Qualche sera fa a “In onda”, la
trasmissione estiva de “La 7” ,
condotta da Alessandra Sardoni e Salvo Sottile, Gianni Cuperlo, ex presidente
del Pd dimessosi in polemica con Renzi, e Paolo Mieli, ex direttore del “Corriere
della Sera” e attuale presidente di “Rcs Libri”, si esibirono in uno
stomachevole elogio di Renzi, duettando come certe coppie nei musical americani
degli anni Cinquanta. Qualche sera dopo nella stessa trasmissione era la volta
di Mario Adinolfi, ex deputato Pd, a masturbarsi verbalmente col mito Renzi,
l’uomo nuovo della politica italiana, a cui riesce di fare quello che ai suoi
predecessori e ai suoi contemporanei mai riuscirebbe di fare. Per diversità di cultura
– insisteva – il compiaciuto e straripante (in senso verbale) Adinolfi,
provocando la reazione di Stefano Fassina, altro Pd dimissionario in polemica
con Renzi, che a stento riusciva a contenersi.
Non diverso è il comportamento di
tanta stampa italiana, che o elogia apertamente Renzi o comunque non s’azzarda a
dire cosa a lui sgradita. Sta nascendo in Italia la più assurda e ridicola
delle montature mediatiche, quella di Renzi “uomo nuovo”, dalle capacità
straordinarie, eccezionali, taumaturgiche, l’anti Schettino che aggira gli
scogli e riesce a portare l’Italia fuori dalle secche della burocrazia, della
lentezza, della vecchiezza e a metterla in gara con le più moderne potenze
politiche ed economiche del pianeta.
Ricordo e associo per idee che lo
scrittore Antonio Beltramelli agli inizi del Novecento definì Mussolini proprio
con le stesse parole “l’uomo nuovo” e ne scrisse l’elogio in una biografia che
reca lo stesso titolo. Altrettanto fecero, poi, altri giornalisti, scrittori,
poeti, filosofi, storici, pittori, scultori, musicisti, scienziati, preti,
sagrestani, muli e conducenti; per anni e anni usque ad finem.
Ricordo ancora che gli dei
pagani, secondo la teoria razionalista del filosofo Evèmero (IV-III sec. a. C.),
altro non erano in origine che semplici uomini, che, grazie alla fama, assursero
al rango dell’Olimpo. Ora il posto della fama l’hanno preso i mass media e –
ovvio – i loro operatori. I quali, come i loro “cantati” finiscono per
diventare i nuovi “dei del potere”, così essi diventano i nuovi “cantori del
potere”. Laudatores temporis acti creano
i miti degli uomini, ieri di Mussolini oggi di Renzi.
Confesso di horrescere associando Renzi a Mussolini. Non già perché io ritenga
l’uno incommensurabilmente superiore all’altro – ovvio, il superiore è
Mussolini! – ma perché mentre l’uno aveva il potere di piegare le coscienze
degli altri e renderli servi, avendo conquistato il Parlamento coi suoi
manipoli di Camicie nere e a
conservarlo con metodi coercitivi, l’altro assiste all’asservimento di politici
e giornalisti, opinionisti e studiosi, in divisa da boy-scout, chiamato al potere dal Maggiordomo di Palazzo, dopo che
tutti i camerlenghi se la sono squagliata. In verità horresco associando gli italiani del tempo di Mussolini agli
italiani del tempo di Renzi.
E’ vero, c’è chi, come Piero
Ostellino, forse anche esagerando – ma nel gracidio di rane, val bene qualche
cri-cri stonante di grillo – non esita a definire Renzi il “ragazzotto
fiorentino”, con evidente sarcasmo; ma gli altri, anche quelli che per dignità
di uomini e serietà professionale ne criticano gli esiti in politica, si
guardano bene dall’attaccarlo per le sue intollerabili performance propagandistiche, quando insulta gli avversari politici
o soltanto quelli che non la pensano come lui, e addirittura fanno della sua
arroganza l’arma vincente della sua politica.
Perfino Angelo Panebianco ne mette
in risalto gli aspetti positivi, ancorché solo annunciati, e tace colpevolmente
sul resto. La qualcosa è uno sproposito per un osservatore politico attento. E il
costituzionalista Michele Ainis, da qualche tempo in qua, la mette sullo
scherzo e rifà il verso alla signora “Chesaramai” di cui parla Il Premio Strega
2014 Francesco Piccolo nel suo romanzo “Il desiderio di essere come tutti”. Non
mi pare che Ainis, come Panebianco, eserciti il suo importante ruolo con
serietà e severità.
Mi è venuto già altre volte di
dire che non credo in un Renzi dittatore, per tante ragioni oggettive che lo
impedirebbero. Non la pensa così Ostellino, che mette in guardia e si appella a
Napolitano perché non rifaccia l’errore che fece Vittorio Emanuele III non
firmando lo stato d’assedio richiestogli da Facta per stroncare la Marcia su Roma (“Corriere
della Sera” del 9 agosto).
Secondo me il vero pericolo
italiano non è Renzi, sono gli italiani. I quali stanno manifestando in maniera
sempre più preoccupante la voglia di fare di Renzi una sorta di dittatore, da
non chiamare magari “duce” per evidente inopportunità. Lo si vede, lo si sente,
lo si vive, con disgusto da parte di pochi; con pigra acquiescenza da parte di
molti; con rassegnazione da parte di moltissimi.
La riforma del Senato con la fine del bicameralismo perfetto non è di
per sé una circostanza che favorisce la deriva autoritaria, ma nel modo come
sarà combinata con quanto disporrà la nuova legge elettorale può renderla
concreta e accelerarla. Di qui l’importanza che hanno avuto i 16 senatori del
Pd, i 13 di Forza Italia, gli 8 del Ncd non votandola; oltre ai senatori del
M5S, della Lega e di Sel, che addirittura hanno disertato la votazione. Di qui
l’importanza dei giornalisti come Piero Ostellino, che, richiamandosi a
Tocqueville, ricorda a tutti il ruolo che deve avere un giornalista in una
democrazia liberale. Che è quello di vedetta, che può anche sbagliarsi a
gridare al lupo al lupo per ogni nonnulla, ma viene meno al suo compito se
vedendo avvicinarsi qualcosa, invece di lanciare l’allarme, se ne sta zitto o
peggio ancora, scambiandola per l’aurora boreale, la guarda come incantato e se
la gode ammirandola.
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