Festeggio anch’io l’8 marzo,
festa delle donne, festa laica. Le feste cristiane sono sempre di meno rispetto alle laiche,
che s’impongono a volte inducendo a riflessioni importanti (shoah, foibe, fame
nel mondo, ambiente, bambini), a volte ad abbandoni frivoli (donne, mamma,
papà, S. Valentino). E festeggio in un solo modo, dicendo: evviva la mamma! Con
ciò ribadendo che la suprema valorizzazione della donna è il suo essere madre.
Le donne, che tali non sono per propria volontà, non meritano di essere
festeggiate in alcun modo, poiché esse hanno tradito la loro natura, la loro
funzione, quella di dare all’umanità la vita, la continuità, la perpetuità
della specie; si sono private della possibilità di spingere il proprio amore
fino ai confini dell’infinito. La mamma è portatrice di beni e di valori in
nessun modo surrogabili, è testimonianza attiva del miracolo della vita,
dell’amore immotivato, del legame inscindibile anche dopo che quel legame
carnale è materialmente scisso, biologicamente remoto.
Mi rendo conto che la mia è una
posizione tradizionalista, conservatrice, ideologicamente e saldamente avvinta
ad ancestrali legami di natura, di storia e di cultura. Una posizione coltivata
e innervata con letture indimenticabili, formative, rinnovabili. Vere dolci
cicatrici impresse indelebilmente nell’anima.
I miei ricordi vanno ai miei
esami di ammissione alla scuola media, quando per passare dalle elementari alle
medie era necessario compiere un difficile guado. Avevo all’epoca nove anni,
avendo saltato la quarta e la quinta elementari, per la fretta che mio padre
aveva nel vedermi avviato a conquiste culturali e professionali a lui inibite
da condizioni famigliari. Qualche psichiatra potrebbe dire che sono rimasto
traumatizzato. Evviva un simile trauma! Lo rivendico come il mio massimo bene.
Nel programma di italiano due
poesie si distinguevano su tutte. Erano A
mia madre di Edmondo De Amicis e Affetti
di una madre di Giuseppe Giusti. Testi che facevano parte del canone
letterario formativo dei bambini del secondo ciclo delle elementari. Con queste
due bellissime e mirabili poesie ogni
bambino, negli anni della sua migliore formazione, aggiungeva bellezza alla
forza del vincolo madre-figlio che la natura aveva dato fin dal suo
concepimento.
Questi due poeti, tra i più cari
all’Italia dell’Otto-Novecento, hanno fatto crescere i bambini nel culto della
propria mamma più di quanto non facessero altri motivi ben più razionali e
motivati.
Non sempre il tempo la beltà cancella… apriva il De Amicis. Ecco,
la mamma non ha età poiché il tempo che può tutto su tutto nulla può sulla
bellezza della propria mamma. E più la
guardo e più mi sembra bella…La cifra più forte dell’amore è proprio nel
progressivo crescente attaccamento a lei, al punto da invocare la potenza
dell’arte: ah, se fossi pittore, / farei
tutta la vita il suo ritratto! A quale altra figura della molteplice declinazione
femminile si può pensare appartenga una così miracolosa potente attrazione?
Fino al sacrificio personale: Vorrei
poter cangiar vita con vita, / darle tutto il vigor degli anni miei. / Vorrei
veder me vecchio e lei…/ dal sacrificio mio ringiovanita!
Giusti con Affetti di una madre integra e rovescia i termini di questo amore.
Nel Giusti è la mamma che sente e parla, Presso
alla culla, in dolce atto d’amore, / che intendere non può chi non è madre…Il
poeta ribadisce l’unicità, l’esclusività del rapporto madre-figlio col rifacimento
del verso dantesco-aristotelico “che intender non la può chi non la prova”.
L’affetto della madre è tutto interiore: arde,
si turba e rasserena in questi / pensieri della mente inebrïata. Anche da
parte della madre l’amore e l’attaccamento al figlio sono progressivi: beata e pura / si fa l’anima mia di cura in
cura; / in ogni pena un nuovo affetto imparo. C’è nella madre la piena
totale consapevolezza della sua essenza e della sua missione: Così piena e compita / avrò l’opra che vuol
da me natura. E nel suo essere madre si concretizza alla massima altezza il
suo esser donna: Nessun mai t’amerà
dell’amor mio. Un legame che nessuna donna capisce fino a quando non è
madre, che ogni donna-moglie invidia alla donna-mamma. Fino a rivendicare l’essere il porto
insostituibile del figlio: Nel sen che
mai non cangia avrai riposo, tanto incompreso e osteggiato dalla donna-moglie.
Si può dire che si tratta di
espressioni maschili. E sia! Non erano De Amicis e Giusti dei maschi, due figli
di mamma? Io li cito perché appartengono alla mia formazione, al mio essere
stato bambino quando li ho appresi, imparati a memoria, recitati e commentati trepidando
in sede d’esame. Allora, e mai più! Perché negli studi successivi e dopo,
nell’esercizio della mia professione di docente di italiano nei licei e negli
istituti superiori, De Amicis e Giusti sono scomparsi. Altri autori e altri
testi rispondevano al processo formativo dei giovani. Ma oggi nessuno più
all’età di nove-dieci anni legge e impara a memoria la “mamma” di questi due
poeti. Sarà anche per questo che i bambini crescono con meno traumi immediati
ma con gravissime carenze mediate che si manifestano poi nell’aridità dei
sentimenti, nel rifugio delle droghe, nel deturpare il proprio aspetto e la
propria pelle con piercing e tatuaggi, espressioni di mancanza di quelle
profonde incisioni nell’anima che lasciavano i percorsi formativi di una volta.
Sugli affetti veri non s’attaccano serpenti e draghi.
Non parlo per acrimonia,
rivendico il diritto di essere me stesso fino in fondo, e di essere me stesso
nell’inseparabile rapporto con la donna delle donne, la mamma, passando tra le
attuali futilità, senza bruciarmi alla fiamma delle tante donne, che, pur
potendo essere grandi, non possono mai raggiungere l’altezza dell’essere madri.
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