domenica 12 ottobre 2025
Israele-Palestina...alla prossima!
Storica è storica, la data del 9 ottobre 2025. Segna la pace tra Israele e Palestina dopo due anni e due giorni di guerra. Donald Trump è riuscito a domare Netanyahu e a farlo desistere da propositi che ormai perfino l’opinione pubblica mondiale riteneva inaccettabili. Le manifestazioni di questi ultimi tempi di protesta pro Palestina e contro Israele hanno risvegliato nel mondo un preoccupante spirito antisemita.
Le cose che si son viste e sentite sulla guerra iniziata il 7 ottobre 2023 con la strage di 1200 israeliani e 251 ostaggi presi da parte palestinese ai danni degli israeliani e sulla reazione di questi con 67mila palestinesi morti e la distruzione di un’intera regione sono degne del proverbiale aggettivo biblico. In quella terra, santa o promessa come la si vuol chiamare, tutto quello che accade è biblico, enorme, ad un certo punto insopportabile. È accaduto anche questa volta che torto e ragione tra le due parti si sono intrecciati al punto che la ragione dell’uno si è trasformata in torto e viceversa. La tragedia di questi due popoli sta proprio nel fatto che hanno ragione e torto insieme. Di qui l’impossibilità di concludere con una pace convintamente accettata dai due contendenti. Tutto sarebbe più semplice se una delle due parti avesse ragione e l’altra torto. E invece si è svolto tutto secondo copione: alla fine a giganteggiare col suo colossale torto è stato Israele, che all’inizio era partito con la ragione a gonfiare le vele della sua giusta vendetta.
Ma è veramente pace quella raggiunta negli accordi di Sharm El Sheikh? Se non fosse enorme pensarlo sembrerebbe una messa in scena per convincere la commissione del Premio Nobel riunita a Oslo per conferire il Premio a Donald Trump per i suoi meriti nel far cessare il fuoco a Gaza e nella restituzione degli ostaggi israeliani, morti e vivi. Quanto meno è legittimo nutrire qualche dubbio. Si fa fatica a pensare che sarà cancellata Hamas e ancor più la possibilità che si dia concretezza allo Stato di Palestina, che a questo punto non si sa più dove collocarlo. Si sa che Israele è contrario alla sua esistenza e che il territorio, la Cisgiordania, storicamente della Palestina, è di fatto occupato dai coloni israeliani, che difendono contro le loro stesse autorità. Al di là delle parole e degli intenti, a cui si può credere o meno, c’è la realtà che rende tutto più complicato.
Ad un certo punto è apparso chiaro l’obiettivo di Netanyahu, cancellare ogni possibilità per i palestinesi di avere uno Stato. L’occasione per farla finita una volta per tutte era proprio questa guerra, nata per un indiscutibile torto subito col bliz palestinese del 7 ottobre 2023. Se non ora, quando? Deve aver pensato Netanyahu. Un obiettivo folle, perché un popolo non sparisce mai e quando i suoi rappresentanti altro non possono per farsi le proprie ragioni ricorrono al terrorismo, alla guerriglia urbana. Di esempi ne abbiamo visti tanti. Proprio i palestinesi si sono resi tristemente noti per i vari attentati compiuti sia in Israele sia in Europa, Italia compresa. Lo Stato di Palestina è perciò la condizione più importante per la sicurezza dello stesso Stato di Israele. Si tratta di trovare i confini precisi di questo Stato, anzi di questi due Stati, di giungere al reciproco riconoscimento, di accettare un modus vivendi che se non è proprio idilliaco quanto meno privo di pretese rivendicazionistiche.
Ma il fatto stesso che si insista sul “due popoli due stati” dopo oltre ottanta anni di guerre dà il senso di quanto sia difficile sbrogliare la matassa. Il negato reciproco riconoscimento rende unico questo conflitto. Prima ancora di spartirsi qualche cosa, in questo caso il territorio, c’è che i due contendenti non si riconoscono, si escludono a vicenda. Prima era la Palestina a non voler riconoscere lo Stato di Israele, ora è anche lo Stato di Israele a non voler riconoscere uno Stato della Palestina, mentre la carta geografica politica interna del Paese è stravolta. La Cisgiordania, territorio palestinese, è oggi occupata da insediamenti di coloni israeliani; mentre l’altra parte di territorio palestinese, la Striscia di Gaza, è stata letteralmente svuotata dei suoi legittimi abitanti. Questo dà l’idea di quanto sia difficile ipotizzare una vera pace tra i due popoli e i due Stati. Se alla fine Netanyahu ha ceduto alla soluzione di Trump lo ha fatto per mettere provvisoria fine ad un processo di massacro, quasi di genocidio, che ha prodotto nel mondo un’ondata di sdegno e di antisemitismo pericoloso. Obiettivi ebrei da colpire sono in tutto il mondo e un popolo di disperati, come quello dei palestinesi, non ha bisogno d’altro per riprendere la sua guerra.
sabato 4 ottobre 2025
La Flotilla ha fatto putsch
Alla fine non c’è più niente da scoprire. I manifestanti Pro Pal, scatenati nel loro “blocchiamo tutto” in accompagnamento dell’avventura della Flotilla, hanno rivelato la loro vera finalità: “Meloni dimissioni”. Il governo deve cadere! Lo gridano nei loro slogan mentre sciamano per le vie cittadine di gran parte delle città italiane. Sarà pure che la Flotilla era globale, con quarantaquattro nazioni rappresentate, ma la nutrita componente italiana aveva scopi ben diversi dagli altri compagni di avventura. In nessun paese europeo si è verificato quanto sta accadendo in Italia. Mobilitazioni spontanee e massicce in ogni città, sciopero generale, scene da guerriglia urbana in tutto il Paese, attacchi dell’opposizione al governo, come mai in precedenza.
All’indomani dell’ennesimo successo del centrodestra, questa volta nelle Marche, i suoi nemici hanno colto l’occasione di Gaza per tentare la spallata e mettere in crisi il governo. Desiderare non è reato, specialmente in politica, dove tutto si può chiedere e pretendere nella convinzione che è sempre troppo poco. Così si diceva nel ’68, anno che sembra avvicinarsi a salti tripli.
Dove non arrivano col voto “lor signori”, i democratici!, cercano di arrivarci con la violenza, col disordine, col caos. Roba vecchia, saputa e risaputa. Che quella di Gaza fosse una scusa, ghiotta, lo si era capito da tempo. I flotillanti sono stati costretti ad ammetterlo dopo gli interventi del Presidente della Repubblica Mattarella e del Cardinale Pizzaballa, primate di Gerusalemme, che suggerivano come far recapitare gli aiuti ai palestinesi di Gaza senza forzare il blocco navale degli israeliani. Senza volerlo, i saggi consigli di questi due santi uomini hanno rotto le uova nel paniere dei flotillanti costringendoli a dichiarare le loro vere finalità politiche.
Ah, perché – hanno detto – davvero quelli pensano che noi vogliamo portare gli aiuti ai palestinesi e poi tornarcene come se avessimo fatto una scampagnata? Il nostro ha un obiettivo politico con tutte le conseguenze che ne possono derivare. In Italia, soprattutto, paese che più di ogni altro al mondo ha adottato la bandiera della Palestina come la propria bandiera politica. I bambini che muoiono, la fame, il genocidio c’entrano, c’entrano; ma intanto servono alla causa italiana. Non è un caso che nella Flotilla c’erano quattro parlamentari dell’opposizione; di ogni componente, del Pd, del M5S e dell’Avs. Una presenza più che simbolica, qualificante, di appropriazione degli esiti quali fossero stati. E se nel mare operavano i nuovi ulissidi, sulla terra ferma operavano i loro omologhi. I parlamentari dell’opposizione continuavano a bersagliare il capo del governo, accusato di essere complice di genocidio, mentre Landini, segretario generale della Cgil minacciava lo sciopero generale. Il resto, i soliti a scatenare il terrore urbano. Tutto concertato.
La tecnica è sempre la stessa: occupazione delle università, assalto alle stazioni, agli aeroporti, invasione delle piazze, sfascio di tutto ciò che capita. Pensano: il governo sarà costretto a mostrare il suo vero volto, quello repressivo. È o non è fascista questo governo? E allora la cosa è fatta! Se poi resta con le mani in mano, tanto peggio per lui, dimostra di non essere in grado di garantire l’ordine e la sicurezza e perderà la faccia nei confronti dei suoi sostenitori e del mondo.
Il governo, invece, coi suoi ministri di competenza, Taiani e Crosetto, Esteri e Difesa, ha svolto un compito irreprensibile, tutelando i flotillanti nostri connazionali, col solo limite di non provocare incidenti diplomatici. Che più? Taiani è rimasto continuamente in contatto col suo omologo israeliano per avere informazioni e rassicurazioni. Crosetto ha inviato una nave della Marina Militare per quanti avessero voluto desistere ove la situazione fosse degenerata.
L’impresa per certi aspetti, all’inizio, mostrava di essere suggestiva. Si trattava di forzare un blocco navale su barche in festa di bandiere e di sventolii. Gaza sembrava una specie di Fiume, la città conquistata nel 1919 dai legionari d’annunziani, tanto che anche tra i giovani di destra serpeggiava qualche simpatia. Si è risolta in un esito scontato. I flotillanti si sono pacificamente arresi ancor prima di entrare in acque territoriali controllate dagli israeliani, appena i militari della stella di David hanno loro intimato di alzare le mani e di lasciarsi arrestare. Il resto è grigio protocollo, burocratico iter, fino al ritorno di ognuno a casa sua sano e salvo, come volevasi che accadesse. O forse no! Resta in Italia tra i “palestinesi” la delusione per non essere accaduto nulla di importante che giustificasse l’assalto alla nazione, come già se ne vedono le imprese.
sabato 27 settembre 2025
Fascisti immaginati e sfascisti veri
Le manifestazioni del 22 settembre in 81 città italiane in favore della Palestina hanno provato, ancora una volta, che in Italia c’è il “partito” degli sfasciatori, che per esigenza di nominalismo dialettico chiamo sfascisti. A Milano specialmente, in centinaia, si sono scatenati con l’unico scopo di sfasciare, ovvero di distruggere, dando sfogo ad una sollecitazione interiore a vendicarsi di vere o presunte frustrazioni subite. Risultato, allo sfascio di oggetti, auto e vetrine, va aggiunto il tentato sfascio di sessanta agenti delle Forze dell’Ordine, tra poliziotti e carabinieri, finiti in ospedale.
Deve essere proprio bello per soggetti simili abbandonarsi agli istinti primordiali e infantili di distruggere tutto in una sorta di rito orgiastico nel trionfo dell’irrazionalità! Si capirebbe – ma saremmo nella razionalità – se l’esito della manifestazione dipendesse dai danni prodotti. Più danni più successo. Il che non accade, il successo dipende dalla partecipazione pacifica del maggior numero di persone, obiettivo sicuramente ridotto perché c’è sempre chi non partecipa per non rischiare di trovarsi nel mezzo delle violenze. Questo “partito” non è solo. C’è il suo legale rappresentante in Parlamento, che è costituito da tutte le forze di sinistra, le quali se mai accadesse qualcosa di grave ad uno di quegli sfascisti, la morte per esempio, come accadde un po’ di anni fa a Genova, come minimo chiederebbero di intitolargli una piazza e di punire esemplarmente i responsabili della sua morte.
Non c’è niente da fare. Qualsiasi manifestazione è buona per questi mestieranti dello sfascio per dimostrare che loro ci sono, a prescindere dalle ragioni e dalle finalità. Una volta, chi organizzava la manifestazione, fosse partito politico o sindacato, si preoccupava di affidare al servizio d’ordine il compito di impedire che si infiltrassero guastatori. In genere questo era formato da persone accorte e robuste che mettevano niente a prendere qualcuno e a sbatterlo fuori senza complimenti. Allora tutto o quasi si svolgeva nell’ordine. La manifestazione si poteva dire riuscita se nessuno si faceva male. Dal ’68 non è stato più così. Il governo ribadisce che non impedirà mai lo svolgimento delle manifestazioni anche quando dovessero degenerare in aggressioni violente, come poi regolarmente accade. La democrazia prima di tutto. Lo ha confermato il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi, al termine della giornata pro Pal del 22 ultimo scorso.
Attenzione! Non siamo agli anni Sessanta e Settanta dell’altro secolo quando alle manifestazioni si andava con la P 38, con le catene e le spranghe di ferro, ma ci stiamo avvicinando. Per la Palestina è stata occupata a Roma la Facoltà di Lettere dell’Università, così a Bologna e in altre città. Altro sopruso, che passa con un rassegnato “ci sta”, come se occupare un luogo pubblico, impedendo ad altri di usufruirne, fosse lecito. A simile sfascismo è proibito reagire. Farlo significherebbe passare per fascisti e incappare nelle ganasce della giustizia costituzionale, che, come si sa, vieta di essere fascisti a salve e consente di essere fascisti a pallottole.
Dobbiamo, allora, rassegnarci ad essere in balia di questa gente? Dobbiamo assistere inermi al progressivo attacco allo Stato? Non consideriamo che le Forze dell’Ordine sono lo Stato e che se colpite si colpisce lo Stato? Quando nelle piazze trionfa la violenza degli antagonisti a danno della popolazione e di chi la difende è la democrazia che si arrende. Tanti buoni cittadini – e in Italia sono la stragrande maggioranza – devono assistere senza poter fare niente alla degenerazione della democrazia e preoccuparsi perfino della propria incolumità. Se si consente la manifestazione a simili sfascisti, si priva altri della possibilità di esercitare democraticamente i propri diritti. Sono considerazioni di estrema semplicità, che dovrebbero fare i responsabili della tenuta democratica di questo Paese.
Agli inizi del governo Meloni, tre anni fa, tra le tante contumelie dette dagli avversari c’era quella di fascismo, la più scontata; ma dopo tre anni nessuno è in grado di indicare un solo episodio di fascismo compiuto dalle forze governative. Per trovare qualche esempio gli avversari devono citare il busto di Mussolini di La Russa o la foto goliardica di qualche Fratello d’Italia vestito da nazista. I fascisti immaginati hanno dimostrato di sapersi comportare rispettando la Costituzione, mentre gli sfascisti veri alzano sempre il tiro e in nulla sono cambiati da quello che sono sempre stati: violenti e prevaricatori.
sabato 20 settembre 2025
La violenza nasce dal disprezzo e dall'odio
L’uccisione dell’influencer americano di estrema destra Charlie Kirk è stata occasione in Italia per risvegliare rancori non proprio sopiti. In questo ritorno si sono distinti personaggi importanti del mondo della politica e della cultura. La premier Giorgia Meloni, a cui, evidentemente, dovrebbe stare più a cuore l’unità del paese e la pace sociale, si è spinta ad accuse pesanti alla sinistra, che, con uomini come lo scrittore Saviano e il matematico Odifreddi, ha ravvivato lo scontro. Per fortuna finora si è rimasti allo sproposito delle parole. Il che dimostra che il Paese nella sua generalità è più saggio di chi lo rappresenta a livelli alti e altissimi.
C’è una ragione, però, che rende il clima sempre foriero di “disgrazie” ed è per un verso il rancore nutrito dalla destra per essere stata emarginata ed esclusa per mezzo secolo dalla partecipazione piena alla politica, e per un altro dal rancore nutrito dalla sinistra, che non è riuscita ad elaborare il lutto della sconfitta del 2022 e dell’ascesa al governo di una destra considerata la storica erede del Msi e perciò del neofascismo, sopravvissuto alla catastrofe del regime nel 1943 e alla liberazione dal fascismo nel 1945. Destra e sinistra hanno componenti di rancorosità che si ravvivano ogni volta che se ne presenta l’occasione, ossia sempre.
A destra per cinquant’anni, dal 1945 al 1994 (I governo Berlusconi col Msi al suo interno) i missini hanno vissuto una condizione che un raffinatissimo intellettuale come Piero Buscaroli definiva da sopravvissuti in territorio nemico. Essi, a parte la partecipazione alle elezioni e l’esigua rappresentanza politica ad ogni livello, erano esclusi da ogni effettiva partecipazione politica di governo e rischiavano lo scioglimento con l’accusa di aver rifondato il già disciolto partito fascista. Ci si era quasi convinti a destra di essere degli alieni, degli incapaci di amministrare la cosa pubblica, esclusi dai luoghi e dai fatti del potere che contano, in una sorta di apartheid. Era inconcepibile che si potesse fare una coalizione col Msi. I missini, a parte l’esperienza siciliana del milazzismo, erano nel panorama politico italiano una presenza-assenza, che per un verso completava la democrazia, per un altro la limitava alle forze cosiddette democratiche e antifasciste, di cui il Msi non faceva parte. I giovani missini non potevano avere nessuna speranza di poter diventare un giorno sindaci e assessori del proprio paese, mentre vedevano i loro coetanei che, per militare in altri partiti, raggiungevano qualsiasi meta, in politica e in carriera. Vivere per molti anni in condizioni “dimezzate” significa accumulare dentro tanto di quel rancore che all’occasione esplode in comportamenti anche violenti, se non fisicamente di certo moralmente. È quanto vediamo in alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, che rispondono con iattanza alle accuse e alle insolenze di quelli di sinistra, già rancorosi e avvelenati dall’aver visto assurgere al governo del Paese, delle regioni, delle città e dei comuni quelli che, secondo loro, non avrebbero mai potuto.
Questo brodo di rancori è così forte che i protagonisti neppure si accorgono della violenza che producono coi loro comportamenti. Ci sono reti televisive, a destra come a sinistra, che non fanno che propaganda politica a senso unico a guisa degli organi di partito di una volta. Va’ a far capire ad una Lilli Gruber di essere una propagandista antigovernativa! E lo stesso a Giovanni Flores e a Corrado Formigli! E questo vale per gli opposti Paolo Del Debbio e sodali di reti che sono megafoni dei partiti di maggioranza. Non diversamente i giornali cartacei, tutti regolarmente schierati e tutti regolarmente neganti di esserlo. La “violenza” che queste fonti producono contribuisce a tenere sempre teso il rapporto. I politici non sono da meno, parlano sempre per metafore offensive, vagamente spiritose, disprezzano l’avversario, cercano di ridicolizzarlo, offendono, a volte diffamano. I cittadini si indispettiscono, quelli di destra per i continui attacchi che ricevono da politici e giornalisti di sinistra; quelli di sinistra, di rimando, mal tollerano i politici di destra, considerati inadeguati e arroganti impostori.
L’aver evocato in Italia da parte della destra, dopo l’assassinio di Kirk, atmosfere da anni di piombo non è stato un esempio di prudenza, ma la reazione della sinistra con dei distinguo inaccettabili è stata la risposta che non doveva esserci. Uccidere una persona per le sue idee politiche o per i suoi compiti istituzionali è da condannare, punto e basta. Voler mettere in discussione un simile assioma è violenza, che genera a sua volta altra violenza.
sabato 13 settembre 2025
Astensionisti, arrendetevi e votate!
Quando sui giornali vedo qualche lettera al direttore mi soffermo sempre, perché la voce dei cittadini va sempre ascoltata, contiene un po’ di quel che ognuno di noi pensa. Tra le più frequenti vi sono le lettere che spiegano perché non è più il caso di andare a votare. Per lo più gli astensionisti insistono sul fatto che oggi gli uomini che ci devono rappresentare, non li scelgono gli elettori ma i segretari dei partiti. Perciò – concludono – è mancanza di rispetto sottoporre alla volontà degli elettori ciò che è stato già deciso altrove. Molti si dicono certi che se si ritornasse alle preferenze tornerebbero a votare e con entusiasmo, perché i cittadini, secondo loro, sanno scegliere meglio gli uomini a cui affidare l’esercizio delle cose pubbliche.
Gli astensionisti hanno ragione su un punto, hanno torto su molti altri. Hanno ragione quando dicono che è una presa in giro chiamare i cittadini a decidere ciò che è stato già deciso; è una messinscena che riduce la democrazia ad una sorta di liturgia, peraltro costosa. Hanno torto quando dicono che i cittadini sanno scegliere meglio delle segreterie di partito. Essi dimenticano che molti candidati, in modalità voto di preferenza, in passato compravano i voti, alimentando le mafie che in certe località del Sud gestiscono mano e mente di migliaia e migliaia di elettori. Gli astensionisti, in genere, sanno poco dei candidati, sanno quello che filtra dalla propaganda; i partiti, invece, conoscono vita, morte e miracoli dei loro rappresentanti. Alcuni candidati – è arcinoto – i voti li “comprano” anche oggi perché le elezioni restano pur sempre delle gare e il tentativo di barare in politica è sempre a portata di mano. Li chiamano voti di scambio: do ut des.
Ma c’è un punto che gli astensionisti dimostrano di non voler capire. Il voto è una grande conquista. È superfluo elencare tutti i sacrifici fatti nella storia per giungere a possedere questo strumento, che è così importante che il solo pensare di abolirlo crea sconcerto. Quelli che si astengono banalizzano il voto e senza rendersi conto delegano gli altri cittadini a rappresentarli nella scelta. Chi si tira fuori dal voto finirà sempre per essere rappresentato. A stabilire da chi non è il Padreterno ma altri uomini, normalissimi elettori; i quali se non fossero andati a votare, sia pure nella finzione liturgica, non avrebbero reso possibile elezione alcuna. Immaginate che arretratezza se ci fossero per legge persone con diritto di voto ed altre senza; sarebbe un precipitare di millenni indietro nella storia. Chi si astiene dal voto si priva da sé di un diritto, è un suicida politico.
Quanto al voto di preferenza, occorre ricordare che c’è anche oggi, sia pure limitato a taluni candidati ritenuti per collocazione nella lista tra i papabili. Va da sé che gli elettori si trovano di fronte ad una lista già redatta e approvata, non possono votare uno che non è incluso in essa. Gli elettori, che lamentano le liste già preparate e i candidati da eleggere già “eletti”, non tengono conto che in una democrazia ordinata è necessario proporre una lista di candidati chiusa, che non può esistere una competizione elettorale aperta a ogni cittadino, indipendentemente se incluso o meno nella lista. Non è il voto di preferenza l’alternativa all’attuale sistema ma la possibilità di scegliere un cittadino qualsiasi per la gestione della cosa pubblica. Il che non può accadere. Il voto è in primis scelta di partito o di lista e poi scelta di persone inserite nella lista.
Gli astensionisti, che in Italia raggiungono quasi il cinquanta per cento, si privano di un diritto senza avere in cambio nulla, senza nessuna contropartita; demandano ad altri di rappresentarli e si compiacciono della loro drittezza. A me non la fanno – dicono – io è da anni che non voto più. Ma il danno che producono al sistema è relativo, per cui non possono neppure compiacersi della loro scelta. Se nei sondaggi fosse possibile conoscere gli orientamenti politici anche degli astensionisti ci sarebbe da credere che non sarebbero diversi da quelli che si esprimono per chi votare. Chi non vota non danneggia una parte politica a favore di un’altra, in buona sostanza lascia tutto inalterato.
Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che astenersi non conta nulla e che il voto è l’essenza della democrazia. Chi si ostina ad astenersi dovrebbe convincersi che votare è sempre importante, perché significa partecipare a scelte che riguardano tutti, presenzialisti e astensionisti del voto. Essi, peraltro, sono responsabili di chi per età ancora non vota. È una questione di educazione civica, non di calcolo. Se pure l’incidenza fosse irrilevante si potrebbe sempre essere paghi di aver dato un contributo di civiltà. Che in democrazia, di questi tempi, non è poco.
domenica 7 settembre 2025
Ucraina, volenterosi e non
Volenteroso o volontaroso è chi è di buona volontà, diligente, desideroso. Dunque l’accezione è positiva, ma nello stesso tempo fa pensare a qualcosa di limitato, come a uno che vorrebbe ma non può perché non ha i mezzi. Ad uno studente bravo non si dice che è volenteroso, stante la bravura una condizione che va oltre la volontà e la comprende. In politica ha la stessa accezione. I volenterosi in genere conducono battaglie perse. Così in Italia furono detti quelli che volevano salvare il governo Conte dopo la crisi pandemica. Essi non avevano né le politiche né i numeri per farlo, avevano però la volontà. Il loro ragionamento era, prescindendo da tutto, trovare i voti sufficienti in Parlamento per approvare un Conte-ter. Come è noto, non riuscirono, perché in politica i volenterosi fanno pensare ai profeti disarmati di cui parlava Machiavelli, destinati a “rovinare”, cioè ad essere inevitabilmente sconfitti.
Con lo stesso termine, Volenterosi, sono oggi chiamati i capi di stato o di governo europei, che, rimasti orfani dell’America trumpiana, per difendere la causa ucraina ricorrono alla volontà, non bastando evidentemente i loro soldi e le loro armi. In genere chi può fa, chi non può è volenteroso; vorrebbe fare. L’idea dei volenterosi è venuta al francese Macron e all’inglese Starmer, estesa poi ad altri, Meloni compresa, in Europa e fuori nello schieramento occidentale come Canada e Australia. Il progetto consiste nel garantire all’Ucraina una serie di tutele, dal foraggiamento militare, all’applicazione dell’art. 5 della Nato nell’ipotesi che venisse nuovamente attaccata dopo la fine della guerra, all’invio di truppe anglo-francesi in territorio ucraino a garanzia degli accordi raggiunti. Si ipotizzano cioè situazioni che al momento sono ben lontane dall’essere. Putin, infatti, di cessare il fuoco non ne vuol sapere e il ripetuto invito a Zelensky di incontrarsi a Mosca ha tutta l’aria di ribadire che le cose si decidono nella casa madre e che l’Ucraina è in fondo la figlia ribelle da ricondurre all’obbedienza, da riportare a casa. Accogliere l’invito di Putin per Zelensky sarebbe come riconoscersi sottomesso ad una volontà superiore; e difatti ha già risposto picche. Di fatto il Presidente ucraino si muove come un membro dell’Europa e della Nato senza farne parte, né dell’una né dell’altra: un ospite di riguardo, ma anche di fastidio.
Intanto dall’altra parte del mondo si è ricompattato l’asse Russia-Cina con l’India e la Corea del Nord. Cosa curiosa e preoccupante è che anche la Turchia, che fa parte della Nato, era a Pechino per partecipare ai festeggiamenti per gli 80 anni dalla liberazione della Cina dai giapponesi. Lì, altro che volenterosi! Stanno cogliendo l’occasione della crisi dei rapporti dell’America trumpiana con l’Europa e la Nato per ostentare forza e per proporsi come padroni dei destini del mondo. Una situazione non incoraggiante per noi europei, che ci ritroviamo con una guerra alle porte e con la crisi delle vecchie alleanze, con zero prospettive che dipendano da noi.
Volenterosi noi europei lo siamo per condizione, non essendo capaci di incidere in qualche modo con chiarezza e risolutezza. Abbiamo una visione molto chiara della situazione ma non abbiamo i mezzi per gestirla. Sappiamo che con la Russia non possiamo cedere, perché è chiaro a tutti che essa ha in progetto di riportare tutti i territori una volta dell’Unione Sovietica sotto il dominio di Mosca. L’allargamento dell’Europa, fino comprendere alcuni stati che sono stati in passato nell’Unione Sovietica, ci obbliga ad intervenire direttamente ove uno o più di essi venissero attaccati. Cedere oggi con l’Ucraina significa aspettarsi altre aggressioni. L’Europa non può accettare che si cambi la sua carta geografica con la forza delle armi. Questo lo ha detto e ripetuto. Ma finché l’America non tornerà ad essere l’”America” che abbiamo sempre conosciuto, da più di un secolo a questa parte, siamo come immobilizzati, incapaci di affrontare il nemico russo in maniera decisa e sperabilmente risolutoria. Possiamo solo prendere qualche iniziativa ai margini del campo in cui si muovono le grandi potenze mondiali. L’iniziativa dei volenterosi, che oggi conta sulla disponibilità di ventisei paesi a sostegno dell’Ucraina, segna la strada da seguire ma esprime anche l’incertezza del modo più efficace per percorrerla. Fino ad oggi si è parlato di cose da fare nelle ipotesi di un cessate il fuoco che in questo momento è ancora lontano dal verificarsi. La guerra in Ucraina continua mentre i Volenterosi pensano al dopo e Putin non sembra avere né fretta né volontà di finirla.
sabato 30 agosto 2025
Trump, quel che non t'aspetti
Viviamo tempi incredibili, inimmaginabili, grotteschi. Chi mai poteva pensare che alla presidenza dello Stato più forte del mondo arrivasse uno come Donald Trump, perfino peggiorato rispetto al suo primo mandato? Abituati a pensare all’America come alla grande sorella dell’Europa, quella più fortunata e più potente della famiglia, garanzia di sicurezza e di ordine mondiali, che ci aveva tirati fuori per ben due volte dai nostri pasticci europei, non ci raccapezziamo in balia di un soggetto, il suo presidente, che parla e agisce come un boss creato dalla penna di Mario Puzo, come “Il padrino” di Franzis Ford Coppola. Le sue prime dichiarazioni furono su eventuali annessioni di Groenlandia, Canada e Canale di Panama, facendo un po’ irritare e un po’ ridere il mondo. Ma è bastato poco perché tutti nel mondo ne accettassero le mattane e tutti stessero al gioco. È pur il Presidente degli Stati Uniti d’America!
L’assurdo è diventato normale. L’incontro dei sette europei alla Casa Bianca il 18 di agosto aveva tutta l’aria di una sceneggiata di nessuna credibilità, perfino offensiva per certi aspetti. I sette sembravano rendersene conto e tuttavia come tanti scolaretti si compiacevano di ricevere il giudizio positivo dal maestro in cattedra dopo aver ciascuno recitato la sua particina. E lui, il maestro, a dispensare pagelline a tutti, perfino al francese Macron che ogni tanto maltratta con apprezzamenti a dir poco disdicevoli.
Ma non erano lì gli europei per sapere che cosa il Presidente americano si era detto con Putin in Alaska qualche giorno prima? Non si doveva parlare di una sorta di road map per arrivare alla pace?
Non doveva essere l’inizio di un cessate il fuoco? Niente di tutto questo. L’incontro in Alaska si è rivelato una presa in giro senza precedenti. Che cosa si siano veramente detti i due leader mondiali per tre ore non lo sapremo mai. Dalle dichiarazioni seguite si poteva ritenere cosa fatta un incontro bilaterale Zelensky-Putin, cui sarebbe seguito breviter un trilaterale. Si trattava di stabilire la sede e il giorno. Circolavano ipotesi: Roma, Vaticano, Istanbul, Ginevra. Non c’è stato niente di tutto questo, anzi a quanto ha poi riferito il ministro degli esteri russo Lavrov in Alaska non si era parlato affatto del bilaterale “fantasma” tra Zelensky e Putin. La verità è che Putin non vuole vedere Zelensky né oggi né mai. Non lo riconosce come suo interlocutore. Finché l’ucraino resta in carica la guerra continuerà sempre più intensa. Putin mira alla sua liquidazione e solo quando non ci sarà più e al suo posto ci sarà uno a lui gradito allora sarà disposto a mettere fine alla guerra.
La beffa è che Trump in Alaska, a quanto si può dedurre, più che prendere le parti dell’ucraino, in sintonia con tutto l’Occidente, ha rassicurato Putin sulla sua amicizia, come se fosse il russo la vittima. Le strette di mano tra i due, seguite da rassicuranti gesti di amicizia, con la mano sinistra di Trump a poggiarsi più volte sulle mani strette a rinsaldarle, dimostravano una scelta di fedeltà, quasi di protezione. Come a dire: coraggio, ci penso io. Un rovesciamento delle parti che avrebbe del ridicolo se non fosse tragedia piena. Trump, infatti, ha ripreso ad insultare Zelensky perché si rifiuta di cedere alle pretese di Putin senza se e senza ma. È irritato con l’ucraino perché la sua tenacia a difendere il suo paese rischia di rovinargli i buoni rapporti con Putin. Dice che lui non sta né con una parte né con l’altra, ma di fatto ammicca a Putin. Minaccia di non dare più soldi né armi all’Ucraina. Nei confronti dell’Europa e della Nato non fa che prendere le distanze. Mai visto un uomo politico di tale importanza comportarsi in maniera contraddittoria, capricciosa, del tutto fuori dai più consolidati canoni della politica e della diplomazia.
L’uomo che doveva riportare la pace in Ucraina in ventiquattr’ore dà in escandescenze al solo pensiero di dover rinunciare al suo messianismo. La sua inadeguatezza diventa ogni giorno di più intollerabile. La vicenda dei dazi, che pure poteva avere una sua ragion d’essere, nella sua gestione è diventata occasione per esercitare un autentico bullismo nei confronti di amici e alleati storici, da lui considerati parassiti e imbroglioni. Essi per ora hanno scelto in parte di assecondarlo e in parte di ignorarlo, scegliendo l’attesa che noi italiani conosciamo molto bene: ‘a da passà ‘a nuttata. Bisogna vedere quali danni avrà prodotto la politica di questo energumeno al termine del suo mandato facendo scongiuri che non venga riproposto un’altra volta. Sarebbe per l’Europa e il mondo una iattura.
domenica 24 agosto 2025
Pippo Baudo, un uomo per sempre
Pippo Baudo non ha mai servito tanto la sterminata gente che gli era affezionata come nella circostanza della sua morte, con quel che ne è seguito. Per il pubblico era già “morto” prima che morisse davvero, nel senso che di lui non si parlava da tempo, negletto nella sua discreta sofferta vecchiaia. Sic transit…anche per lui. Ma la sorpresa è stata grande lo stesso. È come se all’improvviso fosse resuscitato per ricordare al suo pubblico che mancava ancora l’ultimo atto della sua commedia umana, i giorni in cui sarebbe stato ancor più vivo. La sua pasqua, una sorta di festival, per stare al lessico consueto del Pippo nazionale.
Generosissimo, ha “scelto” di morire in piena estate per fornire alla sua Rai, stagionalmente in crisi di contenuti, materiale per riempire gli spazi altrimenti ripetitivi e noiosi dei Teche Teche Te’. Per annunciare la sua morte si sospese la trasmissione “Evviva” condotta da Gianni Morandi su RaiUno, un incontro del tutto fortuito, ma come fatale. Fosse morto a dicembre, se ne sarebbe parlato per un paio di giorni al massimo e in spazi assai più limitati. Che più dalla sua fedeltà alla televisione di Stato, a cui era debitore e creditore insieme?
La televisione per questo lo ha deificato. Tutta la sua corte – cantanti attori comici coreografi ballerini presentatori conduttori musicisti autori giornalisti – ha sprecato elogi e definizioni come mai si era sentito in Italia per un uomo, che ha avuto il grande pregio di interpretare la più corretta e inappuntabile italica medietà. Il Vescovo di Caltagirone nella sua omelia ha detto che ora è “una stella che brilla nel cielo”. Altri hanno sprecato attributi per glorificarlo, giungendo a dire che con la sua morte finiva una fase importante della storia d’Italia. Altri hanno insistito sul re del sabato sera. Qualcuno ha proposto che gli venisse intitolato il Teatro delle Vittorie. Fiorello, che evidentemente non sa più distinguere la realtà dalla sua rappresentazione, ha proposto di sostituire il cavallo dello scultore Messina, simbolo della Rai, con una statua di Pippo. È mancato solo che qualcuno suggerisse il Pantheon per la sua tumulazione. In fondo un re, lo è stato. Si è detto anche che per anni è stato lui il vero segretario nazionale della Democrazia cristiana. Iperboli, che fanno perdere il senso del reale, pur importante; la sua vera dimensione.
Pippo Baudo non può uscire dalla sua collocazione di uomo di spettacolo e di costume. Quello era. In quell’ambito è stato insuperabile. Neppure i suoi colleghi storici, coi quali pure viene proposto in foto iconiche, Mike Bongiorno, Corrado ed Enzo Tortora, possono reggere il confronto. Pippo Baudo è stato di più, è andato oltre, ma mai allontanandosi da quel che forse lui stesso perseguiva, la medietas, l’uomo del giusto mezzo, l’interprete dell’italiano tipo. Il suo eloquio era di una semplicità e scorrevolezza uniche, mai una sbavatura, né in senso colto né in caduta di stile. Mai una citazione, ma mai un lapsus, un errore. Una grande prontezza di fronte all’imprevisto ne caratterizzava la capacità di andare oltre l’incidente, come dimostrano i casi di contestazione nel corso di alcuni suoi Sanremo; li superava e andava oltre, all’insegna dello spettacolo che deve continuare. La sua disinvoltura nel superare le situazioni più diverse e imbarazzanti resta insuperabile, dal bacio con l’attrice americana Sharon Stone a quello con la nostra Luciana Littizzetto, alle volgarità di Fiorello e Benigni. Lui se ne usciva sempre più personaggio. Ma anche l’esagerazione, se vogliamo, è appropriata alla circostanza.
Personaggio nazional-popolare, non poteva sottrarsi a quel gusto tipicamente popolare per le iperboli che lo hanno avvolto in occasione della morte. La televisione di Pippo Baudo era fatta per quel particolare tipo di popolo che non si allontana dalla consapevolezza identitaria e si riconosce anche con fierezza nella nazione, nelle sue tradizioni, perfino nei più frusti luoghi comuni che la accompagnano da sempre. Per questo faceva storcere il naso ai colti, agli intellettuali, adusi a raffinatezze ideologiche e dotte. Il suo non era un livello raggiunto, iniziando dal basso; né un curvarsi in avanti per adeguarsi, ma la spontanea posizione di chi non è che se stesso nella sua immediatezza. Aveva fiuto nello scoprire talenti. E aveva ragione a dire “questo l’ho scoperto io”, riferendosi ai tanti uomini e donne di spettacolo da lui lanciati e fatti affermare, ma ancor più ragione avrebbe avuto di dire: eccomi, io sono quello che si è scoperto da sé. Neppure Padre Pio, da lui interpellato, ci aveva creduto.
sabato 23 agosto 2025
Ucraina, soluzione sempre più lontana
Da una parte la Russia, che dell’Ucraina vuole perfino l’anima (lingua e religione), dall’altra l’Ucraina che alla Russia non vuole cedere neppure le frange territoriali che in genere ai confini sono sempre contese. In mezzo il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, che non capisce niente né di Ucraina né di Russia, che non conosce neppure la storia dell’Europa e definisce «stupida» la guerra tra i due paesi. L’Europa, che dovrebbe occupare una posizione centrale, è di lato e parla quando è …interrogata. A sottolineare quanto conti poco in questa crisi.
Per certi aspetti Trump ricorda un altro Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, che, alla fine della Grande Guerra, 1918, s’illuse, dettando i famosi 14 punti, di risolvere le varie controversie tra gli stati, con l’autodeterminazione dei popoli, in base alla quale tutte le città e le regioni contese dovevano decidere liberamente da sé con chi stare. Così venivano a cadere molti dei motivi della guerra. Neppure Wilson, nell’occasione, dimostrò di capire l’anima degli europei.
La guerra russo-ucraina non può essere staccata da un disegno che è nella testa di Putin e che molto probabilmente consiste nel “recuperare” alla Russia tutti i paesi che avevano fatto parte dell’Urss e della cintura dell’Europa orientale, dalle repubbliche baltiche alla Romania, attraverso la Polonia, l’ex Cecoslovacchia e l’Ungheria, i paesi cioè del Patto di Varsavia. Pensare, come pensa Trump, che la guerra è scoppiata per futili motivi per imperizia del suo predecessore Biden, significa non volersi neppure sforzare di capire. Ci fossi stato io alla presidenza americana la guerra non avrebbe avuto mai inizio, ha ripetuto più volte Trump, volendo dare l’impressione di essere convinto di quel che diceva. Le cose, evidentemente, non stanno come pensa lui. La Russia si annesse la Crimea nel 2014. Si capì allora che non si trattava solo di Crimea, per la quale Putin poteva tirar fuori ragioni perfino plausibili, ma di un disegno più ampio. Si è detto più volte che alla base dell’aggressione russa all’Ucraina c’era la sua sempre più stretta vicinanza con l’Europa e la Nato. Troppo si era avvicinata la Nato alle porte della Russia. Ma che cosa poteva fare l’Ucraina, privata della Crimea e minacciata dalla Russia, se non contare sull’Europa e la Nato? Il carattere difensivo dell’Ucraina appariva chiaro, era un cercar di scoraggiare la Russia da successive aggressioni. Cosa, questa, che purtroppo non è accaduta. Putin ha trasformato il carattere difensivo dell’Ucraina in carattere offensivo, quasi una minaccia alla sicurezza della Russia stessa. Un pretesto, che ha trovato credito anche in Europa. Troppo la Nato si era avvicinata ad abbaiare alle porte della Russia, disse Papa Francesco, con quel suo linguaggio semplice ma fortemente evocativo.
L’Europa emarginata tuttavia non demorde dalle sue posizioni. Il principio è inviolabile: non si cambiano i confini degli stati con le guerre. La Russia deve lasciare i territori dell’Ucraina e convincersi di poter avere solo rapporti di buon vicinato. Nessuno la minaccia. È ridicolo pensare che i paesi europei dell’ovest e dell’est abbiano in mente di aggredire la Russia. Non si vedono i motivi, gli interessi. Una simile preoccupazione è senza fondamento. La Russia deve convincersi che la storia si è lasciato indietro un tempo non replicabile neppure per parodia.
L’incontro in Alaska del 15 agosto fra Trump e Putin ha mostrato, al di là di ciò che veramente è stato detto nelle tre ore di colloquio, che dal punto di vista politico c’era da una parte un Putin che appariva perfino beffardo nella sua sicurezza di politico navigato e dall’altra un Trump che dava l’impressione di non avere ancora capito qual era la posta in palio della partita.
La guerra in Ucraina ha difatto innescato tutti i casi bellici successivi, compresi Iran e Israele, e potrebbe aprire a nuovi sconvolgimenti. Che cosa in verità si siano detti Putin e Trump in Alaska lo sanno solamente loro; ma non si è molto lontani dal pensare alle pretese americane sulla Groenlandia e sul canale di Panama. Tutto può accadere quando si dà il via ad un processo di illegalità, quel che segue è imprevedibile.
L’incontro alla Casa Bianca del 18 luglio tra Trump, Zelenski e alcuni leader europei, tra i quali Giorgia Meloni, con la telefonata di Trump a Putin, ha spettacolarizzato la situazione ma non offerto nessun concreto spunto per giungere ad una soluzione. Da una parte c’è chi continua a volere tutto, dall’altra chi continua a non voler cedere nulla; da una parte chi si rifiuta perfino di sospendere il fuoco, dall’altra non ben precisati garanti dell’Ucraina. Non c’è che attendere.
sabato 16 agosto 2025
Con la morte sul collo
È proprio vero, la morte ciascuno di noi ce l’ha sul collo; e quando meno ce l’aspettiamo ecco che ci rovina addosso con tutta la sua fatalità. Una povera cristiana scende dal tram per avviarsi verso casa e viene travolta e uccisa da un’auto a bordo della quale ci sono quattro ragazzini. Il più grande, che la guida, ha tredici anni e ha la prontezza di dire che non gli sono funzionati i freni. Sono tutti dei rom al di sotto dei quattordici anni, per la legge italiana non sono imputabili. Dunque, per quella povera cristiana è come se gli fosse caduto addosso la scheggia di un meteorite.
Loro, i ragazzini, non sono imputabili! E i loro genitori? Le loro famiglie? Le autorità cittadine che comunque nulla hanno fatto nei tempi precedenti per evitare la tragedia, ritenendo presumibile che questa gente era lì accampata da tempo? Niente, i ragazzini non sono imputabili e buonanotte al secchio. Ci sono solo dei piccoli adempimenti da fare per il loro affidamento a qualche struttura. Poi, più niente. Quando la società si dimostra così impotente vuol dire che si è in presenza di un dissesto ideologico grave. Se ne prende atto e basta. Ma è proprio così?
Il Ministro Salvini si è permesso di sollevare la questione rom ed è stato subito zittito dal sindaco della città, che nei confronti di questa gente evidentemente ha un rapporto di buona vicinanza, direi di generosa tolleranza. Il problema, che tale non è per tutti, si pone ogni volta che accade una disgrazia, un incidente, una questione. Si parla per qualche giorno, poi si tace fino a nuova disgrazia. Come se tutto fosse fatale, inevitabile. A chi càpita, càpita. Un disgraziato, più disgraziato di altri c’è sempre.
Ma è di tutta evidenza che se nulla si poteva fare nell’immediato per evitare la disgrazia di quella donna, tanto, tantissimo si sarebbe potuto fare prima. Quei quattro ragazzini, le loro mamme, i loro papà non dovevano stare lì ad abitare sub divo come animali in un bosco. E infatti che fanno quei ragazzini, lasciati liberi di muoversi a piacimento? Quello che gli càpita. Rubano una macchina. Mica il borsello lasciato incustodito da una signora distratta! La mettono in moto e iniziano a scorrazzare per la città fino a quando non perdono il controllo del mezzo e…si salvi chi può! Perché, se è vero che i ragazzini non sono imputabili, l’età per capire come si ruba una macchina, si mette in moto e via, altro che se lo sanno! La delinquenza minorile ormai è da anni che ha abbassato la soglia. Sempre più ragazzini aggrediscono persone anziane e indifese nei parchi pubblici, per strada; si affrontano in bande, compiono gesta vandaliche ai danni di cose pubbliche e private. Fanno quello che prima facevano i ragazzi di quindici e sedici anni. Ma la soglia dell’imputabilità è rimasta sempre quella dei quattordici anni. Segno di umanità e di civiltà giuridica. Se no, che altro?
Qualche anno fa sempre il Ministro Salvini si fece riprendere a bordo di una pala meccanica mentre smuoveva tende e accampamenti rom. A che cosa è servito se non a fare propaganda elettorale? Dove amministra la destra accadono esattamente le stesse cose di dove amministra la sinistra. Le leggi son…come diceva Dante. Non è questione di destra o di sinistra, ma di “italianità”, di modo di intendere i problemi e di non risolverli. Spesso mi chiedo come mai in una qualsiasi località della Svizzera, dove mi è capitato di vivere per qualche anno, cose del genere non potrebbero mai accadere. Lì, in Svizzera, se ti fermi con un camper per più di un quarto d’ora in un punto qualsiasi del territorio sei raggiunto dalla polizia, che controlla e prende i provvedimenti del caso. Campi nomadi, raggruppamenti rom in quel paese fuori controllo non se ne potrebbero mai verificare. Gruppi di ragazzini che sciamano per strada, nemmeno a immaginarseli! Perché in Italia non è possibile quel che è possibilissimo in Svizzera? Sono forse gli svizzeri degli odiosi disumani? Amano vivere nella dittatura più ferrea? No, semplicemente in ogni cittadino svizzero c’è un poliziotto che interviene puntualmente all’interno e all’esterno di sé perché la legge non venga infranta, disattesa, ignorata. In Svizzera il cittadino ha sempre la mano destra pronta a colpire la mano sinistra se questa non dovesse comportarsi a modo. Altro che non sappia la mano destra quel che fa la sinistra!
In Italia siamo nelle mani di Dio con quel che significa l’espressione, ovvero del caso, della fortuna. L’episodio triste di quella povera cristiana, morta senza sapere perché, fa riflettere sulla impossibilità, tutta italiana, di coniugare l’ordine con la libertà.
sabato 9 agosto 2025
Più amor di patria, via!
Presto i nostri bambini vedranno nei teatrini dei parchi pubblici giudici e politici che si randellano a vicenda come paladini e saraceni. Sono diventati maschere fisse dello spettacolo pubblico. Colpa bipartisan. In Italia la giustizia fa sempre politica: le cose sono come le percepisci. Il caso Almasri torna impetuoso alla ribalta. Con le solite ricadute giustizialpolitiche. Da una parte i giudici, che fanno finta di non sapere che coi loro atti la politica la fanno, eccome!, dall’altra i politici, che trovano nelle loro riforme sgradite ai giudici la ragione dei loro attacchi.
La vicenda del generale libico, che se ne andava in giro per l’Europa ad assistere alle partite di calcio delle squadre più rinomate, è nota. Dall’Italia all’Inghilterra, dall’Inghilterra al Belgio, dal Belgio in Germania, dalla Germania in Italia; più volte fermato e rilasciato. Ma quando fu in Italia, la Corte Penale Internazionale dell’Aja emise contro di lui un mandato di cattura per reati gravissimi. Non prima, si badi bene, ma in Italia, a Torino! Il ricercato, che ha il suo spazio di operatività sulle coste libiche coi migranti, è un pericoloso soggetto, con un suo personale seguito. Lo vedemmo appena sceso dall’aereo che lo aveva riportato in Libia essere accolto con giubilo dai suoi fedeli. Conveniva impacchettarlo e portarlo via, nella sua terra, a prescindere se ci fossero o meno dei ricatti libici. Consegnarlo all’Aja significava esporre i nostri connazionali che si trovano in Libia per lavoro a gravi ritorsioni. C’è poco da fare con questa gente. Opera fuori da ogni legalità. Lo sanno i giudici italiani. Lo sanno i politici italiani dell’opposizione, che chissà cosa avrebbero pagato per vedere il governo italiano ricattato da bande di delinquenti libici sequestratori di nostri connazionali! Sia chiaro! È cosa vecchia da noi, pur di mettere in difficoltà l’avversario non ci si fa scrupolo di niente, figurarsi della …patria.
Fece bene il governo italiano a riportarlo in Libia senza tanti indugi? A ragionare col buon senso, sì: non poteva fare altro. Ma, a cavillare in termini giuridici e a speculare in termini politici, no: andava consegnato ai giudici della Corte Penale Internazionale. Poi per il nostro governo sarebbero state cose amare. E questo avrebbe fatto brindare al successo giudici e politici di opposizione. Il cinismo regna in politica in ogni riposto. È inutile essere ipocriti e negarlo.
C’è del marcio nell’affare Almasri, comunque lo si voglia vedere. Primo, perché la Corte Penale dell’Aja non emise prima il mandato di cattura? Secondo, perché più volte fermato in Inghilterra e sul continente, Almasri non fu trattenuto in attesa delle disposizioni della Corte Penale? È di tutta evidenza che il caso ebbe un inizio e un percorso peggio che dire alla buona. Ognuno cercò di liberarsi del soggetto come di qualcosa di tossico. E doveva essere proprio l’Italia a consegnare alla Corte Penale il ricercato per una caterva di reati, uno peggio dell’altro? Già, ci doveva essere un fesso col cerino in mano.
Ora, bene ha fatto la Meloni ad assumersi le responsabilità di quanto operato dai suoi ministri nel caso Almasri, un’occasione d’oro per infliggere al “Conte qualsiasi” un colpo di quelli che lasciano tramortiti e a tutta la compagnia cantante. Finirà che il Parlamento rifiuterà l’autorizzazione a procedere contro i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano e le opposizioni probabilmente ricorreranno alla Corte Penale per denunciare il comportamento del governo.
Ma qui ci si dimentica della gente, che è poi ciò che conta di più, nei sondaggi e nei voti. Che cosa pensa della vicenda? Sta col governo o coi giudici; col governo o coi suoi oppositori? La gente ha capito perfettamente la posta in gioco, anche perché nessuno la nasconde. La gente sta dalla parte di chi ha agito per il bene degli italiani. Se avessimo consegnato il generale libico alla Corte Penale dell’Aja avremmo avuto sicuramente dei problemi piuttosto importanti coi libici; avremmo esposto i nostri concittadini a rappresaglie e ritorsioni. In passato i nostri governi non si sono comportati diversamente. Se pure, perciò, l’intera operazione lascia non pochi punti oscuri è evidente che il governo ha agito per evitare il peggio. E chi può condannare chi agisce in siffatta maniera? I sofisti che spaccano il capello in quattro e i politici interessati a creare problemi al governo sicuramente non la finiranno qui. Gli altri, la gente comune, pragmatica e lieta di aver evitato una situazione complicata per il proprio Paese, penseranno che il governo abbia fatto bene. Probabilmente non è la cosa più bella, intendiamoci, ma è sicuramente la più utile e la più capibile dagli italiani.
sabato 2 agosto 2025
Ma governare si può in questo paese?
Ancora una volta dei giudici, questa volta della Corte di Giustizia Europea, sono intervenuti per dire che è legittimo che sia un giudice a stabilire se un Paese è sicuro o meno. Per loro è sicuro quel Paese in cui non ci sono guerre, in cui nessuno corre il rischio di subire discriminazione e persecuzione. Stando così le cose e conoscendo quanto accade nel mondo, nessun Paese è sicuro “in assoluto”, compresi gli Stati Uniti d’America, compresa l’Italia. In ogni parte del mondo si può dimostrare che ci sono dei perseguitati, che esistono condizioni di pericolo. Sicché quanti ne vengono vengono in Italia di migranti, fossero pure milioni, dovrebbero essere ben accolti perché provenienti da paesi “insicuri”. E a dirlo non è il Governo, a cui spetta il dovere di assumersi ogni responsabilità dell’azione politica ma il primo giudice che si alza la mattina e pontifica su quel che quel giorno più gli aggrada. Sicché, mentre il governo è responsabile di quel che accade nel nostro Paese, a decidere se una cosa si deve o non si deve fare, sono altri, in questo caso i giudici. I quali, forti dell’obbligarietà dell’azione penale, possono intervenire dove vogliono o ritengono opportuno.
Alla pronuncia della Corte Europea ha gioito anche l’arcivescovo Gian Carlo Perego, presidente della Commissione Cei per i migranti, il quale è andato oltre con affermazioni indegne di un prelato. A suo dire il governo italiano in maniera subdola mette in essere degli atti illegittimi nei confronti di migranti ritenuti non in regola, in riferimento al Cpr di Albania. L’alto rappresentante della Chiesa è del parere che qualunque migrante, per il fatto di essere un migrante, viene da un paese in cui non si sente al sicuro.
Altrettanto forte è giunta la replica del Governo. La Presidente Meloni ha risposto a muso duro sia alla Corte di Giustizia, accusata di competenze indebite, sia all’arcivescovo Perego. Anche i leader della maggioranza governativa, Salvini e Tajani, hanno risposto con determinazione, ribadendo che il Governo continuerà ad andare avanti con le sue politiche per combattere i trafficanti di esseri umani e per difendere i confini italiani.
Quel che ancora una volta emerge da questo intrecciarsi di competenze è che ormai non si può più governare. Qualsiasi atto, a giusta o ingiusta ragione, capziosamente o razionalmente, viene impugnato dalle opposizioni politiche, dalla magistratura, dalla Chiesa, dai sindacati, dagli oppositori di strada, pur di impedire al Governo di governare. Viene di ricordare quanto disse Mussolini negli ultimi tempi della Repubblica di Salò: in Italia non è né facile né difficile governare, è inutile. Ma forse lui pensava ancora da dittatore, avendo potuto governare per vent’anni. Oggi governare è semplicemente impossibile. Hai a che fare con una caterva di nemici, i quali se pure è legittimo che ti combattano, non è accettabile che per farlo vadano contro gli interessi del comune Paese di appartenenza. Vedi con quanta iattanza e soddisfazione i vari Schlein, Conte, Renzi e compagni parlano del miliardo di euro speso dal governo italiano per costruire il Cpr in Albania, pur fingendo di dolersene; sarebbero doppiamente “contenti” se i miliardi spesi fossero stati due. È la democrazia, bellezza!
È pur vero che molto spesso a legarsi le mani sono gli stessi governanti, i quali aderiscono ad astratte iniziative internazionali, senza considerare tutte le conseguenze. Vedi la Corte Penale Internazionale dell’Aja che ha condannato alcuni uomini politici, come Putin e Netanyahu, sui quali pesa un mandato di cattura internazionale. Sicché se oggi si decidesse di fare in Italia un incontro per la pace tra Russia e Ucraina non sarebbbe possibile per l’obbligo che scatterebbe di arrestare Putin. Un inghippo del genere è già successo con il Generale libico Almasri, che condannato dall’Aja e arrestato a Torino, invece di essere consegnato alla Corte Penale dell’Aja per i dovuti provvedimenti, fu messo su un aereo di Stato e riportato in Libia. Un chiaro atto eversivo, che si spiega con la ragion di Stato, ovvero per evitare che, consegnando Almasri all’Aja, ci fossero ritorsioni nei confronti dei nostri connazionali che lavorano in Libia. Purtroppo con molta leggerezza i politici si legano le mani da sé con lacci e lacciuoli, che poi devono o spezzare, contravvenendo alle convenzioni, o rispettare rimanendo fermi nell’inazione. Politici più lungimiranti, proprio per non crearsi problemi, non aderiscono a simili istituzioni internazionali, che sono buone e nobili nelle intenzioni ma complicate nella fattualità.
sabato 26 luglio 2025
Tra genitori e figli ormai c'è il vuoto
Le trasformazioni sociali sono processi lunghi e lenti, all’inizio non fanno mai pensare agli sviluppi più estremi. Oggi noi viviamo le fasi avanzate di un processo che vede lo stravolgimento dell’istituto più antico, millenario, quello della famiglia. È crisi dell’insieme e dei singoli membri.
Oggi i giovani, in età genitoriale, non vogliono fare figli, si rifiutano di essere padri. Per un altro verso i giovani, nella loro condizione di figli, dei genitori e della famiglia non ne vogliono sapere. Giunti all’età di essere indipendenti se ne vanno, prendono strade che li portano lontano. Insomma genitori e figli non sono più gli uni continuatori degli altri; non vogliono far parte della stessa catena. I primi non creando figli, i secondi, quando ci sono, allontanandosi dai genitori. Si vedono gli effetti: calo delle nascite per un verso, fuga dei giovani per un altro. La conseguenza è lo spopolamento. Questo lo registrano anche fonti istituzionali come l’Istat.
Il fenomeno è fondamentalmente del Sud, categoria geo-antropologica “dannata”. Ma se è vero che non è facile realizzarsi nel Sud, ci sono anche casi comodi e scontati, che vengono rifiutati. Ci sono famiglie che hanno raggiunto un grado di benessere importante, con attività commerciali e industriali ben avviate, create e condotte con spirito weberiano, che, data la strada diversa intrapresa dai figli, sono costrette a chiudere o a vendere. Molti posti di lavoro si perdono così. Molti antichi mestieri spariscono così.
Si dice che è normale che uno cerchi condizioni di vita migliori. La migrazione lo dimostra, ad ogni livello. Ma spesso i tanti giovani che se ne vanno e lasciano la famiglia non raggiungono che risultati modesti, inferiori che se fossero rimasti a casa. L’agognato stipendio mensile, facendo l’impiegato, è niente rispetto a quello che l’azienda di famiglia avrebbe potuto garantire loro. Questo sta a dimostrare che non è neppure questione di convenienza, ma di rifiuto culturale. I giovani che se ne vanno lo fanno perché non vogliono fastidi dai genitori che invecchiano. I genitori che non vogliono figli in realtà non vogliono fastidi per crescerli e portarli fino all’età dell’indipendenza dalla famiglia per poi vederseli sparire sul più bello. Il problema che si sta delineando è ben più grave dei soliti banali conflitti generazionali di sempre. Qui, alla base, da una parte e dall’altra, c’è un rifiuto radicale. Di fronte a quanto mostrano oggi i figli, insensibili e irriconoscenti nei confronti della famiglia, i giovani sposi si guardano bene dal mettere al mondo figli ingrati, che proprio quando c’è più bisogno di loro non ci sono, sono altrove, a condurre una vita magari peggiore che se fossero rimasti “a casa”. Sono le conseguenze della frantumazione famigliare. La famiglia non c’è più, sparita e con essa l’etica famigliare, le consuetudini, le tradizioni, i ruoli, la casa. L’ambita casa! La sacra casa! A tanto si è giunti per il progressivo smantellamento di una cultura millenaria follemente aggredita dal modernismo degli anni Sessanta e Settanta. L’ultimo bombardamento la famiglia l’ha ricevuto con l’attacco al patriarcato. Improvvisamente è stato tirato fuori quest’altro pilastro per colpirlo furiosamente in quanto base del tradizionale impianto famigliare.
S’incominciò con le coppie di fatto: giovani che hanno preferito mettersi insieme piuttosto che sposarsi regolarmente. Il marito di una volta è diventato il compagno. Lo Stato ha fatto la sua parte legalizzando i mutamenti provenienti dalla società. Un dato costante di queste unioni è la mancanza di figli. Un altro fenomeno che ha intaccato la famiglia è stato la facilitazione del divorzio, che ha interessato un numero sempre crescente di giovani, i cui matrimoni durano a volte pochissimo. Non sembra esserci rimedio. Un’alternativa alla famiglia tradizionale che garantiva una continuità senza soluzione è la cosiddetta famiglia “queer” (la parola significa diverso ma anche ridicolo), così come delineata dalla scrittrice sarda Michela Murgia, una famiglia basata non sui ruoli derivanti dal matrimonio ma sulla spontanea cura. Non più ruoli ma assistenza reciproca. Va da sé che di figli, in un disordine simile, nessuno si sogna di farne; è una “famiglia” dove nessuno ha un ruolo specifico, ma ognuno è “tutto” per l’altro. Per trovare qualcosa di simile nella storia bisogna andare al medioevo, quando singole persone si riunivano in comunità e chiedevano al papa la concessione della regola. Erano i frati, dai quali sono nati gli ordini religiosi. Un nuovo monachesimo ci attende, per di più senza “regola”.
sabato 19 luglio 2025
I mille giorni di Giorgia
In questa metà di luglio, giorno più giorno meno, Giorgia Meloni “celebra” i suoi mille giorni di governo. Spesso noi uomini ci inventiamo le datazioni un po’ per comodità di storici e un po’ per vanità di politici. All’evento la Presidente del Consiglio ha dedicato un’intervista su RaiUno il 17 luglio. Ha detto delle cose ovvie ma non inutili, ha ricordato i punti salienti della sua opera di governo. Fra tutti ha sottolineato il calo di sbarchi di migranti sulle nostre coste, la creazione di un milione di posti di lavoro e l’avvio di numerose riforme, fra cui il premierato e la giustizia. Altri della sua area hanno voluto ricordare un aspetto importante del suo ormai quasi triennio di governo: l’assoluta normalità. Chi temeva derive autoritarie o colpi si stato, manifestazioni di intolleranza e approcci duceschi ha dovuto una volta tanto tacere. Si spera che il silenzio diventi esso stesso normalità, mi riferisco al silenzio su immaginati e temuti slittamenti autoritari. Sarebbe un bel traguardo in questo paese in cui in occasione, l’anno scorso, del ricordo di Matteotti, c’era chi si avventurava in paragoni con la realtà odierna assolutamente capotici per non dire altro. Certo, c’è da capire. Quello della paura del fascismo è una bella carta da giocare nell’eterna partita della propaganda elettorale. Perderla, quella carta, s’impoverisce il mazzo e si è costretti a trovare nell’abilità del gioco le risorse per vincere le partite. Se si finisse di barare, sarebbe una crescita per tutti.
Non sono mancati, tuttavia, nel corso di questi mille giorni, tentativi di curvare verso interventi autoritari taluni scontri di manifestanti delle sinistre con le forze dell’ordine. Sono venuti fuori casi di scoperte di eventi privati in cui qualcuno si esibiva in saluti fascisti per sostenere che “questi”, i fu missini, non cambiano mai, sono sempre gli stessi maledetti fascisti che dicono di non avere niente a che fare col fascismo politico. Perfino per il Decreto sicurezza, di recente approvato, si è cercato di scomodare prospettive liberticide, cui non sono stati estranei taluni magistrati.
Quel che è stato dirimente nella messa da parte di ogni seria insistenza sul fascismo è stato il grande successo della Meloni in tutto il mondo. Già all’inizio del suo governo si capì che era sbagliato insistere su questo tipo di critica perché era come dire al mondo che l’Italia era un paese fascista. Man mano che la Meloni veniva accolta in tutto il mondo da capi di stato e di governo con simpatia e rispetto sarebbe stato suicidario insistere su dei tasti assolutamenti sconnessi dalla realtà. In un mondo dilaniato da una guerra mondiale, a pezzi la chiamava Francesco, con efferatezze indicibili in Ucraina e in Israele, chi potrebbe dar credito che in Italia al governo ci sono i fascisti? Forse siamo stati noi, in Italia, gli ultimi nel mondo a renderci conto che era infantile gridare all’orco della favola. L’unico motivo di una qualche preoccupazione è stato il caso del Generale Vannacci, il quale peraltro è l’unico nel centrodestra che non si preoccupa di ostentare parole e modi richiamanti il Ventennio. Ma proprio per l’ex Generale della Folgore è più lo sfottò per le sue uscite da parte delle opposizioni che un autentico sdegno, come a rendersi conto che su certe cose insistere è ridicolo.
Tutte rose e fiori, allora, i mille giorni di Giorgia? Sarebbe sciocco pensarlo, anche se il dato che rende il governo Meloni saldo in sella non è nel governo è fuori ed è nelle opposizioni che sono ben lontane dal costituire una alternativa possibile e credibile. Si potrebbe dire che la vera forza di Meloni sia la mancanza di un avversario. La temuta deriva meloniana di Calenda, peraltro, e il passaggio di una consigliera comunale romana dal Pd a FdI fanno pensare a quel fenomeno tipicamente italiano dell’andare in soccorso del vincitore, che incomincia a manifestarsi. Certo, non è il caso per nessuno di mettersi a dormire sugli allori. Anche il centrodestra subisce la forza internazionale della Meloni e tacita fin dal nascere ogni polemica ed ogni dissenso. Conosciamo la situazione politica italiana e sappiamo che non ci vuole molto perché cambi. I risultati delle prossime elezioni regionali potrebbero dare uno scossone importante alla maggioranza specialmente se si dovesse perdere il Veneto, come accadde qualche anno fa a Verona, dove con una maggioranza elettorale di centrodestra, spaccato, si finì per regalare al centrosinistra il Comune. Le rogne quotidiane, inoltre, non mancano mai. Nei decorsi mille giorni sono state contenute e nascoste. I giorni che verranno saranno sicuramente più impegnativi, come in genere sono le code.
sabato 5 luglio 2025
Lo storico segue la verità, il politico l'interesse
Se mi si chiedesse di professare pubblicamente l’antifascismo come è stato chiesto più volte e inutilmente a tanti esponenti di Fratelli d’Italia, mi rifiuterei, non già perché io mi consideri fascista, ossia perseguitore di una dittatura, cosa ben lontana dai miei pensieri, ma perché lo ritengo un non senso. Non si può essere contro una cosa che non c’è o che tu non puoi evitare se dovesse concretizzarsi. Come il Filosofo disse: non temo la morte perché quando c’è la morte non ci sono io e quando ci sono io non c’è la morte così per il fascismo: quando c’è il fascismo non c’è libertà e quando c’è libertà non c’è fascismo.
Avevo un amico molti anni fa, che era fascista a Taurisano, suo e mio paese natale; liberale a Firenze, dove studiava; comunista a Trento ai tempi di Sociologia. Sì, mi confessò, mi adeguo, non sopporto diversificarmi in qualsiasi ambiente capiti. Pensa, aggiunse, che nel palazzo dove abito sono quasi tutti interisti ed io che da sempre sono juventino mi dico interista per non dispiacere ai più. Questa tendenza oggi si chiama mainstream, una parola inglese che sostituisce banderuola, più modesta ma assai più convincente. Gli risposi che il suo comportamento era tipico del politico, che ovunque si trovi cerca di non dispiacere a nessuno, il suo scopo essendo il consenso degli altri. Non volli scomodare moti caratteriali per non fare il moralista della circostanza.
Ma è cosa che può essere giustificata? Dal punto di vista politico sì, dal punto di vista storico no. Chi ha una mentalità di storico sa che qualunque idea, condivisa o meno, può avere avuto nel tempo un periodo di consenso, di condivisione diffusa, può aver costituito la morale comune, indiscussa. Chi non era fascista durante il fascismo era un reprobo e si guardava dal dirsi antifascista; l’esatto opposto oggi. Prendiamo il patriarcato. Questo ha costituito per millenni la base su cui si reggeva la famiglia e ad altra dimensione la società, comunque una qualsiasi aggregazione sociale organizzata. Oggi il patriarcato è una “parolaccia”, da respingere, da condannare, di cui vergognarsi. Così per tantissime altre certezze considerate assolute per lunghi, lunghissimi o brevi periodi. Si pensi all’omosessualità, non moltissimi anni fa condizione da nascondere, da biasimare, oggi si ostenta in festa e il gay-pride si festeggia ogni anno in oceaniche partecipazioni in tutte le grandi città del mondo come, considerando le dovute differenze, una volta le processioni per le feste patronali, a cui partecipava tutto il paese, con le confraternite dietro labari e simboli.
Lo storico, che resta freddo e impassibile di fronte a certezze rovesciate, nuovi e vecchi idola, sa che tutto passa e qualche volta ripassa (corsi e ricorsi) e che non indignarsi per un’affermazione o una negazione da gran parte degli altri condivise, non è cinismo, è consapevolezza che così vanno le cose del mondo. Ciò che oggi è condannato, ieri era osannato; ciò che oggi è respinto potrà avere domani un ritorno. Con la sua visione ampia e articolata lo storico, privo di interessi nell’immediato, sembra giustificare tutto, perché tutto non è che il prodotto della storia. Lo storico non condanna, non approva, non respinge; cerca di capire e di spiegare. Per questa sua condizione spesso è biasimato, tacciato di insensibilità quando non addirittura di nascondere dietro lo storicismo sue convinzioni personali che non avrebbe il coraggio di professare apertamente. La condizione dello storico o del politico è un modo di porsi diffuso di fronte alle cose, per cui non si deve essere necessariamente storici o politici di professione per assumere determinate posizioni. In un qualsiasi individuo può essere prevalente la visione storica, in un altro quella politica.
Nei confronti del fascismo l’approccio diventa radicale e non si fanno sconti. Politico o storico che uno sia, deve condannarlo senza se e senza ma, come si dice. Chi non lo fa va incontro ad incomprensioni ambientali.
Sono di destra e ho nei confronti del fascismo un interesse puramente storicistico, convinto che politicamente esso potrebbe pure ritornare in forme diverse per quei fenomeni tipici della storia, la domanda che mi pongo e che pongo agli altri è: si può parlare di fatti accaduti senza il precipuo interesse di fare propaganda politica in un senso o nell’altro? La mia risposta è decisamente sì, non solo si può, ma si deve. Lo storico, nel cercare la verità storica, può incorrere in un errore involontario; il politico, invece, sa di affermare il falso, consapevolmente, per il proprio interesse.
sabato 28 giugno 2025
Il governo ha il favore degli italiani
Secondo gli ultimi sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli le forze di governo hanno il favore degli italiani. Aumentano significativamente Fratelli d’Italia, Forza Italia e perfino la Lega, mentre calano quelle di opposizione, il Pd e il M5S (Corriere della Sera del 28 giugno 2025). Sembra quasi un rincorrersi a smentire. Ci sono reti televisive e giornali specializzati a dir male del governo e dei suoi rappresentanti. A sentirli, si pensa al disastro. Si distinguono «La 7», «la Repubblica», «Domani», veri organi del partito di opposizione. E, invece, appena possono dire la loro ecco che i cittadini danno risposte diverse. Intendiamoci, è tutto normale. L’opposizione fa il suo mestiere ed è giusto pure che abbia i suoi amplificatori. Ma, vivaddio, non si può a dispetto dei santi continuare a dir male non solo del paradiso ma perfino di un dignitoso purgatorio. Il governo, senza fare mirabilia, tira dignitosamente a campare, d’amore e d’accordo coi tradizionali alleati.
A che serve rendersi in-credibili, ovvero non credibili dall’elettorato? Lo dico agli oppositori. È vero che l’astensionismo continua a destare preoccupazione, ma questo non dipende né esclusivamente dal governo né dall’opposizione. È un fenomeno che ha molteplici cause. È ingenuo attribuirsi i voti degli astensionisti. Esistono e contano i voti espressi, gli altri sono fumo peraltro immaginato.
Prendiamo l’ultimo tema di dibattito: il riarmo dei paesi Nato. Nel loro vertice di alcuni giorni fa tutti i componenti ad eccezione della Spagna hanno convenuto che entro il 2035, fra dieci anni, dovranno raggiungere il 5% del Pil per le spese militari. Tradotto in soldoni l’Italia avrà da spendere per il cosiddetto riarmo 400mld. Una cifra enorme, che spaventa solo a sentirla. Sicuramente alla scadenza saranno in pochi i paesi che avranno raggiunto il traguardo del 5%. Ciò nonostante hanno detto tutti sì, più che fiduciosi, certi che di qui a dieci anni molta acqua sarà passata sotto i ponti europei e la situazione sarà completamente diversa. Ci sarà una ridefinizione dei termini. L’Italia, come gran parte degli altri paesi, ha detto sì al traguardo per necessità politica. Lo hanno fatto capire tutti che il sì era solo un dire: bene, in questo momento non possiamo che dire sì, e dentro di sé ognuno, poi sa solo Dio a chi dare i guai.
Le opposizioni, in Italia, incalzano la premier Meloni a dire dove trova i soldi per simile riarmo. Le chiedono cioè di elencare per filo e per segno da dove prenderà i soldi, dal momento che essa ha promesso che non sottrarrà un solo euro alla spesa sociale. Intanto quelle che passano per spese militari contengono una varietà di spese per la sicurezza. Non solo armi, dunque; ma vari sistemi di difesa, che con pistole e fucili non c’entrano nulla. Sicché sbagliano le opposizioni quando esemplificano la spesa nell’acquisto di armi, contrapponendo queste al miglioramento della sanità pubblica e di altre opere di pace. Vanno avanti per slogan, per facili esemplificazioni. Ipotizzano derive autoritarie senza nessuna giustificazione, così. Siccome in Ungheria Orban è contro le sfilate dei gay-pride e siccome Orban è amico della Meloni, la stessa cosa potrebbe accadere in Italia. Mentre tutti sanno ormai che in Italia i gay-pride sono diventati una consuetudine che non stupisce più nessuno, che possono piacere o non piacere ma nessuno si sogna di vietarli. L’ex saggio Bersani diventa rosso come un peperone quando paventa disastri incostituzionali o anticostituzionali, solo sulla base di un qualche politicamente scorretto. Mai, però, che dica su qualcosa di preciso c’è stata una difformità costituzionale. Tutte le paure si basano sul fatto che Fratelli d’Italia vengono da una cultura politica che non è la consueta dal 1945 in poi.
Quel che non piace alla gente di questa opposizione è il modo sommario di porsi contro il governo in ogni cosa, piccola o grande che sia. La gente ha una capacità intuitiva formidabile, arriva subito al cuore delle cose. Si è accorta e non da ora che le opposizioni non solo non riescono a fare unione e a porsi come un’alternativa possibile ma non riescono neppure a trovare delle problematiche credibili, facili e chiare. La gente coglie al volo le difficoltà in cui esse si aggirano, non sanno dire sì o no a problemi come i migranti e l’ordine pubblico. Agitano continuamente le difficoltà della sanità pubblica ma non riescono mai a suggerire qualcosa di concreto, non riescono ad avere un minimo di onestà intellettuale riconoscendo che essa viene da lontano e che non può essere ascritta al governo di Giorgia Meloni.
sabato 21 giugno 2025
Terzo mandato, la legge è legge
Come per tante altre questioni dell’umano pensare e agire anche il cosiddetto terzo mandato per i presidenti delle regioni o per i sindaci in scadenza presenta aspetti controversi. Come dire, ci sono i pro e i contro, a seconda della concezione che si ha della politica. Qui sono chiamati in causa il diritto naturale e il diritto positivo. Chi ha una concezione naturalistica della politica non mette limiti allo scorrere spontaneo di un processo che nasce, cresce e muore (Machiavelli). Chi, invece, ha una concezione contrattualistica ritiene che la politica vada sottoposta a regole limitatrici (Rousseau). Gli statuti e le costituzioni sono gli esempi più vistosi e importanti della normalizzazione della vita politica. La civiltà dei rapporti umani ne ha beneficiato. Dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, allo Stato di giustizia è stato un procedere verso la positività del diritto politico; ad ogni fase ha corrisposto una progressione verso forme sempre più importanti ed evolute.
Arrivo al dunque. Da un po’ di tempo in Italia, nell’imminenza delle elezioni regionali, si discetta sul terzo mandato per i presidenti di regione, che si ritiene abbiano ben governato e meritino la conferma. Ma c’è la regola che impedisce il terzo mandato, di cui si fanno forti i partiti per avocare a sé ogni decisione e quei politici scalpitanti che legittimamente ambiscono alla candidatura. È l’eterno aspetto della politica: chi ha il potere cerca di conservarlo e chi non lo ha cerca di conquistarlo. Qui, però, non è solo questione di uomini, ma di partiti e soprattutto di regole. Il caso veneto è un esempio. Il presidente Zaia, ottimo presidente della regione, del partito della Lega, dopo il secondo mandato deve cedere ad altro candidato di un partito della coalizione. I rapporti di forza elettorale di questi partiti nel frattempo si sono rovesciati in base ai sondaggi. Fratelli d’Italia e Forza Italia rivendicano la candidatura. La partitocrazia torna a fare capolino. In questo caso non sono i cittadini elettori a decidere, ma i partiti che hanno voluto la regola limitatrice.
Le ragioni della limitazione delle candidature sono tante. La democrazia, quando non è in spontaneo e diretto rapporto col popolo, deve avere delle regole. Le quali sono dirimenti. Ma in politica tutto è discutibile. Quello che conta è vincere le elezioni osservando le leggi. Se queste pongono dei problemi, non potendo essere disattese, potrebbero essere cambiate; ma cambiarle, per rendere possibile quello che prima era impossibile, sarebbe come disattenderle. Non si cambiano le regole nell’urgenza di una congiuntura. Bisognava provvedervi prima, senza l’interesse politico incalzante di una prova elettorale.
Regola a parte, ci sono ragioni di opportunità. Ciò che non vieta la legge – diceva una massima latina – lo vieta il pudore. I presidenti uscenti al termine del secondo mandato dovrebbero comportarsi secondo la massima latina “ciò che non vieta la legge lo vieta il pudore”. A Roma chi veniva nominato dittatore in casi di emergenza, scampato il pericolo, restituiva la carica al Senato che gliela aveva conferita. Cincinnato è rimasto l’icona di questo modo di essere e di operare. Lo stesso Augusto, dopo la guerra civile con Antonio, rimise tutti i poteri al Senato, che da parte sua glieli restituì ad abundantiam. Riconoscersi utile ma non indispensabile dovrebbe essere la regola non scritta di ogni politico, un “comandamento”.
Un’altra ragione a favore della necessità del ricambio politico è il rischio che la troppa confidenza col potere sfoci in fenomeni corruttivi o in una sorta di assuefazione al potere da non vedere con occhio vigile i cambiamenti della società. Il rinnovamento è importante quanto il buongoverno, in un mondo che cambia in maniera così vertiginosa da mettere tra una generazione e l’altra cambiamenti che una volta si verificavano in un secolo intero.
La soluzione di lasciare tutto come sta, ossia col divieto del terzo mandato, è la più giusta, a rischio di andare incontro in alcune regioni a veri e propri sottosopra elettorali. Una soluzione da preferire alle monarcheggianti di Zaia nel Veneto e di De Luca in Campania. Il limite è importante. Averlo fissato al secondo mandato può essere opinabile, ma era necessario rendersene conto prima e non nell’urgenza della prova elettorale. L’osservanza della legge, quali che siano le conseguenze politiche, non può portare che una ventata di aria pulita in un ambiente spesso considerato poco respirabile.
sabato 14 giugno 2025
Fatti e non interpretazioni. Ecco il quotidiano originale!
Leggo sul “Messaggero” di Roma (5 giugno 2025) il cambio di direzione, a distanza di un anno, dal direttore Guido Boffo, il quale aveva sostituito Massimo Martinelli, a quest’ultimo. Un cambio di guardia, che se fosse avvenuto in un’altra qualsiasi azienda pubblica o privata avrebbe quanto meno provocato un dibattito. Nulla! In un giornale importante il cambio di direzione non interessa a nessuno. A parte i convenevoli di circostanza, Martinelli riprende la direzione lasciata un anno fa come se nulla di particolare fosse successo. Ma non è di questo che intendo parlare. Probabilmente le ragioni saranno anche banali, comunque poco significative.
La cosa che mi ha colpito nell’editoriale del nuovo-vecchio direttore è l’affermazione: “Riporteremo i fatti, senza la pretesa di darne una interpretazione”. Ho trasalito. Ma come, non si è sempre detto che un buon giornalista separa i fatti dall’interpretazione? Ed ora si mena come vanto il riporto dei fatti e basta? Ma andando avanti nell’articolo si scoprono altre curiosità. Ad un certo punto Martinelli dice: “Faremo un giornale originale, perché inseguire il mainstream, ricalcare la stessa formula di informazione utilizzata dagli altri quotidiani, può diventare un alibi davanti a chi deve valutare il nostro lavoro, cioè il lettore. E disabitua le menti a fare quel lavoro nobile del giornalista che è la ricerca della notizia inedita e la capacità di ideare un servizio di cronaca in grado di scuotere le coscienze per raggiungere un obiettivo più alto rispetto al notiziario dei fatti del giorno”. Bene, anzi benissimo per la “notizia inedita”, ma come è possibile “scuotere le coscienze” limitandosi a raccontare i fatti bandendo ogni interpretazione? Martinelli poi ammette senza dirlo che “per raggiungere un obiettivo più alto rispetto al notiziario dei fatti del giorno” è necessario andare oltre i fatti, dai quali bisogna pur partire. Appunto, “un obiettivo più alto”, che non può essere che oltre il fatto!
La lettura dell’editoriale di Martinelli ha avuto un effetto personale. Sono un docente di Italiano, Latino e Storia nei Licei e negli Istituti Superiori. Parlo, dunque, con deformazione professionale. Per me un fatto è come un testo, va sottoposto ad analisi critica, a commento, a interpretazione, altrimenti serve a ben poco, si tratti di un fatto storico o di un fatto letterario. Tanto più oggi in cui i fatti riportati da un quotidiano il lettore li conosce dalla sera prima. Come si può proporre il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” del Leopardi senza analisi, commento e interpretazione? Come proporre ai lettori il referendum senza analisi, commento e interpretazione? Domande retoriche, perché la risposta è scontata: non si può! Del resto è così ovvio che le interpretazioni non stanno in piedi senza il fatto che viene di pensare ad un vestito senza il corpo dell’indossatore dentro.
Per come sono evoluti mezzi e tecniche dell’informazione i quotidiani dovrebbero somigliare sempre più ai settimanali o ai mensili; e difatti in un certo senso lo sono. Al fatto si accenna nella sua essenzialità, il resto è commento e interpretazione. Certo gli approcci devono essere onesti, non possono diventare aggressioni, nascondere per non far sapere, esagerare per colpire gli avversari, come capita di vedere in alcuni quotidiani che si propongono sempre più di parte. A questi evidentemente Martinelli faceva riferimento. In Italia i quotidiani sono variamente rispettosi del lettore e della persona in generale. I lettori del “Fatto Quotidiano” non sono i lettori del “Messaggero”. Non si tratta di cercare l’originalità, come dice Martinelli, ma di associarsi ad un modello anziché ad un altro.
Posso dire da incallito lettore di quotidiani che non trovo mai in essi una notizia che già non l’abbia appresa almeno il giorno prima dalla televisione e da internet. Poi ci sono giornalisti onesti e giornalisti disonesti che hanno coi fatti e con la verità dei fatti un approccio diverso, in cui la qualità la fa la distinzione chiara tra fatto e interpretazione. Ma un quotidiano esclusivamente notiziario, tutto fatti e niente commenti non esiste, non si capisce perché dovrebbe esistere.
Viene il sospetto, che non è una parolaccia, che dietro tante belle parole sulla notizia, la verità, l’originalità, lo scuotimento delle coscienze, si nasconda l’eterno vizio del pavone: nessuno ha i colori delle mie penne! Non che non sia normale, ma per questo basta esibirle le penne e il resto va da sé.
sabato 7 giugno 2025
Col decreto sicurezza stiamo più sicuri o no?
Il Parlamento ha approvato il decreto sicurezza che prevede nuovi tipi di reato e inasprito le pene. Le opposizioni hanno dato battaglia e…spettacolo, coi parlamentari sdraiati per terra sotto i banchi del governo. Da una parte le promesse del governo che d’ora in poi gli italiani saranno più protetti, dall’altra le opposizioni che hanno denunciato provvedimenti da Stato autoritario. Evidentemente c’è un esagerato ottimismo da una parte e un esagerato pessimismo dall’altra.
Partiamo da quest’ultima. È veramente uno Stato autoritario quello che si provvede di strumenti giuridici per far vivere più al sicuro i suoi cittadini più esposti? Tutto è relativo. Le leggi possono essere applicate cum grano salis, in maniera equilibrata, e possono essere, in determinati momenti, applicate con severità. Dipende anche dalle situazioni. Ci sono malattie che si possono curare con la medicina, altre con la chirurgia; alcune con dei palliativi, altre con dosi massicce di farmaci. Non dimentichiamo inoltre che ad applicarle le leggi sono i giudici, i quali, nella loro libertà, possono anche svuotare una legge della sua forza. Recentemente i giudici romani hanno assolto i responsabili di aver sporcato con vernice nera la famosa Barcaccia perché in fondo non l’avevano poi tanto sporcata, non l’avevano resa tanto scura. E di queste sentenze ne sentiamo che ne sentiamo!
In questi ultimi tempi nelle città si sono aggravati certi fenomeni di malavita: occupazioni abusive di case, borseggiatrici nei luoghi pubblici, aggressioni personali di cittadini, raggiri di indifese anziane signore, a cui i malviventi sottraggono soldi e oggetti preziosi con l’inganno e la paura, diffusa manovalanza di delinquenti e spacciatori, risse, accoltellamenti, invivibilità delle città specialmente dal calar della sera al giorno successivo, interi rioni invivibili. Questo lo si vede nei dibattiti televisivi, che sono le uniche possibilità per far conoscere queste realtà altrimenti rimarrebbero sconosciute ai più. Il governo ha risposto, come è suo compito, con un provvedimento ad hoc. Le opposizioni hanno sostenuto che già le leggi c’erano e che non c’era alcun bisogno di farne altre. Altre, che stando alla loro denuncia, potrebbero essere pericolose ove ci fosse un governo che quelle leggi applicasse con rigore, anche persecutorio. Insomma, per le opposizioni il decreto sicurezza non serve per rendere più sicura la vita ai cittadini, ma è uno strumento nelle mani del governo che potrebbe usarlo, senza violare la legge, contro normali forme ed espressioni di democrazia. Il decreto prevede anche pene severe per quei reati che attengono manifestazioni non autorizzate, occupazione di locali pubblici, interruzione di pubblici servizi. Fenomeni questi che in genere hanno per protagonisti giovani e giovanissimi. Si pensi all’occupazione delle scuole o ad alcune marce per protesta o per solidarietà, che spesso finiscono col degenerare.
La risposta alle opposizioni che ancora una volta hanno gridato “al lupo! al lupo!” è che un governo deve regolarsi a seconda delle esigenze dei cittadini. Il ragionamento dei partiti di maggioranza è che la gente li ha votati perché vuole da loro mantenere le promesse fatte. Fra queste promesse c’erano sicuramente ordine e sicurezza. Il governo non ha fatto altro che rispondere alle aspettative della gente che lo ha votato.
E veniamo all’eccessivo ottimismo del governo. Davvero queste leggi risolveranno il problema sicurezza? Non bastavano quelle che c’erano? In Italia spesso invece di applicare una legge esistente si sceglie di farne una nuova, come se il problema fosse della legge che non c’era. In un certo senso le opposizioni non hanno torto quando sostengono che con questo decreto non cambierà niente sul piano pratico. In realtà in Italia da sempre non sono mai mancate le leggi, sono mancati quelli che le applicano con scienza e coscienza. Le leggi son – diceva Dante Alighieri ai suoi tempi – ma chi pon mano ad esse? L’aspetto curioso è che su questo convengono sia la maggioranza che l’opposizione, nel senso che sono tutti convinti che i giudici che dovrebbero applicarle le leggi, le leggono prima di tutto a modo loro e poi le applicano secondo criteri politici, di opportunità, sicché alla fine tutto resta come era. Le manzoniane grida poco o nulla servono, specialmente in un paese come l’Italia, dove tutto si stempera nel nulla. Vedremo quanto prima se hanno avuto torto gli ottimisti del governo o i pessimisti dell’opposizione. Forse, più che ottimisti o pessimisti, occorre essere semplicemente scettici.
sabato 31 maggio 2025
Referendum, lo scontro è sul governo
L’art. 75 della Costituzione, come è arcinoto, prevede il referendum abrogativo di talune leggi o di alcuni loro punti. Perché l’esito sia valido è necessario che i votanti siano il 50% più uno. Spesso i sostenitori del NO hanno speculato sugli astensionisti per invalidare la chiamata referendaria, i quali sono sempre nell’ordine del 40-50% degli elettori. Almeno, stando ai risultati di questi ultimi anni. Il referendum così ha tralignato dal merito dei quesiti e di ciò che si intendeva abrogare nel referendum stesso: se invalidarlo o meno astenendosi e suggerendo di astenersi. Questo è accaduto spesse volte in Italia, con esiti a volte scontati, a volte sorprendenti. Famoso l’andate a mare di Craxi e l’esito smentito dai votanti. Quando si crea un certo agonismo tra le parti i protagonisti possono aumentare per una sorta di sfida, che ognuna delle due vuole vincere.
Anche per il referendum dell’8 giugno sta accadendo la stessa cosa. Il referendum su alcune questioni del lavoro e della cittadinanza italiana sta diventando un referendum fra chi è determinato a votare, come tutti i partiti di opposizione, a prescindere da ogni altra considerazione, e chi non vota e invita a non votare come tutti i partiti della maggioranza, tranne Noi Moderati, che sono una piccola minoranza. Per la cronaca, essi sono in tutti i quesiti per il NO.
L’esito, quale che sia, è già un referendum sul governo; in quanto tale, è sempre un rischio. L’esito, infatti, se pure sarà invalidante – e non è detto che lo sia – resta una risposta al governo, con conseguenze che si possono immaginare. Le opposizioni avranno ragione di chiedere le dimissioni di Meloni e della sua compagnia cantante. Avete detto agli italiani di non votare, hanno votato, dunque c’è una maggioranza nel Paese che non si riconosce nel governo. In politica non sempre, ma qualche volta due e due fa quattro.
Perché questo regalo della maggioranza governativa alle opposizioni? Perché tanta ingenuità da parte di politici che per età ed esperienze dovrebbero sapere che in politica l’insidia è nei dettagli, nelle cose piccole, in quelle scontate, negli imprevisti?
Lasciamo stare gli aspetti etici di certe uscite, come quella del Sen. Ignazio La Russa, Presidente del Senato, che dimostrano l’inadeguatezza del personaggio a ricoprire una carica così importante. Ha ripetuto più volte che lui non andrà a votare e ha invitato a non andare a votare. È vero, siamo in democrazia; ma le “libertà” di dire la prima cosa che passa per la mente sono soggette a regole da rispettare. La seconda carica dello Stato non può comportarsi come un parlamentare qualsiasi, ma deve assoggettare il suo comportamento a quello che la carica impone. Ma c’è bisogno di una legge scritta per comportarsi come è nella logica delle situazioni?
Nei confronti del referendum era necessario avere atteggiamenti soft, lasciare che i cittadini si regolassero sulla base dei comportamenti dei loro rappresentanti e dei propri ragionamenti. Calcoli e speculazioni non sono mai consigliabili, specialmente quando lo scontro politico è particolarmente pretestuoso e a volte fondato sul nulla. In Italia vediamo quotidianamente che perfino su una battuta, una parola si discute per settimane. Insistere a dire non andate a votare è un errore madornale, che non resterà senza conseguenze.
Ciò detto, fuori dal vociare confuso e diffuso di questi giorni, votare al referendum non è come votare alle elezioni. Il referendum è l’iniziativa di una parte politica che “impone” agli altri di pronunciarsi su determinate questioni. Se votare o non votare è importante per la validità della prova, è legittimo che uno decida di non votare e più che nel merito dei quesiti si pronuncia sulla validità del referendum stesso. È una questione che non dovrebbe creare il rumore che in genere crea per tutti gli spropositi che si dicono da una parte e dall’altra. Ma la parte più interessata, dal punto di vista politico, a non creare disordini o a non radicalizzare la questione è in questo caso il governo. Ha tutto da perdere dalla radicalizzazione di uno scontro “inventato”.
Nelle elezioni politiche, invece, votare è un diritto ma soprattutto un dovere, anche se non c’è legge alcuna che punisca in qualche modo chi si rifiuta di andare a votare. È solo una questione di educazione civica, di sensibilità politica, di doverosa partecipazione alla vita della Nazione, di cui si è parte. È una conquista che i popoli hanno meritato dopo secoli e secoli di lotte e di aspirazioni. Considerare il voto come qualcosa di inutile è come privarsi di una parte di sé.
domenica 25 maggio 2025
110 anni fa l'Italia in guerra contro l'Austria Ungheria
Il 24 maggio 1915 l’Italia, 110 anni fa, dichiarando guerra all’Austria-Ungheria, entrò nella Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra. Una data importante per la storia del nostro Paese, che purtroppo scivola sempre più nell’indifferenza, perché non si usa più celebrare le guerre. Si spera così di esorcizzarle. Fino a non moltissimi anni fa il 24 maggio era festa nazionale e la Leggenda del Piave veniva cantata quasi fosse l’Inno nazionale o, come oggi si dice il Canto degli Italiani! Oggi nessun cenno all’anniversario.
Quella guerra, nei confronti della quale il Paese si divise, per la prima volta a livello nazionale da che era stato unificato, tra interventisti e neutralisti, fu per l’Italia il compimento del Risorgimento, la continuazione delle Guerre di Indipendenza. Non a caso da noi italiani fu anche detta la IV Guerra di Indipendenza. Ma non fu una partecipazione scontata, come si potrebbe pensare. Noi eravamo alleati dell’Austria fin dal 1882 con la Triplice Alleanza, un patto peraltro più volte rinnovato. Caso mai avremmo dovuto partecipare al suo fianco o assumere una posizione per favorirla o non danneggiarla. Invece, dopo pensamenti e ripensamenti, valutati i pro e i contri di tutte le ipotesi, compresa quella di non intervenire in cambio di alcune concessioni austriache, decidemmo di compiere la scelta più giusta, quella che ci legava all’idea risorgimentale. L’unica, se vogliamo. Dovevamo portare a compimento la causa dei nostri grandi, da Mazzini a Garibaldi, da Cavour a Vittorio Emanuele II, dagli intellettuali impegnati nei loro studi e pensieri agli uomini di azione che erano caduti nei vari moti susseguitisi in Italia fin dall’indomani del Congresso di Vienna del 1815. In quella sede altri decisero che l’Italia doveva rimanere divisa in più stati e presidiata dalla Santa Alleanza perché nulla mutasse, per impedire insomma che si unificasse, come era nel destino di una delle più grandi nazioni d’Europa. Le guerre di indipendenza erano state fatte contro l’Austria. Se si voleva seguire la strada risorgimentale bisognava perciò riprendere le armi contro l’Austria. Diciamo che il calcolo politico poteva suggerire di metterci d’accordo con l’Austria, ma la passione degli italiani era fondamentalmente antiaustriaca. Difficile dire quanto contò lo spirito interventista contro l’Austria nella scelta finale, sta di fatto che il governo preferì seguire lo spontaneismo nazionalista degli interventisti che il voto del Parlamento che si era espresso contro la guerra.
I cittadini queste cose dovrebbero saperle, dovrebbero seguire le vicende della propria nazione senza enfasi e risentimenti. Rispettare un anniversario vuol dire anche questo. Quando si tratta di una guerra poi l’attenzione deve essere massima perché essa è sempre un’immane tragedia per tutti i partecipanti. Il papa Benedetto XV la definì un’ “inutile strage”, cercò di mediare con un documento che non servì a nulla. Alla fine ci furono paesi vincitori, fra cui noi, e paesi sconfitti; ma tutti, gli uni e gli altri, erano al collasso, in preda a gravi rivolgimenti politici, sociali, economici. Il breve tratto di anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, appena una ventina, dimostra come i problemi dell’Europa non furono risolti dal conflitto.
Ricordare una guerra, vittoriosa o rovinosa che sia stata, è importante, non tanto per il fatto in sé, certo non per esaltare una vicenda comunque tragica, ma per seguire la vita della propria nazione con consapevolezza civica, per apprezzare quanto è importante ciò che i nostri padri hanno fatto e poi lasciato a noi per gestirne le responsabilità e i frutti. Si può essere d’accordo o meno con la decisione di entrare in guerra, ma una volta che la scelta è compiuta e la guerra finita occorre trarre il massimo del bene nazionale dai sacrifici e dalle sofferenze patiti. Coltivarne la memoria è importante per capire e superare i problemi che si pongono nella convivenza delle popolazioni.
Per alcuni anni, successivi alla guerra, la convivenza delle popolazioni di frontiera in Alto Adige è stata problematica per via del fatto che in quella regione la parte che era austriaca si ritrovò dopo la guerra ad essere italiana. Lo stesso Alto Adige gli austriaci lo chiamano Sud Tirol. È stato grazie agli accordi De Gasperi-Gruber del 1946, successivi alla II Guerra Mondiale, che quella convivenza oggi è un modello da indicare a tutte quelle popolazioni nel mondo che vivono lo stesso problema.
Qualche giorno fa una sindaca neoeletta in provincia di Bolzano si sfilò la fascia tricolore, dimostrando di non amare quel simbolo di appartenenza, sentendosi evidentemente austriaca nell’anima. Capiamo da dove viene quel gesto, non capiamo perché lo abbia compiuto, dal momento che certi comportamenti non hanno più ragione di esistere. Si può essere buoni austriaci nell’intimo e buoni cittadini italiani per appartenenza nazionale. Siamo tutti figli della storia, ci è gradito o meno.
sabato 17 maggio 2025
2027. Morte e rinascita della democrazia in Italia
Il giornalista scrittore Sergio Rizzo, che qualche anno fa scrisse in collaborazione con Gian Antonio Stella «La casta”, in un suo romanzo distopico «2027. Fuga dalla democrazia», ha descritto come possa andare a finire il regime della “Meloni” e dei “suoi”, mai chiamati col loro nome ovviamente. Tutti innominati ma tutti riconoscibili, alcuni con nomi evocativi. La fine del regime “meloniano” è seguita dalla rinascita democratica, questa volta non per opera dei comitati di liberazione nazionale ma di un maresciallo dei carabinieri e di un comandante di marina, i quali disobbediscono agli ordini del “dittatore” ministro degli interni ad interim, dando inizio alla liberazione.
L’autore immagina che alle elezioni del 2027 “nessuno” va a votare, rendendo impossibile la formazione di un governo e di un parlamento. Seguono attentati, con morti e feriti. Il Presidente del Consiglio se la squaglia “col malloppo” e il “successore”, suo vice, instaura la dittatura. Sorprendentemente, ma aggiungerei inspiegabilmente, nella fiction di Rizzo, mancano gli abituali difensori della democrazia, di centrosinistra e di centrodestra; come se fossero morti prima della democrazia stessa.
Rizzo è un giornalista di sinistra, dal volto bonario; ma deve essere un tantino sfiduciato. Di fronte alle difficoltà della sua parte politica di trovare soluzioni possibili, dà sfogo ad un intimo riposto. Per lui la democrazia è di sinistra o non è; non esiste una democrazia di destra, è una contraddizione in termini. E allora che va ad immaginarsi? Qualcosa di radicale: nessuno va a votare per eleggere il capo del governo secondo la riforma approvata del premierato, una sorta di ammutinamento degli elettori di destra e di sinistra insieme, allo scopo di gettare il paese nell’ingovernabilità e nel caos. Nel frattempo fa strame di persone rispettabilissime fino a prova contraria. Il Presidente del Consiglio sparito ha trovato rifugio in Vaticano, mentre è accusato di aver ricevuto soldi dal governo ucraino per sostenere le sue ragioni contro la Russia. Il governo è un’accozzaglia di parenti del capo, una specie di banda tribale che ha occupato tutti i posti di potere, grandi, medi e piccoli.
Rizzo sembra così sintetizzare tutte le pulsioni irrazionali del qualunquismo. Riporta in esergo quel che si legge su un muro di Bologna: «Tutti promettono, nessuno mantiene, vota nessuno». Un qualunquismo che dimostra che sul tema neppure a sinistra scherzano quando ci si mettono. Se gli italiani ancora oggi pensano che in democrazia si possa governare col “detto e fatto” tipico delle dittature vuol dire che la democrazia dei partiti ha fallito su entrambi i fronti, quello dell’amministrare la cosa pubblica e quello di educare le masse.
Alla fine tutto si conclude con un ammutinamento, che mette in crisi definitivamente il regime del ministro ad interim, “Salvini”, mai nominato. Questa volta il comandante della Diciotti disobbedisce e invece di portare al “lager” albanese i migranti, li porta a Pozzallo, dove un maresciallo dei carabinieri andato lì ad arrestarlo per aver disobbedito ad un ordine si rifiuta, e così tutto finisce tra pentiti manzoniani e personaggi deamicisiani. Il Presidente del Consiglio accusato ed estromesso risulta innocente ma pentito si ritira in un convento; il ministro ad interim finisce per rifugiarsi in Russia. E tutta l’Italia, ritrovata la libertà, è in festa: si rioccupano università, si fanno sfilate nelle vie delle maggiori città, tutto torna come prima. Non mancano fatti di cuore, amori omosessuali troncati tragicamente, episodi deamicisiani e soprattutto una lezione: i regimi si abbattono disobbedendo.
La facilità con cui la democrazia italiana, nella fiction di Rizzo, cade e risorge rientra nell’idea che l’autore ha del governo “Meloni”, un castello di carta, dove basta sfilarne una di sotto e tutto crolla. È di tutta evidenza che Rizzo con la sua storia non vuole convincere nessuno, sarebbe troppo ingenuo se questo fosse il suo intento. Il suo romanzo rientra in un genere, quello della distopia-utopia. Tutto avviene non secondo regole e convenzioni ma tutto si muove secondo i desiderata dell’autore. Una storia non vera e non verosimile. Una sorta di divertissement imbottito di giudizi tanto trancianti quanto gratuiti, che raccoglie i luoghi comuni che sul governo Meloni si vanno formulando dall’indomani dell’ottobre del 2022, data di nascita di quel governo. Viene di pensare che il suo scopo è di fare esercizio di propaganda, di opposizione a un governo e a una classe politica che all’autore danno l’impressione di essere giunti alla fine.
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