domenica 22 marzo 2015

L'Italia e il populismo trionfante


Non v’è dubbio che il fenomeno politico più importante nell’Italia postpartitocratica, dunque di quest’ultimo quarto di secolo, è il cosiddetto populismo. Il fenomeno non è nuovo ma, sempre considerato sbrigativamente negativo, solo di recente ha avuto attenzioni da parte della scienza politica con analisi avalutative e descrittive. Prima lo si associava alle dittature in generale e in Italia a quella fascista. Dopo il fascismo furono gli esclusi dal sistema partitocratico, fondamentalmente di destra, neofascisti e monarchici, ad avviare iniziative e a usare toni di pretto stampo populistico non disdegnando scherno e satira. Per dire, Guglielmo Giannini, fondatore dell’Uomo Qualunque, si divertiva coi Maledetto Croce, Fessuccio Parmi, Piero Caccamandrei e Palmiro Togliatti chiamato “il cosacco onorario”. Fino agli inizi degli anni Novanta populista era una variante di qualunquista e lo si ascriveva alla destra, come ogni altro fenomeno politico che non fosse riconducibile al sistema dei partiti, in Italia identificabile nel ciellenismo, poi evoluto nell’arco costituzionale. La stessa polemica partitocratica, in quanto rivolta a quel sistema, veniva screditata benché sostenuta da studiosi del calibro di Giuseppe Maranini e Panfilo Gentile. Aldo Moro al congresso democristiano di Napoli del 1962 la bollò come una polemica di destra, perché mirata a delegittimare il sistema dei partiti, la cui strategia, democratica, dal centro guardava e si muoveva verso sinistra, secondo il senso unico degasperiano.
Solo dopo la bufera di Tangentopoli e la stagione giudiziaria di Mani Pulite, il populismo ha subito uno spontaneo e quasi immediato processo revisionistico ed è stato inteso come la più diretta e redditizia interpretazione del popolo a livello soprattutto comunicativo-comportamentale. Alla base c’è una diversa valutazione del popolo, non più da educare e guidare ma da “accompagnare” nelle sue più genuine istanze di onestà, di chiarezza, di semplicità, di concretezza.
Di qui un malinteso rapporto rovesciato politica-popolo, quasi una contrapposizione esclusiva a tutto vantaggio del popolo. I politici si sono adeguati e hanno avuto nei confronti dell’universo partitico una sorta di damnatio nominis surrogando le strutture e le circostanze con nomi più accattivanti e popolari, non solo per farsi più immediatamente capire dal popolo, ma addirittura per riciclarne i modi di vedere e di sentire. Contemporaneamente il fenomeno ha perso la sua connotazione di destra ed è diventato a tutti gli effetti e in tutti gli aspetti una variante della democrazia politica. Sicché oggi ci sono fenomeni populistici a destra, al centro e a sinistra; e – se mi è lecito dirlo – anche nella chiesa cattolica. Perché qualcuno ha qualche dubbio sul populismo di Papa Francesco? Direi che il suo ha perfino l’imprinting sudamericano.
Marco Tarchi, politologo dell’Università di Firenze, colse questa importante evoluzione in un suo saggio del 2003, L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi (il Mulino, pp. 208), che oggi ripropone in un’edizione più approfondita e ampliata, L’Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (il Mulino, pp. 380). La tesi di Tarchi nasce dall’intuizione che il populismo, se pure fino ad un certo momento in Italia si è configurato come di destra, dalla crisi dei partiti in poi è stato piegato in tutte le direzioni politiche. E fenomeni populistici sono stati e sono la Lega di Umberto Bossi, il giustizialismo di Antonio Di Pietro, Forza Italia di Silvio Berlusconi, il movimento dei girotondi, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, il Pd nell’interpretazione di Matteo Renzi. Al fenomeno, secondo Tarchi, non fu estranea la variabile del picconatore Cossiga. E che il fenomeno sia vincente, almeno nell’immediato, lo provano i suoi successi elettorali, a volte, come nel caso di Berlusconi e di Grillo, davvero sorprendenti.
Il populismo, inteso come pratica per creare consenso, non poteva non essere utilizzato da tutti i soggetti della politica. «Era facile immaginare – scrive Tarchi – che prima o poi, a sinistra, qualcuno avrebbe avuto l’idea di combattere l’avversario scendendo sul suo stesso terreno, attingendo al serbatoio dell’antipolitica, al mito della moralità  e della spontaneità  della società civile, chiedendo  alla Magistratura di esercitare un ruolo di supplenza di una politica in forte sofferenza e lanciando i propri proclami in nome del popolo sovrano».
Ma c’è populismo e populismo. Le sortite di Nanni Moretti, “con questa sinistra non vinceremo mai”, i movimenti dei girotondini e dei difensori della Costituzione, con l’ex presidente della repubblica Scalfaro e l’ex presidente della corte costituzionale Zagrebelsky, non hanno avuto respiro elettorale. Il che significa che il populismo non è un distintivo da applicarsi sulla giacca, ma soprattutto capacità di interpretare il sentimento popolare e di gestirne i conati. Certi movimenti pseudopopulisti della sinistra, alla Nanni Moretti o alla Flores d’Arcais, sono stati solo isteriche reazioni contro la frustrante condizione di perdenti di fronte ad un Berlusconi e ad una destra più felici interpreti della pancia popolare.
Il grillismo, invece, ha due facce, l’una senza l’altra inutile. Per un verso Grillo ha percorso l’iter popolare della piazza off line, con autentici spettacoli nel corso dei quali si è esibito in autentiche requisitorie contro la politica, fra insulti e satira, per un altro, col suo sodale Casalegno, ha invaso la piazza on line. Le due piazze hanno avuto un successo senza precedenti col Movimento più suffragato nelle elezioni politiche del 2013. Il Movimento ha proposto un populismo destruens, in linea con la furia popolare jacqueristica. Grillo ha saccheggiato, incendiato e distrutto – ovvio, in senso metaforico! – i palazzi della politica, ha impiccato i loro signori e i loro maggiordomi.  Tarchi lo ritiene «la quintessenza della mentalità populista».
Altro è il caso di Renzi, che Tarchi lascia per il momento sulla soglia dalla sua analisi, ma che già connota come leader populista. Alla guida del Pd, partito di centrosinistra, pensa e si muove come Berlusconi, avendo il vantaggio di non avere veri oppositori contro, gli unici essendo gli inconcludenti e indecisi oppositori interni. Ma Renzi è un neodemocristiano a tutti gli effetti, che va bene alle gerarchie ecclesiastiche. E’ sufficiente pensare alla loro reazione stizzita all’assoluzione di Berlusconi dalle accuse di prostituzione minorile e concussione. Ormai con Renzi la chiesa ha l’alius papa e ricomposto, con Francesco, la giusta diarchia laico-clericale. Renzi ha proposto un populismo construens, e per questo è piaciuto all’establishment, da Napolitano a Marchionne.  

Tarchi, che analizza ma non valuta e usa un linguaggio asettico, come deve uno scienziato, si chiede in chiusura «quale, fra i vari tipi di populismo che oggi si contendono il proscenio della politica italiana, riuscirà ad imprimerle più in profondità il suo marchio nel prossimo futuro» e avanza l’ipotesi del populismo istituzionale di Renzi, il quale «avrà certamente un bell’avvenire davanti a sé»; ma riserva a Grillo e a Salvini  un ruolo importante nella partita politica dei prossimi anni. Probabilmente – ma la conclusione questa volta è di chi scrive – il populismo con tutte le sue convulsioni – Tarchi direbbe declinazioni – durerà fino a quando la politica non avrà trovato l’assetto perso con Tangentopoli. 

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