte giuste, che portano bene e prestigio.
Ma perché no all’intervento? Per paura? Anche! In Libano ci sono i nostri militari, che sono lì a garanzia della pace. Per prudenza? Certo! Il conflitto potrebbe deflagrare perché Russia e Cina sono contrarie all’intervento e perché l’Iran altro non aspetta per colpire Israele, a cui è estranea la filosofia cristiana del porgere l’altra guancia. La Turchia, che ha problemi interni, è pronta a colpire e a trasferire fuori i guai di casa. Ci piace pensare che il no italiano abbia avuto anche un motivo economico. Nelle condizioni in cui si trova il nostro paese, spendere altri soldi, che peraltro non ci sono, per partecipare all’intervento armato contro la Siria sarebbe stato uno sproposito.  
Ma “no”, soprattutto perché le ultime lezioni di politica internazionale, a partire dall’Iraq fino alla Libia, attraverso la Tunisia e l’Egitto, hanno insegnato una cosa semplicissima. Le vicende interne di un paese non sono mai così chiare come si vuole dar ad intendere; non lo sono in origine e meno ancora nell’epilogo. La cosiddetta primavera araba dei soliti visionari occidentali che vedono primavere ad ogni scàzzica di vento si è rivelata come la più rapida e ingestibile destabilizzazione dell’intera Africa mediterranea, con gravissimi problemi per i paesi colpiti. Si capisce niente in Tunisia? Si capisce niente in Libia? In Egitto s’incomincia a capire qualcosa perché è scattata la reazione militare per recuperare il paese alla sua tradizionale posizione. 
A noi italiani sarebbe convenuto che Gheddafi campasse mille anni. Lo prendevamo per “fesso” come volevamo, con qualche pagliacciata in casa nostra, ma allo stesso tempo ci assicuravamo mercato e stabilità dirimpettaia. Con Gheddafi non arrivavano in servizio di linea tutti i profughi, chiamiamoli così, dall’intero continente africano ed ora dal Medio Oriente, che sono arrivati dopo la sua scomparsa. Gheddafi era per noi italiani e occidentali un punto di riferimento sicuro. Ed oggi viene il sospetto che sia stato fatto fuori proprio per questo. Se Berlusconi non fosse stato il leader azzoppato e screditato che era presso i suoi colleghi europei e l’opinione pubblica internazionale si sarebbe opposto all’attacco alla Libia, perché in politica si fa ciò che è utile al proprio paese, non si fa ciò che piace agli altri. Uno statista applica Machiavelli non Superman. In politica, tra alleati, non si deve imporre ma neppure subire. L’eliminazione di Gheddafi noi l’abbiamo subita e oggi ne paghiamo le conseguenze.  
L’attacco chimico a Damasco, che è cosa assolutamente intollerabile, non è certo e purtroppo non è accertabile chi sia stato ad effettuarlo, se il regime di Assad o i ribelli, che finora hanno dimostrato di saper tenere testa al regime e di avere anche teste pensanti per adottare politiche militari fuorvianti. Nessuno oggi si sogna di pensare che i ribelli siano forieri di primavere. Sono i rappresentanti più fanatici del mondo musulmano, di Al Quaeda, ossia dell’organizzazione terroristica mondiale più attrezzata, diffusa e pericolosa. 
Gli americani si son risentiti per i toni del nostro ministro degli esteri, la radicale Emma Bonino, perché non sono abituati alle posizioni ragionate, non sono abituati a contare almeno fino a dieci prima di prendere la corda e appendere il presunto colpevole all’albero, come facevano nel Far West i loro progenitori. Ora gli Americani rischiano di perdere la faccia un’altra volta, dopo le tante nel corso del Novecento e di questo inizio di millennio. Dicono di lavorare per la pace. Obama ha addirittura ricevuto il Nobel della pace, ma intanto accendono focolai di guerra in tutto il mondo. La guerra, comunque accada, è la sconfitta della politica. E gli Americani dovrebbero interrogarsi sulle ragioni della loro incapacità politica di tenere buono il mondo. La loro superiorità militare ed economica ha imposto una superiorità politica che non hanno.
A certe situazioni, come l’uso della armi chimiche, non si dovrebbe arrivare. Purtroppo né gli Stati Uniti né l’Europa riescono ad avere una politica di buoni ed efficaci rapporti con i vari Stati sparsi nel mondo, specialmente con quelli che una volta venivano definiti “canaglia”. Gli Occidentali hanno smarrito le doti politiche che avevano una volta. Quel che sanno pensare e fare oggi è muovere subito portaerei e minacciare ogni qual volta scoppia una scintilla, oggi in Siria, ieri in Corea, l’altro ieri in Libia e domani chissà. Non ci sono più rapporti confidenziali, fiduciari tra uomini politici di paesi diversi, per cui, a volte, bastava che essi si parlassero per trovare la soluzione di un caso anche spinoso.
In Siria si combatte da due anni. Una cosa orribile e terribile, una guerra civile che né gli Stati Uniti d’America né l’Europa sono riusciti a fermare, a ricomporre. Hanno assistito con le mani in mano, come se la questione non li riguardasse. E invece li riguarda, ci riguarda. Come ci riguardava la Tunisia, come ci riguardava la Libia, come ci riguardava l’Egitto.
In Siria sta accadendo quanto accadde in Libano un po’ di anni fa, tutti contro tutti, con un regime, che sarà anche duro e odioso, ma è pur sempre il governo legittimo, che cerca di salvare lo Stato e le sue istituzioni. Perché aspettare il momento per giustificare un intervento al buio, che non si sa dove porti, e non intervenire con la diplomazia per aiutare il popolo siriano a ritrovare la pace di cui ha goduto per tanti anni? La risposta probabilmente sta nella crisi non solo di uomini all’altezza delle situazioni ma anche delle istituzioni internazionali che durano ormai da troppi anni e conservano strutture e regole vecchie di settant’anni. Il diritto di veto che hanno le cinque potenze mondiali che compongono il Consiglio di Sicurezza, le vincitrici della seconda guerra mondiale, è anacronistico e invalida un’istituzione che potrebbe invece essere più puntuale ed efficace nell’azione dissuasoria.
Il no dell’Europa all’intervento in Siria potrebbe essere l’inizio di una svolta anche nell’ambito delle Nazioni Unite. Anche per questo il governo italiano si merita un bravo in condotta.

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