sabato 3 dicembre 2022

Meloni "costi quel che costi"

Nel suo libro autobiografico, Io sono Giorgia, Giorgia Meloni usa spesso, ne ho contate una decina, l’espressione “costi quel che costi”. La usa al termine di un ragionamento e di una promessa d’impegno e sempre per la realizzazione dei suoi progetti politici. Una sorta di draghiano whatever it takes, con cui l’ex presidente della Bce è diventato famoso nel mondo. La Meloni in quel suo “romanzo di formazione” rivela un carattere forte e deciso sicché oggi è conosciuta anche da chi non ha avuto modo di conoscerla prima, dai primi approcci politici giovanili, nel 1992, alle sue prime sortite da Presidente del Consiglio di questo primo mese e mezzo di vita del suo governo. Sanno tutti oggi con chi hanno a che fare. La Meloni è un tipo tosto. Sarà anche per questo che le femministe del nostro Paese, la comunità Lgbt e affini, per lo più comunisti, hanno ripreso ad usare, questa volta nei suoi confronti, slogan truculenti e striscioni con su scritto frasi datate 1968, che pensavamo sepolte sotto la coltre di una sinistra ammuffita e micotica. Nel corteo organizzato da “Non una di meno” contro la violenza sulle donne, sabato 19 novembre, le organizzatrici hanno fatto sfoggio di cannibalismo promettendole che le avrebbero “mangiato il cuore” e nelle nuove liste di proscrizione di soggetti da eliminare l’hanno messa in testa: “Meloni, fascista, sei la prima della lista”. Siamo tornati all’ “uccidere un fascista non è reato” e a tanta bella rimeria degli anni di piombo, che il comunista Mario Capanna definisce “formidabili” in un suo libro di qualche anno fa. Strano modo di manifestare contro la violenza sulle donne con slogan e cartelli di morte contro una donna. Ma i comunisti sono così, chi non è dei loro è un nemico da abbattere. No alla violenza sulle donne. Sì alla violenza sulla Meloni, che è donna e madre; ma per loro non è né una cosa né l’altra. È una fascista, e tanto basta. Temono che essa s’impegni a fare quanto ha promesso di fare “costi quel che costi”, anche se ha più volte rassicurato che non farà nulla contro i diritti acquisiti. E se la Meloni rassicura, è certo che manterrà l’impegno “costi quel che costi”. Questo non significa che non farà mai nulla di sgradevole per i comunisti, ci mancherebbe altro. Ed è appena il caso di ricordare che anche lei da donna e da cittadina ha dei diritti da difendere, in primis quello di preservarsi da ingiurie e diffamazioni personali. Sarebbe davvero assurdo che uno o una, solo per essere Presidente del Consiglio, nulla deve fare per difendere il suo onore. Chi rappresenta una carica istituzionale, a qualsiasi livello, tanto più al massimo livello, deve sapersi difendere da chi l’attacca senza una ragione dimostrabile. Chi non si cura di questo aspetto ed anzi lo ritiene non degno di considerazione significa che è il primo a non aver rispetto dell’istituzione che rappresenta. In realtà questo governo non ha fatto nulla contro le donne, neppure a quelle speciali di “Non una di meno” e alle viste non c’è nulla di cui preoccuparsi. Minacciare la Meloni perciò è solo farle violenza preventiva e gratuita, un manifestarle tutto l’odio comunista per il solo fatto che esiste come persona di idee diverse e che per questa sua diversità è diventata capo del governo. È noto che la Meloni ha querelato lo scrittore Roberto Saviano quando ancora non era Presidente del Consiglio per essere stata da lui definita “bastarda” in una trasmissione televisiva e che non intende fare remissione di querela stante anche l’insistenza dello scrittore a ritenersi nel giusto. Stessa sorte è toccata al quotidiano “Domani”, diretto da Stefano Feltri, per aver pubblicato che la Meloni avrebbe fatto una “raccomandazione” per favorire un produttore di mascherine anti Covid. Che cosa avrebbe dovuto fare la Meloni? Starsene in silenzio? Così avallando ingiurie ed accuse? Bene ha fatto a querelare. Bene fa a non recedere dalla querela fino a quando i diretti interessati non riconosceranno di aver avuto torto e non le chiederanno scusa, meglio con una spiegazione plausibile. Non c’è niente di meglio per giornalisti e uomini pubblici riconoscere pubblicamente di aver torto quando altro non hanno da dimostrare, anche se ciò comporta un ridimensionamento di quell’aura padreternale che spesso essi ostentano e sulla quale costruiscono una malintesa reputazione. Togliere la querela senz’altro da parte della Meloni sarebbe un atto di debolezza, incomprensibile ed equivocabile, che mal si concilia con un capo di governo che è abituato ad andare fino in fondo, appunto, “costi quel che costi”.

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