Non v’è dubbio che il fenomeno
politico più importante nell’Italia postpartitocratica, dunque di quest’ultimo
quarto di secolo, è il cosiddetto populismo. Il fenomeno non è nuovo ma, sempre
considerato sbrigativamente negativo, solo di recente ha avuto attenzioni da
parte della scienza politica con analisi avalutative e descrittive. Prima lo si
associava alle dittature in generale e in Italia a quella fascista. Dopo il
fascismo furono gli esclusi dal sistema partitocratico, fondamentalmente di
destra, neofascisti e monarchici, ad avviare iniziative e a usare toni di
pretto stampo populistico non disdegnando scherno e satira. Per dire, Guglielmo
Giannini, fondatore dell’Uomo Qualunque,
si divertiva coi Maledetto Croce, Fessuccio Parmi, Piero Caccamandrei e Palmiro Togliatti
chiamato “il cosacco onorario”. Fino agli inizi degli anni Novanta populista
era una variante di qualunquista e lo si ascriveva alla destra, come ogni altro
fenomeno politico che non fosse riconducibile al sistema dei partiti, in Italia
identificabile nel ciellenismo, poi evoluto nell’arco costituzionale. La stessa
polemica partitocratica, in quanto rivolta a quel sistema, veniva screditata
benché sostenuta da studiosi del calibro di Giuseppe Maranini e Panfilo
Gentile. Aldo Moro al congresso democristiano di Napoli del 1962 la bollò come
una polemica di destra, perché mirata a delegittimare il sistema dei partiti,
la cui strategia, democratica, dal centro guardava e si muoveva verso sinistra,
secondo il senso unico degasperiano.
Solo dopo la bufera di
Tangentopoli e la stagione giudiziaria di Mani Pulite, il populismo ha subito
uno spontaneo e quasi immediato processo revisionistico ed è stato inteso come
la più diretta e redditizia interpretazione del popolo a livello soprattutto
comunicativo-comportamentale. Alla base c’è una diversa valutazione del popolo,
non più da educare e guidare ma da “accompagnare” nelle sue più genuine istanze
di onestà, di chiarezza, di semplicità, di concretezza.
Di qui un malinteso rapporto
rovesciato politica-popolo, quasi una contrapposizione esclusiva a tutto
vantaggio del popolo. I politici si sono adeguati e hanno avuto nei confronti
dell’universo partitico una sorta di damnatio
nominis surrogando le strutture e le circostanze con nomi più accattivanti
e popolari, non solo per farsi più immediatamente capire dal popolo, ma
addirittura per riciclarne i modi di vedere e di sentire. Contemporaneamente il
fenomeno ha perso la sua connotazione di destra ed è diventato a tutti gli
effetti e in tutti gli aspetti una variante della democrazia politica. Sicché
oggi ci sono fenomeni populistici a destra, al centro e a sinistra; e – se mi è
lecito dirlo – anche nella chiesa
cattolica. Perché qualcuno ha qualche dubbio sul populismo di Papa Francesco?
Direi che il suo ha perfino l’imprinting sudamericano.
Marco Tarchi, politologo
dell’Università di Firenze, colse questa importante evoluzione in un suo saggio
del 2003, L’Italia populista. Dal
qualunquismo ai girotondi (il Mulino, pp. 208), che oggi ripropone in
un’edizione più approfondita e ampliata, L’Italia
populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (il Mulino, pp. 380). La tesi di
Tarchi nasce dall’intuizione che il populismo, se pure fino ad un certo momento
in Italia si è configurato come di destra, dalla crisi dei partiti in poi è
stato piegato in tutte le direzioni politiche. E fenomeni populistici sono
stati e sono la Lega
di Umberto Bossi, il giustizialismo di Antonio Di Pietro, Forza Italia di
Silvio Berlusconi, il movimento dei girotondi, il Movimento 5 Stelle di Beppe
Grillo, il Pd nell’interpretazione di Matteo Renzi. Al fenomeno, secondo
Tarchi, non fu estranea la variabile del picconatore Cossiga. E che il fenomeno
sia vincente, almeno nell’immediato, lo provano i suoi successi elettorali, a
volte, come nel caso di Berlusconi e di Grillo, davvero sorprendenti.
Il populismo, inteso come pratica
per creare consenso, non poteva non essere utilizzato da tutti i soggetti della
politica. «Era facile immaginare – scrive Tarchi – che prima o poi, a sinistra,
qualcuno avrebbe avuto l’idea di combattere l’avversario scendendo sul suo
stesso terreno, attingendo al serbatoio dell’antipolitica, al mito della
moralità e della spontaneità della società civile, chiedendo alla Magistratura di esercitare un ruolo di
supplenza di una politica in forte sofferenza e lanciando i propri proclami in
nome del popolo sovrano».
Ma c’è populismo e populismo. Le
sortite di Nanni Moretti, “con questa sinistra non vinceremo mai”, i movimenti
dei girotondini e dei difensori della Costituzione, con l’ex presidente della
repubblica Scalfaro e l’ex presidente della corte costituzionale Zagrebelsky,
non hanno avuto respiro elettorale. Il che significa che il populismo non è un
distintivo da applicarsi sulla giacca, ma soprattutto capacità di interpretare
il sentimento popolare e di gestirne i conati. Certi movimenti pseudopopulisti
della sinistra, alla Nanni Moretti o alla Flores d’Arcais, sono stati solo
isteriche reazioni contro la frustrante condizione di perdenti di fronte ad un
Berlusconi e ad una destra più felici interpreti della pancia popolare.
Il grillismo, invece, ha due
facce, l’una senza l’altra inutile. Per un verso Grillo ha percorso l’iter
popolare della piazza off line, con autentici spettacoli nel corso dei quali si
è esibito in autentiche requisitorie contro la politica, fra insulti e satira,
per un altro, col suo sodale Casalegno, ha invaso la piazza on line. Le due
piazze hanno avuto un successo senza precedenti col Movimento più suffragato
nelle elezioni politiche del 2013. Il Movimento ha proposto un populismo destruens, in linea con la furia
popolare jacqueristica. Grillo ha saccheggiato, incendiato e distrutto – ovvio,
in senso metaforico! – i palazzi della politica, ha impiccato i loro signori e
i loro maggiordomi. Tarchi lo ritiene
«la quintessenza della mentalità populista».
Altro è il caso di Renzi, che
Tarchi lascia per il momento sulla soglia dalla sua analisi, ma che già connota
come leader populista. Alla guida del Pd, partito di centrosinistra, pensa e si
muove come Berlusconi, avendo il vantaggio di non avere veri oppositori contro,
gli unici essendo gli inconcludenti e indecisi oppositori interni. Ma Renzi è
un neodemocristiano a tutti gli effetti, che va bene alle gerarchie ecclesiastiche.
E’ sufficiente pensare alla loro reazione stizzita all’assoluzione di
Berlusconi dalle accuse di prostituzione minorile e concussione. Ormai con
Renzi la chiesa ha l’alius papa e
ricomposto, con Francesco, la giusta diarchia laico-clericale. Renzi ha
proposto un populismo construens, e
per questo è piaciuto all’establishment,
da Napolitano a Marchionne.
Tarchi, che analizza ma non
valuta e usa un linguaggio asettico, come deve uno scienziato, si chiede in
chiusura «quale, fra i vari tipi di populismo che oggi si contendono il
proscenio della politica italiana, riuscirà ad imprimerle più in profondità il
suo marchio nel prossimo futuro» e avanza l’ipotesi del populismo istituzionale
di Renzi, il quale «avrà certamente un bell’avvenire davanti a sé»; ma riserva
a Grillo e a Salvini un ruolo importante
nella partita politica dei prossimi anni. Probabilmente – ma la conclusione
questa volta è di chi scrive – il populismo con tutte le sue convulsioni – Tarchi
direbbe declinazioni – durerà fino a quando la politica non avrà trovato
l’assetto perso con Tangentopoli.
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