Nei giorni scorsi abbiamo visto e
ascoltato quattro illustri personaggi della nostra quotidianità politica
esprimere il proprio punto di vista su un medesimo argomento con incredibile
difformità di valutazione e di giudizio. Argomento: rapporto tra politica e
giustizia.
Abbiamo sentito Silvio Berlusconi,
leader di Forza Italia, difendersi dalle condanne penali, aventi ricadute
politiche, attaccare la magistratura che, a suo dire, da vent’anni lo
perseguita (50 processi). Abbiamo sentito Guglielmo Epifani, segretario del Pd,
difendere lo Stato di diritto dagli attacchi di Berlusconi, che, a suo dire,
non è più nella condizione di doversi difendere ma semplicemente di doversene
andare. Abbiamo visto e sentito Enrico Letta, presidente del consiglio,
difendere la magistratura, che fa il suo dovere e non perseguita nessuno. Abbiamo
visto e sentito Giorgio Napolitano, presidente della repubblica, che dice basta
contrapposizione tra magistratura e politica: vogliatevi tutti bene.
Tra i quattro, Berlusconi è
isolato: gli altri tre gli danno torto, la magistratura ha ben operato, dunque
nessuna persecuzione nei suoi confronti, si metta l’animo in pace e non se ne
parli più.
Ma possono i tre illustri
interlocutori fare questo ragionamento? Se lo hanno fatto e lo fanno significa
che possono. Che domande! Ma la politica non è il regno della ragione e i
collegamenti con l’intelligenza universale, di cui parlava Aristotele, si sono
interrotti da tempo.
E, allora, no; non possono fare
ragionamenti così drasticamente antiberlusconiani. Se non altro perché
Berlusconi sta saldamente nel gruppo dei
quattro personaggi, tutti protagonisti e sostenitori, a vario titolo, del
governo attuale, e dicono di essere d’accordo su un punto: il Paese prima di tutto.
Se Berlusconi è organico al bene del Paese, come par di capire, nel momento in
cui si sfilasse dal gruppo di “benefattori”, il governo cadrebbe. Se ciò
accadesse, stando a quanto dicono tre volte al giorno ognuno di essi, sarebbe
la rovina. Un rompicapo: tutti dicono che bisogna stare insieme per il bene del
Paese e tutti, poi, fanno di tutto per dividersi.
Si dà il caso che in questo
perseguire prioritariamente il “bene del Paese” il più pesto di tutti è
Berlusconi; gli altri, Napolitano non rimette niente, è super partes, Letta ci guadagna, Epifani spera di guadagnarci.
Berlusconi, benché indicato e
trattato dai suoi “sodali” come il nemico di sempre, non si sfila, non se ne
va, anzi proclama il suo impegno per il suo partito, per il governo e per l’Italia.
Forse Berlusconi sotto sotto sa di aver torto? Forse pensa che alla fine chi la
dura la vince, come dice un proverbio, non estraneo al suo modo pensare? Questi
forse e molti altri forse non aiutano a capire. Ci sono elementi di relativa
oggettività per fortuna che illuminano la scena. Uno in particolare: Berlusconi
si sente il meglio piantato di tutti.
Paradossalmente e a dispetto
delle condanne giunte e di altre in arrivo, il più saldo sulla scena è il
Cavaliere, tant’è che lui non si preoccupa dei suoi tre compagni di strada, che
potrebbero perdersi a breve, ma di uno che al momento è fuori ed è in concorso
di entrare nell’agone politico; pensa a Matteo Renzi. Il quale all’Assemblea
del Pd di sabato, 21 settembre, ha detto ai suoi che è meglio governare da
soli. Ma guarda, anche l’acqua calda gli è seconda!
Napolitano – che il Signore gli
dia cento anni altri di vita! – non promette longevità politica, che è altra
cosa dalla longevità biologica. Dunque, rispetto a Berlusconi, è più
provvisorio. Epifani è geneticamente provvisorio, infatti è nato segretario
politico del Pd per preparare il Congresso, cosa che non dovrebbe andare oltre
gli inizi dell’anno prossimo. Letta è il più provvisorio di tutti, potrebbe non
arrivare a mangiarsi il panettone, come quegli allenatori di squadre di calcio
esonerati anzitempo. Lui dice che vuole giocare all’attacco; ma all’attacco di
chi? Nel Pd, parole di circostanza a parte, è malvisto. E’ considerato un
raccomandato, uno che per una serie di circostanze favorevoli si è ritrovato da
grigio vice di Bersani a presidente del consiglio, così senza sapere né leggere
né scrivere. Prendiamo le parole nel loro significato gergale, perché poi Letta
il fatto suo lo sa, e lo sa bene.
Quel che si vede nelle immediate
vicinanze – l’orizzonte è nascosto dalla nebbia – è un centrodestra e un centrosinistra
in crisi. Il Pdl di fatto è regredito in Forza Italia. Di quelli che una volta
venivano chiamati forse anche con una forzatura, ma senz’altro con immediata comprensione,
neofascisti nemmeno l’ombra. La destra moderna ed europea di Fini è archeologia
partitica. Gli altri sono gruppuscoli, che messi assieme non raggiungono la
percentuale per superare lo sbarramento. Per fortuna c’è il transatlantico
berlusconiano che rimorchia tutti; per lo meno è speranza di naufraghi.
Nel centrosinistra le cose non stanno
meglio. Dopo il fallimento di Bersani, non si intravede una leadership
attendibile. Si sarebbe dovuti andare ad elezioni anticipate alla fine del 2011,
ma il partito evidentemente non era pronto. Manca una leadership, nonostante
non manchino gli uomini. Per vincere il Pd aveva ed ha bisogno ancora oggi del
Sel di Nichi Vendola, che, però, non concede nulla gratia et amore Dei. E, allora, il percorso diventa complicato,
come già è accaduto in passato. Forse Renzi, quando dice che è meglio governare
da soli non si riferisce soltanto ai nemici-amici del Pdl, ma anche agli
amici-nemici vendoliani e sinistri in genere.
A fronte di questa frammentazione
politica c’è la minaccia delle elezioni politiche anticipate, che potrebbero
essere più vicine di quanto non sembri. Ma neppure per questa eventualità si è
attrezzati. Manca un sistema elettorale adeguato alla circostanza, che dia
indicazioni sicure di vittoria, che consenta stabilità governativa e che alla
fine, come accade in questo straordinario Paese, non diventi il capro
espiatorio di anonime responsabilità politiche. Come accade da un po’ di anni a
questa parte col povero porcellum.
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