martedì 15 ottobre 2013

Italia nostra: Identità salentina 2013


Invitato ad un piccolo convegno per ricordare la figura dello studioso Aldo de Bernart di recente scomparso, nell’ambito della manifestazione “Identità salentina”, organizzata da “Italia Nostra – Sezione Sud Salento”, a Parabita, la sera di venerdì 27 settembre, mi è capitato, come spesso accade, di dovermi sorbire una caterva di interventi, relativi all’agricoltura e all’ambiente, che facevano parte dei preliminari della serata. Per fortuna tutti molto interessanti e direi qualificati, da quello d’apertura di Marcello Seclì, Presidente di “Italia Nostra – Sud Salento”, a tutti gli altri, del Sindaco di Parabita Alfredo Cacciapaglia, del Direttore generale dell’Anbi Puglia Anna Chiumeo, dell’Assessore provinciale all’Agricoltura Francesco Pacella, del Prefetto di Lecce Giuliana Perrotta, di Mario Capasso dell’Università del Salento delegato ai musei dell’ateneo leccese. Preciso che Anbi vuol dire Associazione nazionale bonifiche irrigazioni. Giusto per far capire la competenza e l’autorevolezza dell’ospite invitata a relazionare.
La costante dei vari interventi è stata l’educazione del cittadino al rispetto dell’ambiente. Se il cittadino non capisce che danneggiare l’ambiente significa danneggiare se stesso e gli altri diventa problematico che glielo faccia capire il poliziotto o l’autorità in generale. L’esempio da tutti citato, non senza preoccupazione e allarme, è stata la malattia che incomincia a falcidiare gli ulivi, che – mi è parso di capire – è attribuita alle discariche nelle campagne di rifiuti nocivi per l’ambiente e le colture, in particolare gli pneumatici, spesso scaricati lungo i muretti a secco dei fondi agricoli, a volte all’esterno, altre volte all’interno. Nessuno ha spiegato come facciano gli pneumatici a far seccare gli alberi di ulivo. Forse non si vuole ammettere che è l’inquinamento dell’aria ad essere nocivo alla salute di tutto ciò che vive sulla superficie di questo nostro Salento, dalle palme agli agrumi, dai fichi ai fichidindia, agli ulivi, per citare le colture più tipiche. 
Ora, il problema è serio, molto serio, specialmente se dalle colture passiamo agli uomini e constatiamo che il tasso di mortalità per tumori qui nell’area jonico-salentina è tra i  più alti d’Italia. Se non bastasse il disturbo di vedere il paesaggio offeso dai rifiuti sversati o scaricati nelle campagne e nelle periferie, dovrebbe perciò farci riflettere la nostra salute.
Forse, a come son giunte le cose, bisognerebbe che al buon senso dei cittadini più sensibili subentrasse la determinazione dello Stato a difendere con tutti i suoi mezzi ciò che il cittadino non sa, non vuole o non può difendere da sé.
E’ ancora tempo di auspicare che il cittadino si ravveda? Non lo so. Noi dobbiamo sperare di avere quanto prima la coscienza civica che in Europa altri popoli già avevano cinquant’anni fa? E’ disperante.
Ho avuto la fortuna di passare due anni della mia vita a Berna, in Svizzera, e di frequentare la scuola pubblica; anni di particolare importanza formativa, tra i quindici e i diciassette anni. Bene, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, i cittadini svizzeri erano quello che noi auspichiamo che diventino i nostri fra qualche anno. Da non credere!
Diceva il Prefetto che ogni cittadino deve essere vigile di se stesso e non aspettare che lo Stato, l’autorità in generale faccia quello che egli è in grado di fare da sé. Giusto! Io ricordo che a Berna ogni cittadino era il poliziotto di se stesso; e ogni poliziotto era il cittadino di se stesso. Cosa voglio dire? Che il cittadino non faceva nulla che il poliziotto che era in lui gli proibiva; ma era altrettanto vero che ogni poliziotto chiamato per intervenire anche da una telefonata di un privato cittadino lo faceva immediatamente. Qui non accade né che il cittadino vigili da sé né che lo faccia il poliziotto, benché chiamato a intervenire.
E’ una questione di educazione? Probabilmente sì. Ma allora dobbiamo ammettere che la nostra scuola non ha fatto nulla per educare il cittadino al rispetto dell’ambiente. Se prendo il mio manualetto di educazione civica dell’a. s. 1958-59, “Cittadini di domani”, Guida di Educazione civica ad uso del primo biennio dei corsi superiori (Ginnasio e classi di collegamento), di F. Montanari e G. Nosengo, dell’editore Le Monnier di Firenze, scopro che non c’è il minimo riferimento all’ambiente. Si parla di tutto e di più, ma in astratto; nulla che possa far pensare che c’è un ambiente da salvaguardare.
In quegli stessi anni in Svizzera, a scuola, il rispetto dell’ambiente non lo si insegnava, non ce n’era bisogno, lo si esercitava in concreto, con la raccolta differenziata della carta, col non buttare nulla per terra, né l’involucro di un cioccolatino né la buccia di banana o di arancia; il patrimonio pubblico, monumenti, aiuole, piante non andavano danneggiati; per strada non si doveva giocare né a pallone né ad altri giochi; i segnali stradali andavano rispettati qualunque fosse il mezzo di trasporto con cui ci si muoveva, anche il monopattino – ce n’erano di bellissimi, con le ruote gonfiabili – perfino a piedi. Per strada si doveva camminare come si deve, in maniera ordinata, negli spazi prescritti; non si doveva né cantare né tanto meno urlare; non si poteva correre né tanto meno rincorrersi.
Quel tipo di educazione faceva parte del modo di essere, di stare, di agire del cittadino fin dall’età scolare. Diciamo la verità: un simile comportamento è oggi osservato in Italia? Nemmeno per sogno. Il disordine regna sovrano. Non solo i ragazzi si comportano come animali allo stato brado, in bicicletta vanno contromano e spesso controsenso, sui marciapiedi, scartano il gelato e la carta la buttano senz’altro, urlano e si rincorrono per strada, fanno quello che l’istinto suggerisce loro in un dato momento. Questi cittadini, oggi bambini, da grandi si comporteranno diversamente? No, faranno esattamente quello che riterranno più opportuno per il loro piacere o interesse, poco curandosi di rispetto dell’ambiente, del paesaggio, del bene comune. Lo si vede da come conducono i cani a fare i loro bisogni per strada, nonostante un fottìo di leggi che dovrebbe sanzionarlo.
Nel mio citato manualetto di educazione civica c’è un paragrafo intitolato “Il bene comune”. Si legge: «Fondamento dell’interesse generale è il bene comune; il bene comune è quell’insieme di cose, o meglio, quell’ordine di cose che mi permette di vivere con il massimo di libertà e di sicurezza possibile. Ma che non ci potrebbe essere per me, se non ci fosse per tutti». Come definizione potrebbe pure andar bene, ma è e resta decisamente astratta, priva di qualsiasi – dico qualsiasi – riferimento a cose e fatti concreti. E le conseguenze si vedono.

Parole chiave:  Italia nostra   Identità salentina   Cittadino   Ambiente  Aldo de Bernart

Argomento: Educazione ambientale

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