sabato 3 settembre 2022

Ed ora il presidenzialismo

Il tempo nella politica non passa invano e non va sempre verso il peggio, checché ne dicano in tanti nel nostro Paese, ripetendo luoghi comuni, a volte beceri, nei confronti della politica e dei politici, tutto ridotto ad una questione di poltrone e di papponeria. Spesso si confonde il populismo, che è un modo di intendere l’esercizio politico, con la satira che ha per scopo di far ridere: castigat ridendo mores. Da questo non sono esenti né la stampa di destra, che spara titoli in prima pagina a volte anche di dubbio gusto, vedi testate come “il Giornale”, “Libero” e “La Verità”, né quella di sinistra, vedi “Il Manifesto” o “Il Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio. Se si guarda all’ultimo quinquennio, 2018-2023 (XVII Legislatura), non ancora concluso, caratterizzato dai governi nei quali i Cinquestelle hanno fatto la parte del leone, con i primi due guidati da uno di loro, Giuseppe Conte, e il terzo dal tecnico Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, con un esecutivo di unità nazionale, ci accorgiamo di cambiamenti se non proprio radicali di sicuro significativi. Senza entrare nel merito degli obiettivi conseguiti, non in questa sede, che verte su altro, vediamo che alcuni punti del programma realizzati hanno cambiato lo scenario sociale e politico, grazie o per colpa, a seconda della condivisione o meno, dei Cinquestelle. Essi avevano promesso il reddito di cittadinanza, e lo hanno realizzato. Avevano promesso il taglio dei parlamentari, e lo hanno realizzato. Avevano promesso il Super Ecobonus, e lo hanno realizzato. E via di seguito, con il decreto sui corrotti e con altri provvedimenti dettati dalle circostanze come le contingenze, pandemia per esempio, hanno suggerito. Questa legislatura, in scadenza prematura, ha dimostrato che se una forza politica riceve dall’elettorato in maniera chiara e netta il potere necessario per fare le cose può veramente cambiare e incidere. E se sono riusciti i Cinquestelle, in gran parte inesperti e incapaci, absit iniuria verbis, meglio potrebbero riuscire forze politiche che vengono da più lontano e da esperienze più importanti. Ora è il caso di Giorgia Meloni, che, con Fratelli d’Italia nello schieramento di Centrodestra, con la Lega e Forza Italia, ha in programma il presidenzialismo, ovvero il cambiamento della nostra Repubblica in senso presidenziale o semipresidenziale da parlamentare che è. Il risultato dipenderà dalla consistenza delle forze in campo e dalla loro capacità di giungere ad un compromesso, che potrebbe non escludere altre forze politiche più moderate. Il presidenzialismo o Nuova Repubblica, come Giorgio Almirante lo chiamava, è stato per anni il cavallo di battaglia del Msi, che lo propose al XII Congresso del partito (Napoli, 5-7 ottobre 1979), come di recente ha tenuto a ricordare Enrico Letta in polemica con Berlusconi. Fratelli d’Italia ha presentato in Senato un disegno di legge, il 703, per l’elezione, appunto, del Presidente della Repubblica a suffragio universale e diretto. Ovvio che una simile elezione preveda tutta una serie di aggiustamenti costituzionali. Non si tratta, infatti, solo di una diversa modalità di elezione, ma degli effetti ricadenti nel testo e poi nella prassi. Un cambiamento epocale per la nostra democrazia, che, ove dovesse vincere le elezioni il Centrodestra, può verificarsi dando inizio veramente alla Seconda Repubblica. Tale non può intendersi quella uscita da Tangentopoli nella prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. Cosa può voler dire il presidenzialismo, a parte i dati tecnici? Oggi il Centrodestra, che lo propone, vuole mettere fine all’indecoroso spettacolo dell’elezione parlamentare, coi partiti che si muovono come in una fiera paesana, con trattative a volte nascoste, con intese a volte disattese, col preciso intento di assicurare al Quirinale un personaggio dell’establishment per garantire l’establishment. Come dire: chi ha il potere non vuole perderlo e fa di tutto per procurarsi un garante per perpetuarne la titolarità. Lo spettacolo offerto nelle ultime elezioni presidenziali ha dimostrato la crisi di questo sistema. Esso non ha garantito un avvicendarsi ordinato e per ben due volte, con Giorgio Napolitano e con Sergio Mattarella, si è dovuto fare ricorso ad una riconferma. Ricordiamo ancora le durissime parole di Napolitano rivolte ai parlamentari di Senato e Camera in seduta comune nel reintraprendere il percorso dopo che il Parlamento aveva bocciato la quasi fatta elezione di Romano Prodi. L’attuale sistema non funziona perché non ci sono più le condizioni politiche e partitiche di prima. Di qui la necessità di cambiare in senso popolare.

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