sabato 12 dicembre 2020

C'era una volta Natale *

Saltano pure i detti, ormai. Pasqua e Natale con chi vuoi, gli ultimi giorni coi tuoi. Quasi quasi non ce lo ricordavamo più. È stata la regola fino a quando non è arrivato questo stramaledetto Covid 19, che obbliga a stare dove puoi e con chi puoi, laddove il “puoi” dipende dall’ultimo dipiciemme. Gialli, arancioni, rossi. I politici locali, ormai ridotti a raccoglitori di voti, si lamentano, si sentono discriminati, come se non ci fosse in ballo un pericolo maledettamente serio ma la distribuzione di pacchi dono. Quanto stiamo vivendo da circa un anno è cosa cui non eravamo men che abituati neppure a immaginare. Ci sentivamo garantiti da certe minacce. Viviamo nell’era dell’intelligenza artificiale, che volete che ci faccia un virus? Era così poco innocua la parola “virus” che spesso il medico di famiglia che ti veniva a visitare per un qualche raffreddore o principio di diarrea, per sdrammatizzare, ti rassicurava “non è nente, sta girando un virus”, come se entrasse dalla porta e uscisse dalla finestra. Oggi la parola si contende il primato di preoccupazione con altre assai più perniciose. E tuttavia l’avvicinarsi di Natale ci porta in altre atmosfere, che la modernità non ha del tutto sfrattato dal nostro immaginario. Non potendocelo più permettere, abbiamo recuperato il senso di un evento straordinario.

Le feste di fine anno erano un’occasione irripetibile, una sorta di rituale che affondava le radici dove con la mente l’uomo non può arrivare. Era così, e basta. Le famiglie si congiungevano da ogni parte del mondo in ogni parte del mondo. Era come se si vivesse dodici mesi per quell’ultimo appuntamento finale. Era un arrivo per un’altra partenza. Molti lavoratori che venivano dall’estero, dalla Svizzera e dalla Germania soprattutto, erano gastarbeiter, stagionali. Sarebbero ripartiti a marzo con la nuova stagione. Erano perciò stracarichi di roba. Si può dire che portassero con sé l’inverosimile, tutto il loro mondo della quotidianità di vita e di lavoro. Come facessero, era da non credere.

Altri tempi, si dirà; ed è così. Oggi non esiste più quel tipo di migrazione. Noi italiani siamo in tutti i paesi europei, spesso da cittadini con uno status consolidato, siamo a casa anche stando all’estero. I moderni mezzi di comunicazione hanno cambiato il modo di tenersi in relazione e in vicinanza. Ma Natale è pur sempre Natale, oggi come ieri o forse come l’altro dell’altro ieri.

Mi ricordo, ragazzino, alla Centrale di Milano nei primi anni Sessanta. Io, migrantino, fra masse di migranti in movimento. Dovevi stare attento a non essere travolto dalla gente, che sembrava come spinta di qua e di là da un vento turbinoso. Scene da Inferno dantesco. I convogli erano presi d’assalto per accaparrarsi il posto. Ondate di passeggeri passavano da un binario all’altro violando le prescrizioni di non attraversare i binari, appena l’altoparlante annunciava che il treno per Lecce, per Napoli, per Palermo, era in arrivo sul binario ics e ipsilon. Raggiungere il binario giusto prima degli altri significava assicurarsi un posto fino a casa. I treni partivano ogni mezz’ora. I vagoni arrivavano pieni già in stazione. Si passavano oggetti e persone dai finestrini. Bambini ma anche adulti, soprattutto donne, li facevano salire dai finestrini, e c’era chi rimaneva mezza di dentro e mezza di fuori agitando le gambe nello sforzo di guadagnare con le braccia il fondo dello scompartimento. Si vedevano mucchi di valigie semoventi tanto il portatore era coperto e nascosto. E voci…e voci incrociarsi, raggiungere l’orecchio del destinatario come per calamita. Scene che non dimentichi per il resto della vita, perché in nessun volto si vedeva un minimo di sorriso, di serenità, ma tutti erano stravolti, tesi, spaventati, angosciati. Le valigie occupavano scompartimenti, corridoi e perfino le ritirate. Non mancavano le scortesie, cui seguivano litigi; ma per fortuna erano pochi e si ricomponevano subito. Si passava la notte a giocare a carte sulle stesse valigie come fossero un tavolino e sedie. La gente vedeva nell’altro un se stesso bisognoso di essere compreso e rispettato. 

Raggiungere, finalmente, la meta dell’ultima stazione era un’autentica avventura, che solo la grande gioia di riabbracciare i tuoi ripagava dalla fatica e dall’ansia. E via, a trovare il noleggiatore paesano, che con la sua millecquattro fiat prolungata carica dentro di dieci-dodici persone e di sopra con il doppio di valigie e pacchi ed abbassata fino a sembrare senza ruote, ti portava a casa. E lì trovavi i tuoi sull’uscio coi vicini che ti attendevano in festa e in lacrime. Era Natale, vagliò!

* Già apparso su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 10 dicembre 2020 col titolo  "Natale con chi puoi...a causa del Covid"

 


Nessun commento:

Posta un commento