La rapida successione della morte
di Giulio Andreotti, avvenuta a mezzogiorno del 6 maggio, dopo quella di Agnese
Borsellino del giorno prima, fa pensare che si sia affrettato a raggiungere la
donna su quel tratto che ci piace immaginare che i morti facciano insieme prima
di giungere alla biforcazione per prendere poi destinazioni diverse; magari per
raccontarle finalmente come andarono le cose sulla morte del marito o forse per
convincerla che quello che gli avrebbe detto di lì a poco Paolo non era vero. La
donna era morta con la pena nel cuore per non aver saputo chi aveva deciso
l’eliminazione del suo Paolo. Il personaggio mi perdonerà la battuta.
Aveva 94 anni ed è morto nel suo
letto, nella sua casa romana. Che voleva di più? Secondo una sua recente
battuta, morendo non si passa a miglior vita, miglior vita è restare in vita. Siamo
d’accordo, ma non si può vivere in eterno; e forse è morto quando restare in
vita era diventato per lui una pena insopportabile o una sovrana indifferenza.
Altri, suoi coetanei e colleghi,
hanno fatto morte peggiore. Il pensiero corre ad Aldo Moro. Quando un
giornalista, dopo l’uccisione del suo luogotenente siciliano Salvo Lima per
mano della mafia, gli chiese se era un avvertimento per lui, rispose calmo: beh,
mi pare che l’avvertimento sia da preferire.
Accusato di tutto nel corso della
sua lunghissima carriera politica – 7 volte capo del governo, 22 volte ministro
in quasi tutti i dicasteri – associato a vicende inquietanti, dalle quali, in
linea col personaggio, è uscito mai colpevole e mai innocente, Andreotti è
ricordato per tante azioni e tante battute.
Si dice che fu lui a brigare
perché Moro fosse lasciato al suo destino, che era stato il mandante
dell’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, che aveva favorito le
spericolate manovre finanziarie del banchiere Sindona, che era stato il
beneficiario della potente cupola mafiosa siciliana, che lui sapeva come e
perché era morto Mattei, come e perché era morto Calvi, che era associato alla
P2 di Licio Gelli e perfino alla banda della Magliana. Tutto ciò che c’è stato
di male in mezzo secolo di storia italiana lo vede in mezzo. E lui non se n’è
dato eccessiva pena, anzi, scrittore brillante e di raffinato humour, ha aggiustato
le sue verità nei diari, pubblicati ovviamente in vita.
Il suo bacio a Totò Rijna ha fatto
dimenticare quello di Giuda e fatto passare in secondo ordine i celeberrimi
dell’arte, di Hayez e di Klimt.
Fu lui, a quel che si dice, a
convincere Bettino Craxi, di cui era ministro degli esteri, ad avvisare
Gheddafi dell’attacco americano a Tripoli, che salvò la vita al dittatore
libico. Nessun uomo politico italiano è riuscito come lui ad esercitarsi in
politica in uno spazio delimitato dal realismo di Machiavelli e dal cinismo di
Guicciardini come un ring, su cui ha messo al tappeto tutti i suoi avversari.
Lo ha sorretto, come la rete di Sigfrido che rendeva invisibili, la sua scorza
cattolica di spregiudicato peccatore, convinto che nel nome del Signore si può
fare di tutto e di più. Un modo di essere in politica che trova nella sua
celebre battuta “il potere logora chi non ce l’ha” la sintesi e la sublimazione
della tracotanza.
La sua carriera iniziò
nell’immediato dopoguerra, all’ombra di Alcide De Gasperi, di cui fu sottosegretario.
In quegli anni fu visto riconciliarsi pubblicamente col maresciallo Rodolfo
Graziani, che era stato capo dell’esercito di Salò. A lui interessava vincere
le elezioni e qualche voticino dai fascisti certo non gli puzzava.
Da allora si può dire che sia
stato ininterrottamente al governo, ora come capo ora come ministro. Per la
longevità del successo e per il rispetto di cui godeva era stato battezzato
Divo, predicato con cui il regista Paolo Sorrentino ha intitolato il suo film,
con Toni Servillo ad interpretarlo in maniera magistrale.
Ciò detto, però, non significa
che tutto il suo operato sia stato opera del diavolo. Peraltro fu battezzato
anche Belzebù da Eugenio Scalfari. Erano gli anni in cui il fondatore di
“Repubblica” battezzava Craxi col nome di Mackie Messer, il protagonista
dell’«Opera da tre soldi» di Bertolt Brecht, e considerava il partito
socialista un’autentica banda di predoni.
Diabolico era diabolico. Se non
lo fosse stato non sarebbe riuscito a fottere gli americani, ai quali senza mai
dare prove di tradimento faceva passare come digeribile la sua politica
filoorientale. Chissà che non abbia pensato di fottere perfino il Padreterno!
Se lo ha fatto, questa volta gli è andata male. Ci piace pensarlo da uomini
semplici e da cittadini onesti. Per il resto, parce sepulto!
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