domenica 20 febbraio 2011

Fini verso la sua reale dimensione

Il cognome indurrebbe alla battutaccia, scontata, e a fare un titolo così: “La fine di Fini”. Ma onestamente non credo che Fini sia finito. E perciò la battuta me la risparmio.
La crisi che sta vivendo in questi giorni la sua formazione politica, il Fli, sicuramente è grave e darebbe ragione a chi gliela aveva divinata con largo anticipo di tempi. Continua a perdere pezzi, anche importanti. Al Senato non ha più il gruppo. Lo ha lasciato, tra gli altri, il vecchio Sen. Pontone, il suo tesoriere, quello dell’affare della casa di Montecarlo. Il che lambisce anche il Fini chiacchierato, quello della moglie, del cognato, della suocera e della famiglia allargata. Una beffa per il Presidente della Camera: si allarga la famiglia anagrafica e si assottiglia quella politica. Chiedo perdono se cedo a qualche battuta alternativa. Lo stesso fenomeno di abbandoni alla chetichella si sta verificando in periferia. Ci sono autentici e sofferti ripensamenti, ma anche opportunistici calcoli di convenienza. E’, questo, nel centrodestra, un momento di morti, di nascite e di rinascite. Vedremo quel che accadrà di qui a non molto.
Certo, lui ha sbagliato a metterla sulla solita solfa del Berlusconi che compra tutto. Non si può dire che ogni sgarbo a Berlusconi sia un atto di coraggio, quasi eroico; e ogni favore, diretto o indiretto, un atto di prostituzione politica. Né può passare senza annotazione critica il comportamento suo e di alcuni suoi fedelissimi quando di fatto essi si comportano allo stesso modo rinfacciato a Berlusconi, di decidere senza discutere e di mettere alla porta chi non ci sta.
Al di là di ogni considerazione, pur comprensibile, di malumori per cariche non ricevute – sarebbe il caso, per esempio di Urso – o per paura di non essere più rieletti, c’è un dato politico, enorme e perciò ineludibile. Il personale politico che aveva seguito Fini nell’avventura del Fli è fondamentalmente di destra, di destra vera, non di destra camuffata da modernità e da europeità, e a destra vuole restare, mentre Fini tende a tagliare in maniera definitiva con quella parte politica, per approdare su lidi opposti. Se gli dovesse riuscire – e non c’è motivo per non augurarglielo – finalmente si potrebbe parlare di lui a destra come di un avversario politico, punto e basta; senza parlare di tradimenti e di derive. Ognuno va dove vuole e chiama le cose come vuole, salvo a fare i conti con gli altri. E’ un delitto, infatti, presentarsi agli elettori con un volto politico e poi, ottenuto il voto, cambiarlo. A mio avviso un comportamento simile dovrebbe essere ascritto a reato, il dimettersi sarebbe solo un’attenuante.
Brutti colpi per lui quelli delle sue ex teste d’uovo, come una volta si chiamavano i consiglieri del leader, mi riferisco ad Alessandro Campi e a Sofia Ventura, che lo criticano per certi atteggiamenti e per certe scelte. Ma ancor più doloroso, per l’autorevolezza della provenienza, il giudizio di Piero Ignazi, studioso tra i più attrezzati dell’universo missino e postmissino. Il quale sul Corsera di venerdì, 18 febbraio, alla domanda del giornalista Andrea Garibaldi “Qual è la caratteristica del politico Fini?”, ha detto: “In una parola, direi il galleggiamento. Evita di prendere decisioni definitive. E per quelle poche che prende sbaglia il momento. Vedi l’adesione al Pdl, il suo abbandono, la sfida in Parlamento…”. Escluso che Ignazi volesse alludere al Re Travicello del Giusti: “Là là per la reggia / Dal vento portato, / Tentenna, galleggia, / E mai dello Stato / non pesca nel fondo…”, bisogna ammettere che gli somiglia molto.
Io all’analisi di Ignazi, farei una premessa. Vero che Fini “tentenna e galleggia”, ma questo accade quando pensa di valere più di quello che effettivamente vale. Davvero poteva scontrarsi con Berlusconi senza conseguenze? Fini si è sopravvalutato. Ora, però, le cose stanno diversamente. Scoppola dopo scoppola, ha capito che deve indursi a più miti consigli.
Ha capito che deve recuperare il rapporto con Adolfo Urso. Si è dimostrato accorto quando ha detto, per esempio, che le perdite di oggi possono non avere quell’importanza che potranno avere le conquiste elettorali di domani.
Perché ha ragione di dire questo, indipendentemente se le attese saranno o meno soddisfatte? Perché oggi ha a che fare con gente che è stata votata per essere e per fare cose precise all’interno di una maggioranza presieduta da Berlusconi. E’ comprensibile che questa gente, dopo una sbandata, pensi di tornare alla “diritta via”. Domani, invece, Fini si troverà con un personale votato da un altro tipo di elettorato, per essere e fare cose diverse.
Il punto semmai è un altro. Dove e con chi starà Fini domani? Per non finire Fini – chiedo scusa per l’allitterazione continua – dovrà mettersi come minimo con l’Udc di Casini e con l’Api di Rutelli, dovrà entrare cioè in una coalizione, una sorta di Ufi, dove non potrà che avere un ruolo marginale e non potrà fare quelle cose che lui dice di voler fare, perché non consone alla cultura e alla politica di un cattolico, sia pure laico, come Casini, che di quell’alleanza sarebbe il naturale capo.
A questo punto, valeva la pena abbandonare il suo mondo politico, rinunciare ad opportunità quali sarebbero state se fosse rimasto, sia pure in veste critica ma corretta, nel Pdl? Peggio ancora sarebbe per lui se fosse tentato dalla sirena Vendola, con cui, poste le ultime scelte di Fini in tema di diritti individuali, andrebbe più d’accordo.
No, non credo che Fini si stia avviando alla fine; ma sono convinto che ormai per lui è tramontata ogni possibilità di stare ad un livello politico di prestigio e di potere. Dopo venticinque anni deve accontentarsi della seconda linea. Continuerà a fare politica ma senza quella visibilità che ha avuto finora, a livello sia di partito che di governo.
E’, questo – certo – un ragionamento che potrebbe essere smentito da un qualche avvenimento straordinario e perciò imprevisto. Ma in genere i conti si fanno con le cose viste e previste. L’imprevisto, che imprevisto sarebbe se solo si potesse ipotizzarlo?
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