Ormai tutti diciamo che siamo in
guerra. Pochi però sono disposti a dire che la guerra l’abbiamo persa. Una
“guerra a pezzi”, l’ha chiamata Papa Francesco, con un’immagine da politologia
artigianale. E’ la “terza guerra mondiale”, dicono alcuni, esagerando; ma c’è
chi, come lo scrittore Claudio Magris, dice che è addirittura la “quarta”,
poiché la terza è stata la cosiddetta “guerra fredda”, conclusasi con la caduta
del Muro di Berlino nel 1989. Forse l’ansia consumistica sta invadendo anche il
vocabolario.
E’ bensì strano che la parola
guerra circoli sulle bocche di politici e intellettuali con tanta disinvoltura
proprio nel centenario di una delle più sanguinose guerre della storia, forse
la più sanguinosa in assoluto, la prima guerra mondiale, detta anche la “grande
guerra”.
Da più di un anno televisioni e
giornali non fanno che parlarne; gli studiosi la stanno indagando in ogni più
riposto angolo, con pubblicazioni su pubblicazioni, di storici, di studiosi; ma
anche degli stessi suoi combattenti con reperti vari: lettere, cartoline,
diari, memoriali. La guerra che viene fuori da simili testimonianze non ha
nulla della guerra di cui si parla in riferimento agli atti terroristici che
dalle Torri Gemelle, settembre 2001, fino alle stragi di Parigi del 2015
conosciamo.
Sui vari fronti della Grande
Guerra erano carneficine di uomini, che si affrontavano con assalti alla
baionetta e si sbudellavano, che cadevano falciati dalle mitragliatrici, che si
spegnevano soffocati dai gas asfissianti, che venivano fucilati per diserzione,
che venivano operati sul campo con asportazione di arti, che impazzivano di
dolore o per i bombardamenti o per lo spettacolo atroce cui assistevano. La
guerra è orribile anche per il suo stato di continuità nella sofferenza, anche
per l’impossibilità di vedere un epilogo, lontano o vicino che sia.
Che cosa ha di tutto questo la
guerra di cui si parla oggi contro il terrorismo islamista? Direi quasi nulla.
Cosa nasconde, allora, l’esagerazione di tanti politici e di tanti
intellettuali?
Incominciamo col chiarire che se
pure non si tratta di guerra, come l’abbiamo vista sempre combattere da due
eserciti contrapposti, neppure si può parlare di episodi di criminalità
internazionale. E’ qualcosa di mezzo, di nuovo, che si definisce guerra per
comodità di comunicazione. E’ entrata nell’uso giornalistico per l’esigenza di
indicare immediatamente la “cosa” di cui si argomenta. Non si può sempre aprire
una digressione nel mezzo di un ragionamento per dire se si può parlare di
guerra o meno.
Guerra, è guerra, dunque; ma io
non la metterei in successione di altre, perché essa è un unicum, che va analizzato e capito per la sua specificità, anche
per evitare fughe da responsabilità precise.
Dal 2001 in poi non ci sono stati
solo atti terroristici da parte degli islamisti, ci sono state le reazioni
degli Stati colpiti, le guerre di Iraq e di Afghanistan; e poi le insorgenze
dei paesi dell’Africa Settentrionale, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia
alla Siria, fino al formarsi del Califfato e dell’Isis. Di fronte agli attacchi
islamisti l’Occidente si è dimostrato impreparato, incapace di elaborare una
strategia ed ha scambiato lucciole per lanterne, come nel caso delle cosiddette
“primavere arabe”. Le sue reazioni, a partire dalla guerra in Afghanistan,
hanno avuto carattere episodico e di polizia internazionale. Si colpiva lo
Stato, cosiddetto canaglia, responsabile di aver ospitato i gruppi
terroristici. Non c’è stato un progetto unitario per rispondere ad un attacco
che, benché si ponesse in essere in maniera episodica, aveva una sua unità
d’intenti. Gli Europei hanno dimostrato ancora una volta di non saper né vedere
né pensare né agire da Europei, unitariamente. Ogni Paese ha cercato di trarre
un vantaggio dalle varie crisi. Il caso più eclatante è stato la Libia, col
francese Sarkozy che la volle attaccare a tutti i costi, trascinando anche noi
italiani, combattuti tra l’interesse nazionale, secondo l’interpretazione di
Berlusconi, allora Capo del Governo, e la fedeltà atlantica, interpretata dal
Presidente della Repubblica Napolitano.
Dai fatti libici ai siriani è
stato un susseguirsi di contenziosi, che hanno portato dentro la crisi la
Russia di Putin, la Turchia di Herdogan, e ora l’Iran e l’Arabia Saudita;
mentre non ha mai avuto tregua lo scontro israeliano-palestinese. In tutto
questo accendersi di focolai di guerra, milioni di profughi si sono spostati e
si spostano dall’Africa e dal Medio Oriente per raggiungere l’Europa. Nel 2015 ha superato il
milione, mentre migliaia sono morti e continuano a morire durante il tragitto.
Quanto di spontaneo ci sia in questo traffico di disperati e quanti di essi siano
veramente e soltanto dei disperati è la grande incognita di fronte alla quale
le autorità europee chiudono gli occhi.Gli episodi accaduti in Germania e in
Svizzera la notte di San Silvestro, con centinaia di immigrati musulmani che
hanno aggredito, violentato e derubato centinaia di donne nelle piazze dove si
festeggiava la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo, sono stati definiti
inquietanti, ma sono rivelatori.
Siamo di fronte ad un’invasione,
che i responsabili dei vari governi non vogliono neppure pronunciare, men che
meno prendere in considerazione come ipotesi. Gli invasori giungono da noi come
profughi e, una volta accolti, si rivelano per quello che sono o che forse non
possono non essere.
E noi, come rispondiamo? Ecco,
con la parola “guerra”, che è oggettivamente appropriata ma sembra anche la password per aprire lo spazio della
irresponsabilità, come ad allontanare da noi la minaccia. Ma con essa
si cerca di esorcizzare la trappola in cui ci siamo cacciati. Sparandola grossa
si cerca di coprire la verità, la gravissima verità. Invece di riconoscere gli
errori fatti fino ad ora, di capire la gravità della situazione, che consiste
nell’aver ingravidato l’Europa di ogni pericolo islamista, e cercare una via
d’uscita, si continua a dire che dobbiamo continuare ad accogliere quanti più
musulmani possiamo e ancora di più, che dobbiamo abolire il reato di immigrazione
clandestina, che non dobbiamo aver paura di rimanere aperti. Ma, a questo punto, più che di guerra dobbiamo
parlare di resa; più che parlare di paura dobbiamo imbracarci di pannoloni.
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