Il Pd è l’unico partito politico
oggi rimasto in Italia in cui ancora si può parlare di politica e di confronto,
in cui è possibile una qualche discussione. Ricordiamo che il politologo
austriaco Hans Kelsen definiva la democrazia un regime di discussione. Oggi,
perciò, in difetto di altri luoghi politici, quanto accade nel Pd interessa
l’intero paese e coinvolge i cittadini, anche se orientati diversamente.
Nella Direzione di lunedì, 4
luglio, si sono evidenziati in maniera netta, forse come mai prima, i due
modelli di conduzione del partito e del governo. Da una parte Matteo Renzi, che
sostiene la leadership esclusiva, ovvero il doppio incarico di capo del governo
e capo del partito, per assicurare all’esecutivo tempestività ed efficacia nelle decisioni;
dall’altra l’opposizione che sostiene che chi è capo del governo non può esserlo anche del partito e rivendica compartecipazione e corresponsabilità
sia nell’azione di governo che in quella di partito.
I due modelli trovano dei
riferimenti-forza in solidi ancoraggi nella storia repubblicana; di più il
secondo del primo, che ebbe solo col socialista Bettino Craxi un imprimatur.
Il modello di Renzi è oggi
prevalente in Europa e consente a chi governa di farlo in maniera più spedita e
senza compromessi e concertazioni; quello della minoranza dem garantirebbe una
maggiore collegialità partecipativa e meno netti profili politici nella geografia interna del partito.
A conferma che non sempre in
Italia funziona quel che funziona benissimo in altri paesi europei, il modello
renziano ha accusato con le ultime Amministrative una indiscussa flessione e ha
dato l’allarme di quella che potrebbe essere una sicura sconfitta di qui alle
prossime Politiche a vantaggio del M5S ove si dovesse votare con l’Italicum, da
Renzi fortissimamente voluto.
A parte le intemperanze
caratteriali dei renziani e degli antirenziani, mi pare che il confronto sia
del tutto normale e proficuo. Renzi ha iniziato la sua ascesa politica vincendo
le primarie che prevedevano anche il conferimento della Presidenza del
Consiglio. In questo c’è poco da dire. Pacta
servanda sunt.
Quali sono i punti deboli della
posizione di Renzi? Il primo è che non è accettabile, se non in particolari
momenti di emergenza, il discorso della rottamazione. In politica, direi in democrazia, non si
rottama l’avversario o solo chi ha un’età maggiore o un’opinione diversa. Il
modello renziano inoltre non è più condiviso e vincente; ha perso sul campo. Di
questo un partito deve prendere atto, senza fretta ma neppure senza lunghissime
attese.
I punti deboli del modello
opposto a quello di Renzi sono per così dire storici. Starei per dire annosi.
Il primo è che, come spesso accade, dieci persone possono concordare nel
momento destruens e non concordare in
quello costruens. Sicché passare la
mano della segreteria politica da parte di Renzi potrebbe aprire nuovi fronti
di conflitto, con ritardi operativi, che il Paese non si può più permettere.
Per questo gli elementi più validi dell’antirenzismo dovrebbero rivedere talune
modalità e la tempistica dell’operare politico, perché è di tutta evidenza che
i tempi non sono più quelli di Moro-Berlinguer o di Craxi-Andreotti.
Un punto sul quale i due modelli
o i due fronti potrebbero incontrarsi è la modifica dell’Italicum. Renzi, infatti,
non è più dell’avviso che non si deve toccare. Ma ha posto un problema: c’è la
maggioranza per toccarlo? Che è una cosa diversa. L’apertura di Renzi è
importante perché la modifica della legge elettorale nella direzione voluta
dagli oppositori, non solo interni, potrebbe anche risolvere la questione
referendum sulla riforma costituzionale. Perfino il M5S era per rivedere
l’Italicum; ora non lo è più per evidente opportunismo.
A questo punto potrebbe aprirsi
un tavolo di trattative, al quale far partecipare anche il centrodestra, sia
nuovo che vecchio, senza nascondimenti e mascheramenti, come è avvenuto in
passato (Patto del Nazareno, Verdini). Ma soprattutto senza calcoli penelopei
da parte di nessuno, tessendo insieme con gli altri e nello stesso tempo
scucendo in altra sede, come hanno fatto in passato le commissioni investite del
compito.
Legge elettorale e riforma
costituzionale riguardano tutte le forze e le idee politiche e di conseguenza
tutti i cittadini. Sarebbe veramente un bello sforzo di buona volontà giungere
ad un risultato concordato e condiviso, se non proprio da tutti, almeno dalla
parte più rappresentativa della democrazia italiana. Finora le due cose sono
state tenute separate, ma la realtà politica dimostra che esse vanno insieme e la
loro validità non può durare una stagione o una carriera.
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