sabato 29 novembre 2025

Un voto dopo l'altro

I risultati delle elezioni regionali, in Veneto, Campania e Puglia, hanno confermato quanto le previsioni e i sondaggi dicevano da tempo, hanno offerto la prova di quel che già si sapeva. Questo dovrebbe indurre la classe dirigente a cercare nuove forme di partecipazione popolare, dato che la consultazione elettorale è superata. Le tecniche dei sondaggisti sono tali da rendere “superflue” le vecchie urne, i cosiddetti ludi cartacei. Tuttavia il voto del 23-24 novembre non è stato inutile. Ha confermato, col suo tre a tre, una situazione di parità tra Centrodestra e Centrosinistra + Movimento 5 Stelle. Eppure nel Centrodestra si vive un’aria di sconfitta, mentre nel Centrosinistra si ostenta euforia. I politici interessati, vinti e vincitori, minimizzano ed enfatizzano, secondo costume. Gli uni e gli altri rimandano la partita decisiva al Referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati del giugno 2026, quando è possibile una resa dei conti, in prossimità delle elezioni nazionali del 2027. Il gioco comincia a farsi sempre più duro in una partita a più tempi, al termine della quale sapremo se il Paese resterà nelle mani del Centrodestra o se tornerà in quelle del Centrosinistra per i successivi cinque anni. Il sistema elettorale, a questo punto, è determinante. Il dato, però, che va sottolineato è che gli elettori, dai quali dovrebbero dipendere gli esiti, non vogliono più “eleggere”, si astengono sempre più dal loro compito istituzionale. Nelle ultime elezioni regionali sia il Centrosinistra nel Veneto che il Centrodestra in Campania e Puglia speravano, pur dando per acquisito l’esito, di non perdere in maniera disastrosa, in modo da mettere sul piano della bilancia un recupero consolatorio. Invece i risultati sono andati oltre quel che si temeva: i vincitori hanno doppiato gli sconfitti in tutte e tre le piazze elettorali. È evidente che il voto organizzato, quello di diretta provenienza partitica, regge ancora; mentre il voto d’opinione è sempre più sfuggente. Va detto che nelle elezioni locali, come sono le regionali, conta molto il fattore personale del candidato a discapito del voto d’opinione. Accade quando la fiducia nella persona prevale sull’appartenenza politica. Io sarò pure juventino – per fare un esempio calcistico – ma se mi devo esprimere su due calciatori, quale dei due è di maggior valore, non mi lascio certo distrarre dal tifo e scelgo quello che a me sembra il più bravo, perfino un interista. È importante vedere nei prossimi sondaggi come stanno le cose, in che direzione si stanno muovendo o se invece segnano il passo. Certo è che i tempi stringono e nei quasi due anni della legislatura rimasti è inevitabile pensare alla rendicontazione finale. Il governo Meloni ha fatto tutto e niente. Al momento, dei suoi punti qualificanti ci sono solo cose cominciate: premierato, autonomia differenziata, sicurezza, riforma della giustizia, Ponte sullo Stretto, abbassamento delle tasse. Ma c’è di più e peggio. Se il governo dovesse perdere il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, prova di indubbia valenza politica, può darsi pure che non si dimetterà, come Meloni e alleati assicurano, ma subirebbe la più bruciante e grave delle sconfitte, con conseguenze sul voto del 2027. La Meloni può vantare una indubbia affermazione in campo internazionale, non tanto per il Piano Mattei e per le varie iniziative africane, quanto per la simpatia che il mondo politico mondiale le ha riservato. I conti, inoltre, li tiene in ordine e le agenzie di rating glielo riconoscono. Ma basta a vincere il confronto con gli avversari? L’Italia in campo internazionale conta quello che conta, ossia poco o nulla. Quando si tratta, infatti, di prendere decisioni importanti, che richiedono compromissioni serie, in Europa non si va oltre Francia, Germania e Inghilterra. Ecco allora che il voto regionale di questo 2025 è un campanello d’allarme per le Politiche del 2027. Il Centrodestra potrebbe arrivare scarico all’appuntamento. Molto dipenderà, allora, anche dalla capacità del Centrosinistra di proporsi come una coalizione forte e coesa. Che non è cosa da niente, come potrebbe sembrare. Finora i centrosinistri hanno bersagliato il governo di centrodestra perfino sulle cose più banali, dimostrando solo unità d’intenti; ma, quando gli stessi si guarderanno al loro interno, potrebbero accorgersi di non essere così pronti e compatti come si erano creduti e come avrebbero voluto.

sabato 22 novembre 2025

Educazione sessuale a scuola? Ni

Qualche giorno fa (16.11.2025), sul “Corriere della Sera”, Paolo di Stefano si chiedeva chi sarebbe potuto essere l’educatore affettivo o sentimentale o sessuale a scuola e da quale insegnamento esistente si potesse sottrarre il tempo per la nuova disciplina. E dava un suggerimento: «Chiunque lo faccia, dovrà essere accompagnato da un bravo insegnante di letteratura, di quelli e di quelle che sanno leggere e appassionare». E citava i personaggi immortali creati da Hemingway, Eco, Moravia, Garcia Marquez, Vargas Llosa, fino a Elena Ferrante, autori di storie d’affetto e d’amore esemplari. Probabilmente l’ipotetico insegnante di letteratura, che a scuola peraltro esiste già, è il docente di Italiano, dovrebbe aggiungersi non so a chi altri per rendere più congruo l’insegnamento sessuale, come qualche anno fa funzionava, ma meglio dire non funzionava, la compresenza. E già questo complicherebbe la situazione, di per sé problematica. E perché non utilizzare gli autori curricolari per l’educazione sentimentale? Si pensi ai personaggi danteschi di Paolo e Francesca, ad Angelica dell’Orlando furioso dell’Ariosto, a Erminia della Gerusalemme liberata del Tasso, a Lucia dei Promessi sposi del Manzoni. Basterebbe far capire ai ragazzi, non sarebbe difficile, che Paolo, Francesca, Angelica, Erminia e Lucia sono persone che vivono ancora oggi e vivranno sempre, perché rappresentano l’elemento umano nella sua universalità. Le loro vicende sono oggi e sempre esemplari. Lezioni sui sentimenti umani fanno parte da sempre dell’insegnamento della letteratura. Nessun insegnante di Italiano si limita alla parafrasi del testo, senza l’inevitabile analisi critica e il commento attualizzante. Il suggerimento di Di Stefano era una mezza bocciatura dell’educazione sessuale a scuola, tanto più che nei propositi del legislatore questa novità pedagogica dovrebbe portare all’eliminazione o comunque alla riduzione dei femminicidi, forse il più grave problema del nostro tempo. Ci permettiamo di dire che l’educazione sessuale a scuola nulla ha a che fare col gravissimo crimine del femminicidio. Chi uccide la propria compagna o la propria fidanzata sa benissimo di commettere un crimine, ma nel momento in cui lo fa è fuori di sé, ovvero fuori dell’educazione maturata. Il femminicidio in quanto tale è sempre esistito ma in passato non era rubricabile nel suo specifico perché si trattava di casi sporadici. Oggi che il caso è un fenomeno bisogna cercare le cause col coraggio di guardare la realtà per quella che è, senza ideologie fuorvianti. Esso si lega all’emancipazione delle donne, frutto di lotte politiche e sociali a partire dall’Ottocento. Un processo lungo, lento e accidentato, giunto fino ai giorni nostri. Al centro di questo processo vi è la libertà della donna, che si realizza in molteplicità di situazioni, in alcuni casi confliggendo con altri beni. Se questi altri beni, come la famiglia e i figli, non sono riconosciuti, allora è perfino parlarne. L’uomo che uccide la propria donna, nel momento in cui lo fa, è talmente esasperato che non vede altra soluzione alla crisi in cui a torto o a ragione si trova. Basterebbe aprirgli una porta, dargli una soluzione che non fosse la fine di tutto per evitare l’irreparabile. Una porta che apparisse non la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di diverso. È sbagliato pensare che l’uomo, per essere un uomo, abbia torto o debba cedere in partenza. Ma altrettanto sbagliato è fargli credere che se uccide se la può cavare con qualche anno di carcere, come a volte accade. C’è poi a scuola una questione di tempo per l’educazione sessuale. Per trovarlo bisognerebbe necessariamente sottrarlo ad altre discipline. Ma, a quali? Oggi la scuola, fra assemblee di classe e di istituto, giornate particolari da celebrare e immancabili scioperi e manifestazioni, non ha più il tempo di una volta per lo svolgimento del programma, che è parte centrale della programmazione approvata agli inizi dell’anno. Senza contare il fatto, molto spesso è accaduto – per esempio con l’educazione stradale – che, nonostante l’insegnamento ricevuto a scuola, i ragazzi, nei loro comportamenti extrascolastici, dimostrano incuranza quando non addirittura maleducazione. Un’ultima osservazione. In Parlamento è scoppiata la bagarre quando il Ministro Valditara ha aperto alla possibilità che le famiglie siano libere di far frequentare o meno ai figli le lezioni sull’educazione sessuale. Le sinistre si sono puntigliosamente opposte, dimostrando di non avere fiducia nelle famiglie. Le quali, per vivere in un Paese libero e democratico, chiedono a ragione di occuparsi da sé dell’educazione sessuale dei propri figli e figlie.

giovedì 20 novembre 2025

Caso Garofani. A pensar male...

Il consigliere alla difesa della Presidenza della Repubblica Francesco Saverio Garofani, già parlamentare Pd per diverse legislature, si è abbandonato, nel corso di una conversazione conviviale in un locale pubblico, ad esprimere giudizi negativi sul governo Meloni e a sperare in uno scossone che la facesse cadere alle Politiche del 2027, circostanziandolo pure. Una grande lista civica nazionale, un listone, guidata dall’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini. A svelarlo è stato un articolo apparso il 18 novembre su “La Verità” di Maurizio Belpietro, il quale pubblicava le parole del consigliere Garofani e ipotizzava che dietro quelle parole ci fosse il Presidente della Repubblica. Di fronte al gravissimo episodio, il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, ha chiesto al Quirinale che smentisse le parole del suo incauto consigliere. Ma, come nella battaglia di Maclodio, “s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”, così da sinistra sospettano che dietro le parole di Bignami ci sia la Meloni. Questi i fatti in successione. In un mondo politico normale, in seguito al su citato articolo, il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto chiamare il suo Consigliere e chiedergli ragione delle sue gravi esternazioni ed eventualmente “licenziarlo” su due piedi ove quello avesse ammesso di aver detto le frasi attribuitegli, come poi ha fatto. Invece il Presidente Mattarella ha rassicurato il suo Consigliere – lo ha detto questi – e sull’articolo de “La Verità”, ha espresso in un comunicato: «stupore per la dichiarazione del capogruppo alla Camera del partito di maggioranza relativa che sembra dar credito a un ennesimo attacco alla Presidenza della Repubblica, costruito sconfinando nel ridicolo». Ora in Italia siamo cani scottati e perciò temiamo l’acqua calda, come dice un noto proverbio. Abbiamo avuto i precedenti di Scalfaro e di Napolitano contro Berlusconi. Non c’è due senza tre. A pensarla male – diceva Andreotti – si fa peccato ma il più delle volte si indovina. Ora, per cercare di evitare uno scontro istituzionale, che sarebbe gravissimo, tutti gli attori dell’ennesima commedia all’italiana si sono messi a minimizzare e a giustificarsi col “volevo dire”. Ognuno voleva dire quello che non ha detto, dicendo altro. Ma sono tutti così scarsi in Italia nella comunicazione? Gli sprovveduti non erano solo quelli di destra? Così ha fatto lo sprovveduto Garofani: «Le mie erano soltanto chiacchiere tra amici». Così il puntiglioso Bignardi: «non mi riferivo al Presidente della Repubblica ma al suo consigliere». Non così, però, Maurizio Belpietro, il quale ha ribadito la giustezza della sua posizione e ha concluso che «è ridicolo chi silenzia». Gli altri, tutti ad avere massima fiducia nel Capo dello Stato. L’incontro tra il Presidente della Repubblica Mattarella e il Presidente del Consiglio Meloni, tenuto il 19 novembre al Quirinale, sembra aver chiarito, al di là di ciò che ognuno voleva dire, che tra le due massime istituzioni c’è intesa. Se è pace o soltanto tregua lo vedremo nei prossimi mesi. Certo è che un consigliere del Presidente della Repubblica non può chiacchierare con gli amici su questioni così delicate e importanti. Garofani deve rispondere di quanto ha detto. Si può discutere sull’entità della giusta punizione, ma la questione non può finire con un nulla di fatto. Torniamo all’incidente. Delle due l’una: o le parole indiziate sono scappate involontariamente o sono state dette di proposito. Per trarre quale “utile” nel secondo caso? Complotti a parte, fatto sta che oggi gli italiani sanno da che parte sta il Quirinale, se mai ci fosse stato bisogno di un’ulteriore conferma. Non è cosa da niente. È un incoraggiamento a tutte le opposizioni e all’elettorato antimeloniano a confidare nella prossima battaglia elettorale. È una squilla, una mobilitazione generale. Essa non cade a sproposito, stante la vigilia delle elezioni in tre importanti regioni italiane, il Veneto, la Puglia e la Campania. Proprio dai risultati che usciranno da quelle urne si possono trarre gli auspici per il non lontanissimo referendum sulla riforma della magistratura, che può determinare a sua volta e nell’immediato un principio di sconquasso in vista delle Politiche del 2027. Ecco perché l’uscita apparentemente sconsiderata di Garofani, l’attacco al Presidente della Repubblica di Belpietro e l’intervento di Bignami sono da intendersi giocate di una partita già iniziata. Il tressette italiano è arrivato alle ultime carte, quando tutti sanno che cosa ha ciascuno in mano.

sabato 15 novembre 2025

Ricchi, poveri e il mantello di San Martino

La Legge di Bilancio 2026, di cui si dibatte in questi giorni, ha creato un confronto di idee e proposte non solo tra governo e opposizioni ma anche all’interno del governo stesso. Le esigue risorse disponibili, che rendono estremamente povera la Finanziaria di quest’anno, manovra di 18 mld di Euro, hanno fatto gridare ad un certo punto le opposizioni, le quali hanno invocato una patrimoniale per i redditi più alti e altissimi e hanno accusato il governo di aver favorito i ceti più abbienti. Infelice la risposta di vari esponenti della maggioranza governativa, che hanno ammesso di aver favorito i ceti medi, ma che non può considerarsi ricco uno che ha un reddito di due-tre mila euro al mese. Come si saranno sentiti i circa sei milioni di poveri assoluti che stanno in Italia, lascio immaginare. Io credo che perfino per un terzo di quel reddito sarebbero disposti a farsi a piedi per intero la via francigena, andata e ritorno. Obiettivamente la situazione finanziaria italiana è preoccupante. Gli extraprofitti delle banche e una patrimoniale avrebbero potuto rimpinguare le casse dello Stato e consentire una più equa spartizione delle risorse. Ma il governo non solo non ha fatto ricorso a simili strumenti, lo ha fatto solo in parte per gli extraprofitti bancari, ma si è perfino vantato di non aver fatto ricorso alla patrimoniale. Tajani, capo della componente moderata della coalizione governativa, se n’è perfino gloriato: mai patrimoniale finché ci siamo noi al governo. In sostanza anche i partner governativi, FdI e Lega, si sono detti d’accordo, contravvenendo a loro precedenti posizioni. Soprattutto FdI, erede del Msi, la cosiddetta destra sociale, avrebbe dovuto pensarla diversamente. Non è stato detto sempre da quelle parti che la proprietà deve avere una funzione sociale? Che essa deve andare in soccorso dei ceti in difficoltà? Che la destra economica deve concedere qualcosa ai ceti meno abbienti? Non era mai successo prima che importanti esponenti del governo dichiarassero apertamente di aver favorito una classe piuttosto che un’altra, ma sempre si era cercato di avvalorare una politica di equa distribuzione della ricchezza, se non altro a parole. Si ha il sospetto che in Italia ci si stia convincendo che a votare vadano solo i benestanti, le categorie che possono considerarsi abbienti al punto da ricevere al momento giusto la “riconoscenza” dal governo. E che, viceversa, i poveri e i bisognosi si sono talmente scoraggiati da preferire di starsene a casa anziché andare a votare, mettendosi da soli fuorigioco. Una finanziaria insomma pensata per il cinquanta per cento della popolazione, quella che vota. Anche la Lega ha perso, strada facendo, la sua vocazione popolare, finendo per essere né carne né pesce. Il ministro leghista Giorgetti ha dimostrato di essere un buon ministro, ma solo tecnicamente, bravo a far quadrare i conti, che altri avrebbero fatto. Se così stanno le cose, basterebbe che gli attuali diseredati, che da qualche tempo non votano, riconoscessero in una parte politica chi li può veramente rappresentare e li votassero e alle prossime elezioni se ne vedrebbero delle belle. Io credo che l’astensione dal voto sia stata finora sottovalutata. Divaricare il Paese tra quelli che votano e quelli che non votano, per giungere a considerare i primi in maggioranza di centrodestra e i secondi in maggioranza di centrosinistra, e perciò i primi da privilegiare e i secondi da trascurare, è un errore, che può avere in futuro ricadute elettorali importanti. Non a caso da anni si denuncia l’astensione crescente dal voto degli elettori italiani, senza tuttavia studiare il caso per prendere gli adeguati provvedimenti. Vedremo alle prossime regionali, il 23-24 novembre, quale sarà la risposta dell’elettorato. Si voterà in tre regioni importanti anche dal punto di vista demografico, Veneto, Campania e Puglia. Gli esiti potrebbero dare elementi di valutazione significativi. Per intanto sarebbe bastato pensare ad una ricorrenza di questi giorni, che in Italia, pur senza essere festività nazionale, ha la sua importanza popolare, la festa di San Martino, per trarre auspici. Martino di Tours, cavaliere imperiale, incontrò sulla sua strada un mendicante e non avendo altro da dargli si tolse il mantello dalle spalle e con la spada lo divise in due dandogliene metà. Si può obiettare dicendo che per l’eccezionalità del gesto fu fatto santo. Oggi, invece, viviamo in un mondo in cui i cavalieri imperiali potrebbero pure fermarsi davanti al mendicante ma solo per vedere meglio se fosse in possesso di qualcos’altro da sottrargli.

sabato 8 novembre 2025

Inneggiare al fascismo è solo un dispetto da ragazzi

L’on. Guido Crosetto, Ministro della Difesa nel governo Meloni, è tra le personalità più stimabili e rispettabili. Conferisce alla formazione governativa non solo competenza tecnica, ma anche credibilità politica e compostezza formale. Sicché, quando alcuni giorni fa è esploso in un anatema contro alcuni ragazzi di Gioventù Nazionale, l’organizzazione giovanile di FdI, rei di aver cantato inni fascisti in ricorrenza della Marcia su Roma, mi sono meravigliato per l’esagerazione. Vanno presi a calci – ha detto arrabbiatissimo – vanno cioè espulsi, allontanati dal partito perché certe manifestazioni di nostalgia fascista non sono più tollerabili. A mio avviso il Ministro è stato ingeneroso nei confronti di quei giovani. Se per una ragazzata tiri fuori i calci, non rendi un buon servigio al tuo partito, che di linfa giovanile ha bisogno. Non mi sembra che le sezioni politiche pullulino di giovani che vogliono interessarsi di politica. Laddove ci sono, sono preziosi, anche quando esagerano, che è tipico della loro età. Un proverbio salentino dice “carne ca crisce ci no ùjica bberminisce” (la gioventù se non ribolle imputridisce). Semmai, allora, i giovani vanno educati alla moderazione e alla cultura, non presi a calci, nella consapevolezza che i giovani non possono comportarsi come gli anziani e che i giovani di FdI sono diversi da quelli dell’ex Democrazia cristiana, partito a cui apparteneva Crosetto. I giovani, pur con le loro stravaganze, sono il futuro di ogni partito, di ogni impresa, della Nazione. Senza di loro, il conteggio si può fare solo alla rovescia. Ha dimostrato Crosetto di essere prono agli avversari di sinistra, autentici campioni nella guerra delle parole. Essi, infatti, hanno criminalizzato ogni riferimento al fascismo, che si tratti di studio approfondito o di innocente ragazzata poco conta; e fanno dell’ironia persino sulle “cose buone” che fece il fascismo. Cose che, ad ottant’anni dalla sua fine, tutti possono vedere ancora ad occhio nudo andando a spasso nelle città italiane. Per dei ragazzi che danno sfogo alla propria giovinezza, tra il piacere della trasgressione e l’euforia dell’età, le sinistre, sempre incazzatissime, se la prendono con Giorgia Meloni e con Fratelli d’Italia e chiedono subito soddisfazione come persone offese nei sentimenti democratici, spaventate per l’imminente perdita della libertà. L’on. Crosetto sa bene che non è in pericolo un bel niente, caso mai l’intelligenza di questi fascistofobi, ma si presta al gioco degli avversari, i quali lo sanno meglio di lui che altri sono i problemi dell’Italia. Tanti che oggi sono al governo, ai loro dì, hanno cantato a squarciagola chissà quante volte inni fascisti. Lo si chieda a Ignazio La Russa, attuale Presidente del Senato, e alla stessa Giorgia Meloni. Questi non si sono mai sognati di realizzare i propositi del “pugnal tra i denti e bombe a mano” e gridando “Duce Duce” non pensavano affatto ad un ritorno alla dittatura. In Italia ci saranno sempre nostalgici di Mussolini e del fascismo come in Francia di Napoleone Bonaparte e dell’impero. Ricordo che nel corso delle campagne elettorali degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta i grammofani delle sezioni missine, con gli altoparlanti rivolti verso l’esterno, suonavano Giovinezza, Faccetta nera, Battaglioni del Duce, l’Inno dei giovani fascisti. Nessun carabiniere o vigile urbano interveniva per farli spegnere. A quei tempi il Msi raggiungeva percentuali bassissime, non impensieriva nessuno. “Ragliate, ragliate” dicevano i suoi avversari, con evidente disprezzo. Ora che gli eredi di quel partito sono democraticamente al governo si grida al pericolo. Ma non è soltanto ipocrisia dei partiti cosiddetti antifascisti. Nell’Occidente tutto si è succubi del politicamente corretto per cui al posto dei vecchi tabu, dei quali la civiltà occidentale si è liberata, ci sono i nuovi, che – guai! – a tentare di nominare. Così del fascismo, della Nazione, della Patria, del patriarcato, della famiglia conviene non dire niente, chinare il capo e tacere. Sta accadendo ciò che accadde a Roma, quando conquistò la Grecia con le armi ma da quella si fece conquistare con la cultura. Le destre hanno sconfitto le sinistre con le loro stesse armi, ovvero in libere votazioni, ma si stanno facendo conquistare dalle loro parole di rancore e di odio. Per cui inneggiare, anche per scherzo goliardico, al fascismo, diventa un fatto così grave che un ex democristiano diventato ministro anche coi voti degli eredi del Msi, vuole prendere a calci ed espellere dei ragazzi che per fare i dispettosi si sono messi a cantare degli inni sapendo, appunto, di fare solo un dispetto.

sabato 1 novembre 2025

La sinistra vuole la guerra civile

Quando Elly Schlein, leader del Pd e della coalizione di centrosinistra detta “Campo largo”, dice che la democrazia è a rischio se a governare il Paese è una formazione della destra estrema “sa” quello che dice. Altro che! Ovviamente eccede in iperboli per rendere più impressionante il concetto. La “poveretta” è stata massacrata perfino dai suoi per l’esagerazione della sua affermazione, considerando che oggettivamente al governo in Italia non c’è l’estrema destra e la democrazia non è affatto in pericolo. Ma gridare “Al lupo! Al lupo! giova e lo si vede. In tutto il Paese ormai c’è una guerriglia quotidiana con estremisti di sinistra all’attacco, i quali ormai dicono apertamente che sono “in armi” non solo per la Palestina ma anche e soprattutto per far cadere il governo Meloni. Landini, segretario generale della Cgil, incalza, minaccia scioperi generali, parla di rivolta sociale e si auspica pure lui il peggioramento di quanto sta accadendo. Gli studenti di sinistra occupano le università e le scuole, impedendo agli altri qualsiasi iniziativa, perfino di entrare, come è accaduto all’ex deputato Emanuele Fiano, espulso dall’Università Ca’ Foscari di Venezia perché ebreo e sionista. Episodi di violenza si susseguono ogni giorno. Piazza e sindacato di sinistra sembrano in servizio permanente effettivo per “provocare” il governo, sperando che prima o poi perda la pazienza e intervenga come sperano i “difensori della democrazia”. Se poi nel frattempo in uno dei tanti scontri con le Forze dell’Ordine si fa male qualcuno, ben venga, sarà accolto come una manna dal cielo. Grideranno Schlein e compagni: avete visto? Il governo reprime, la democrazia è in pericolo. Schlein “sa” quel che dice! Stiamo assistendo da più di un mese ad un film già visto. Era il ’68, studenti e operai in rivolta in tutte le scuole e le piazze; poi gli stessi divennero terroristi, “Brigate Rosse”, “Potere operaio” e tante altre sigle, che diedero l’assalto allo Stato, alle sue istituzioni, ai suoi uomini. Fino al culmine, nel 1978, col rapimento di Aldo Moro, Presidente della Dc. Dieci anni di guerra civile, una guerra a bassa intensità, ha detto Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione Stragi. Non furono i governi di quegli anni a mettere in moto la reazione, almeno non gli uomini più rappresentativi, ma soggetti che si servirono di pezzi dello Stato per mettere in atto una strategia di lotta, provocata dall’attacco della sinistra extraparlamentare, rivoluzionaria e combattente. Dall’altra parte, infatti, si reagì come in genere accade quando lo squilibrio fra le parti in lotta è vistosamente a favore di una delle due: con la violenza fantasma, con lo stragismo. Questa è storia: bombe nelle banche, sui treni, nelle stazioni, nelle piazze, esecuzioni individuali. Ancora oggi non tutto è chiaro di quegli anni; ma da quel che si vede c’è una parte politica, il centrosinistra, che da incosciente fa di tutto per ricreare nel Paese le condizioni per uno scontro di quel livello. È questo che la Schlein vuole dire quando afferma che con la destra estrema al governo la democrazia è in pericolo. La verità è che oggi, in Italia, sono quelli di sinistra i veri “reazionari”. Sono contrari a tutto, alle riforme come alla costruzione di importanti opere strategiche come il ponte sullo Stretto. Essi si stanno rendendo conto che il governo in carica sta realizzando le promesse che la maggioranza di centrodestra aveva fatto agli italiani. Essi assistono da tre anni ad un susseguirsi di successi del governo Meloni, che senza essere straordinario non si può dire neppure che sia uno scatafascio. I sondaggi, nonostante gli scompigli della sinistra, che denuncia un fallimento che non c’è, danno ragione al governo Meloni. E, allora, che fare? Il ragionamento è semplice: abbatterlo con la violenza, dopo aver creato nel Paese un clima di scontro continuo e sperare che prima o poi la situazione precipiti. Ma se per disgrazia degli italiani un governo liberamente eletto dagli elettori dovesse cadere per il clima di ingestibilità del Paese, provocato dalle sinistre, le conseguenze sarebbero estremamente gravi, in questo caso sì per la democrazia. Perché vorrebbe dire che il sistema democratico non è più in grado di garantire il rispetto del voto; sarebbe una sorta di golpe, mascherato da eccessi democratici, come la guerriglia urbana e le sceneggiate parlamentari, che la sinistra si ostina a chiamare normale protesta democratica. La parola d’ordine pertanto per la maggioranza di governo è mantenere i nervi saldi, non prestarsi alle provocazioni, sperando che la situazione non vada oltre il sopportabile, come sperano le sinistre, guidate dalla stretega Elly Schlein. Che quando parla, sa quel che dice e perché lo dice!

sabato 25 ottobre 2025

Meloni bene, a parte Trump

Alla domanda su Meloni e Schlein il giurista Sabino Cassese, intervistato da Roberto Gressi del “Corriere della Sera”, ha dato questa risposta: «Non c’è possibilità di paragone. Meloni studia, è la migliore allieva di Togliatti, come lui è realista. E ha capito, come prima di lei De Gasperi, che il modo migliore di fare la politica interna è fare la politica estera. Sull’altro fronte vedo il vuoto politico, solo slogan che inseguono l’ultima notizia dei giornali. Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia» (CdS, 21.10.2025). Giudizio di un uomo di assoluta insospettabilità e di profonda dottrina. Basterebbero i due nomi citati da Cassese per tenere la Meloni a livelli altissimi, essendo stati Togliatti e De Gasperi due protagonisti in assoluto dell’Italia repubblicana ai suoi inizi, due leader insuperati. Avvertiamo, tuttavia, la necessità di evidenziare ciò che della Meloni in questo momento appare preoccupante e che più in là potrebbe essere causa di una sua crisi. In questa sede nessun paragone con la Schlein o con altri. Riteniamo, però, che le critiche, quando esse hanno un fondamento, vadano fatte non quando tutto va male, quando è facile farle, ma prima, quando tutto sembra arridere. Qualche evidenza. In occasione delle manifestazioni in tutta Italia in favore della Palestina, che hanno caratterizzato il mese di ottobre, Meloni ha dimostrato di non essere in sintonia col Paese ed ha assunto atteggiamenti di incomprensione se non di conflittualità con esso. A manifestare, infatti, c’era un arco di rappresentanze che andava dagli antagonisti a cittadini moderati e perfino elettori di destra. Recentemente Landini, segretario generale della Cgil, ha tirato le somme definendola “cortigiana di Trump”. Espressione, questa, di una gravità enorme, tanto più che Landini non ha inteso neppure chiederle scusa, confermando di aver voluto dire proprio quello che aveva detto, cioè la Meloni persona che fa parte della corte di Trump. Bando a qualsiasi altra interpretazione, sbagliata oltre che volgare, l’accusa è precisa: la Meloni è troppo appiattita sulle posizioni di Trump. Così appare, anche se così non è. Lei è ferma su posizioni filooccidentali mentre Trump è piuttosto ondivago e per certi aspetti irricevibile. La politica della Meloni è chiara e coerente nei limiti della realtà che cambia e si evolve: europeista e filoamericana, favorevole al riconoscimento di una Palestina moderata e rispettosa di Israele nell’ambito della formula “due popoli due stati”, in favore di una pace giusta in Ucraina. Questi sono i punti fondamentali della sua politica estera, al di là di ogni intento delle opposizioni di denigrarla o di irriderla. Gli elogi pubblici di Trump, di un uomo noto ormai per le sue stravaganze verbali e comportamentali, le fanno più danno che utile. All’infelice sortita di Landini si è aggiunta più recentemente quella della grillina Alessandra Maiorino, che l’ha definita cheerleader (ragazza pon pon). Il termine cortigiana, femminile di cortigiano, uomo di corte, rimanda al nostro Rinascimento quando nelle corti italiane tutti pendevano dalle labbra del signore e tutti cercavano di non contraddirlo: «Pazzo chi al suo signor contradir vole, / se ben dicesse c’ha veduto il giorno / pieno di stelle e a mezzanotte il sole» (Ariosto, Satire, I). Ora Trump non perde tempo a punire tutti i suoi avversari e a prodursi in trovate vomitevoli come quella prodotta dall’Intelligenza Artificiale, che lo vede in aereo che bombarda col suo sterco i manifestanti che lo contestano per i suoi atteggiamenti da sovrano. Una scena che nessun sovrano vero si sognerebbe mai di immaginare: prendere a merdate i propri sudditi perché dissentono. Ma lo può fare Trump in democrazia, e questo è davvero un problema per gli americani. Sicché quando vediamo la Meloni essere associata a Trump non crediamo che le venga fatta una cortesia. Per questo i leader dei più importanti paesi europei hanno assunto un atteggiamento di prudenza nei confronti del Presidente americano, preferendo molto spesso il silenzio, che non è condanna ma nemmeno consenso. La Meloni perciò dovrebbe stare attenta a non farsi legare troppo ad un politico di tal fatta e a ritagliarsi una sua autonomia, che è poi l’autonomia dell’Italia, dato che lei è a capo del governo italiano; che è l’autonomia dell’Europa. Trump cambia molto spesso parere, ha comportamenti autoritari, da principe capriccioso o da sovrano dispotico. Nessuno può dire quello che lui effettivamente pensa su un determinato problema. A seguirlo nelle sue scorribande, si rischia di fare la fine che prima o poi farà lui.

sabato 18 ottobre 2025

C'era una volta il voto

C’era una volta il voto. Valeva quanto una pepita d’oro. Quando si contavano nello spoglio delle schede era un processo infinito ogni volta che per una incertezza grafica il voto veniva contestato. C’erano i rappresentanti di lista con occhi aperti e lingua pronta a rivendicarlo al proprio partito o ad annullarlo a seconda della convenienza. Erano così preziosi i voti? Certo. Era preziosa la politica. Erano preziosi i partiti. Erano preziosi i comizi, a cui partecipavano moltitudini di cittadini. Essi, a quei tempi, erano protagonisti; tali si sentivano. Le percentuali dei votanti erano altissime. Fino al conteggio dell’ultima scheda non si conoscevano gli esiti dei vari candidati. Oggi con le proiezioni si sanno dopo appena cento schede scrutinate. Il resto si potrebbe pure zavorrare. I recenti risultati elettorali delle Regionali di Marche, Calabria e Toscana hanno fatto registrare un ulteriore calo dei votanti. Più della metà degli elettori non è andata a votare. Nelle Marche e in Calabria ha vinto il candidato di centrodestra con largo margine sull’omologo del centrosinistra; in Toscana è accaduto il contrario: ha vinto il candidato del centrosinistra con largo margine sull’avversario di centrodestra. Viene di pensare che oggi una buona percentuale di votanti, sia di destra che di sinistra, non si rechi a votare perché lo ritiene inutile, a volte deluso dal proprio partito, altre volte nauseato dalla politica. Penserà: con me o senza di me non cambia nulla. Perché gli elettori di sinistra dovevano votare nelle Marche e in Calabria dal momento che era scontato che vincesse il candidato di destra? Così in Toscana, perché l’elettore di destra doveva andare a votare stante la certezza del successo del candidato di sinistra? In altri termini, nelle Marche e in Calabria gli elettori di sinistra hanno ritenuto che era inutile votare; altrettanto hanno pensato gli elettori di destra in Toscana. La pigrizia e un malinteso senso del voto hanno caratterizzato le elezioni. C’è evidentemente una questione psicologica dell’elettore che si sbaglia a non voler considerare in tutta la sua importanza. Un po’ è accaduto anche per la polarizzazione della politica. All’interno dei due poli gli elettori si sentono meno motivati e determinanti che se si votasse con la proporzionale per il proprio partito, come accadeva al tempo del proporzionalismo, quando i partiti si impegnavano coi loro elettori per raggiungere il miglior risultato possibile da spendere poi nelle formazioni governative che seguivano. Allora, non a caso, si parlava di patriottismo di partito, di orgoglio di appartenenza; di distintivi all’occhiello. Oggi i vari partiti che compongono il cartello, sia a destra che a sinistra, non si sentono motivati. Così ci sono partiti, la Lega a destra e il M5S a sinistra, che battono la fiacca. A destra la Lega spesso non si riconosce nelle posizioni dei Fratelli d’Italia e di Forza Italia e non si sente motivata a portare voti leghisti ad una coalizione nella quale occupa una posizione piuttosto defilata. Così accade nel Campo del centrosinistra. I cattivi risultati del M5S parlano chiaro, il partito non si riconosce appieno in una coalizione in cui a tenere il vertice è un altro partito, in questo caso il Pd. Perché portare acqua ad un mulino che non è il proprio? Il vero problema della nostra democrazia è la scarsa considerazione che i cittadini hanno del voto, non più pepita d’oro, ma pagliuzza. Ciò è accaduto per la loro crescente marginalità politica. Quando le campagne elettorali si facevano sulle piazze e i politici si rivolgevano direttamente ai cittadini, nel corso dei comizi, gli elettori si sentivano parte importante della politica fin dalla partecipazione al raduno. Oggi è come se tutto si svolgesse in un altrove non credibile, lontano, estraneo, come sono ormai i dibattiti disordinati nelle varie televisioni. I vari talk show di politici e giornalisti hanno tolto la scena ai cittadini, i quali si sentono esclusi dalla competizione politica. Quando si arriva al voto essi si sentono inutili, come se tutto dipendesse da altri fattori e non già dal voto espresso da ciascuno nella cabina elettorale. I sondaggi, peraltro, concorrono a convincere gli elettori che i giochi ormai sono fatti e che è del tutto inutile votare. Occorrerebbe, a questo punto, un sistema di consultazione elettorale che restituisse centralità ai partiti e concreto protagonismo agli elettori. Fino a quando non si trova bisogna accontentarsi di quel che passa il convento, sperando che prima o poi l’elettorato recuperi entusiasmo e motivazioni per votare.

domenica 12 ottobre 2025

Israele-Palestina...alla prossima!

Storica è storica, la data del 9 ottobre 2025. Segna la pace tra Israele e Palestina dopo due anni e due giorni di guerra. Donald Trump è riuscito a domare Netanyahu e a farlo desistere da propositi che ormai perfino l’opinione pubblica mondiale riteneva inaccettabili. Le manifestazioni di questi ultimi tempi di protesta pro Palestina e contro Israele hanno risvegliato nel mondo un preoccupante spirito antisemita. Le cose che si son viste e sentite sulla guerra iniziata il 7 ottobre 2023 con la strage di 1200 israeliani e 251 ostaggi presi da parte palestinese ai danni degli israeliani e sulla reazione di questi con 67mila palestinesi morti e la distruzione di un’intera regione sono degne del proverbiale aggettivo biblico. In quella terra, santa o promessa come la si vuol chiamare, tutto quello che accade è biblico, enorme, ad un certo punto insopportabile. È accaduto anche questa volta che torto e ragione tra le due parti si sono intrecciati al punto che la ragione dell’uno si è trasformata in torto e viceversa. La tragedia di questi due popoli sta proprio nel fatto che hanno ragione e torto insieme. Di qui l’impossibilità di concludere con una pace convintamente accettata dai due contendenti. Tutto sarebbe più semplice se una delle due parti avesse ragione e l’altra torto. E invece si è svolto tutto secondo copione: alla fine a giganteggiare col suo colossale torto è stato Israele, che all’inizio era partito con la ragione a gonfiare le vele della sua giusta vendetta. Ma è veramente pace quella raggiunta negli accordi di Sharm El Sheikh? Se non fosse enorme pensarlo sembrerebbe una messa in scena per convincere la commissione del Premio Nobel riunita a Oslo per conferire il Premio a Donald Trump per i suoi meriti nel far cessare il fuoco a Gaza e nella restituzione degli ostaggi israeliani, morti e vivi. Quanto meno è legittimo nutrire qualche dubbio. Si fa fatica a pensare che sarà cancellata Hamas e ancor più la possibilità che si dia concretezza allo Stato di Palestina, che a questo punto non si sa più dove collocarlo. Si sa che Israele è contrario alla sua esistenza e che il territorio, la Cisgiordania, storicamente della Palestina, è di fatto occupato dai coloni israeliani, che difendono contro le loro stesse autorità. Al di là delle parole e degli intenti, a cui si può credere o meno, c’è la realtà che rende tutto più complicato. Ad un certo punto è apparso chiaro l’obiettivo di Netanyahu, cancellare ogni possibilità per i palestinesi di avere uno Stato. L’occasione per farla finita una volta per tutte era proprio questa guerra, nata per un indiscutibile torto subito col bliz palestinese del 7 ottobre 2023. Se non ora, quando? Deve aver pensato Netanyahu. Un obiettivo folle, perché un popolo non sparisce mai e quando i suoi rappresentanti altro non possono per farsi le proprie ragioni ricorrono al terrorismo, alla guerriglia urbana. Di esempi ne abbiamo visti tanti. Proprio i palestinesi si sono resi tristemente noti per i vari attentati compiuti sia in Israele sia in Europa, Italia compresa. Lo Stato di Palestina è perciò la condizione più importante per la sicurezza dello stesso Stato di Israele. Si tratta di trovare i confini precisi di questo Stato, anzi di questi due Stati, di giungere al reciproco riconoscimento, di accettare un modus vivendi che se non è proprio idilliaco quanto meno privo di pretese rivendicazionistiche. Ma il fatto stesso che si insista sul “due popoli due stati” dopo oltre ottanta anni di guerre dà il senso di quanto sia difficile sbrogliare la matassa. Il negato reciproco riconoscimento rende unico questo conflitto. Prima ancora di spartirsi qualche cosa, in questo caso il territorio, c’è che i due contendenti non si riconoscono, si escludono a vicenda. Prima era la Palestina a non voler riconoscere lo Stato di Israele, ora è anche lo Stato di Israele a non voler riconoscere uno Stato della Palestina, mentre la carta geografica politica interna del Paese è stravolta. La Cisgiordania, territorio palestinese, è oggi occupata da insediamenti di coloni israeliani; mentre l’altra parte di territorio palestinese, la Striscia di Gaza, è stata letteralmente svuotata dei suoi legittimi abitanti. Questo dà l’idea di quanto sia difficile ipotizzare una vera pace tra i due popoli e i due Stati. Se alla fine Netanyahu ha ceduto alla soluzione di Trump lo ha fatto per mettere provvisoria fine ad un processo di massacro, quasi di genocidio, che ha prodotto nel mondo un’ondata di sdegno e di antisemitismo pericoloso. Obiettivi ebrei da colpire sono in tutto il mondo e un popolo di disperati, come quello dei palestinesi, non ha bisogno d’altro per riprendere la sua guerra.

sabato 4 ottobre 2025

La Flotilla ha fatto putsch

Alla fine non c’è più niente da scoprire. I manifestanti Pro Pal, scatenati nel loro “blocchiamo tutto” in accompagnamento dell’avventura della Flotilla, hanno rivelato la loro vera finalità: “Meloni dimissioni”. Il governo deve cadere! Lo gridano nei loro slogan mentre sciamano per le vie cittadine di gran parte delle città italiane. Sarà pure che la Flotilla era globale, con quarantaquattro nazioni rappresentate, ma la nutrita componente italiana aveva scopi ben diversi dagli altri compagni di avventura. In nessun paese europeo si è verificato quanto sta accadendo in Italia. Mobilitazioni spontanee e massicce in ogni città, sciopero generale, scene da guerriglia urbana in tutto il Paese, attacchi dell’opposizione al governo, come mai in precedenza. All’indomani dell’ennesimo successo del centrodestra, questa volta nelle Marche, i suoi nemici hanno colto l’occasione di Gaza per tentare la spallata e mettere in crisi il governo. Desiderare non è reato, specialmente in politica, dove tutto si può chiedere e pretendere nella convinzione che è sempre troppo poco. Così si diceva nel ’68, anno che sembra avvicinarsi a salti tripli. Dove non arrivano col voto “lor signori”, i democratici!, cercano di arrivarci con la violenza, col disordine, col caos. Roba vecchia, saputa e risaputa. Che quella di Gaza fosse una scusa, ghiotta, lo si era capito da tempo. I flotillanti sono stati costretti ad ammetterlo dopo gli interventi del Presidente della Repubblica Mattarella e del Cardinale Pizzaballa, primate di Gerusalemme, che suggerivano come far recapitare gli aiuti ai palestinesi di Gaza senza forzare il blocco navale degli israeliani. Senza volerlo, i saggi consigli di questi due santi uomini hanno rotto le uova nel paniere dei flotillanti costringendoli a dichiarare le loro vere finalità politiche. Ah, perché – hanno detto – davvero quelli pensano che noi vogliamo portare gli aiuti ai palestinesi e poi tornarcene come se avessimo fatto una scampagnata? Il nostro ha un obiettivo politico con tutte le conseguenze che ne possono derivare. In Italia, soprattutto, paese che più di ogni altro al mondo ha adottato la bandiera della Palestina come la propria bandiera politica. I bambini che muoiono, la fame, il genocidio c’entrano, c’entrano; ma intanto servono alla causa italiana. Non è un caso che nella Flotilla c’erano quattro parlamentari dell’opposizione; di ogni componente, del Pd, del M5S e dell’Avs. Una presenza più che simbolica, qualificante, di appropriazione degli esiti quali fossero stati. E se nel mare operavano i nuovi ulissidi, sulla terra ferma operavano i loro omologhi. I parlamentari dell’opposizione continuavano a bersagliare il capo del governo, accusato di essere complice di genocidio, mentre Landini, segretario generale della Cgil minacciava lo sciopero generale. Il resto, i soliti a scatenare il terrore urbano. Tutto concertato. La tecnica è sempre la stessa: occupazione delle università, assalto alle stazioni, agli aeroporti, invasione delle piazze, sfascio di tutto ciò che capita. Pensano: il governo sarà costretto a mostrare il suo vero volto, quello repressivo. È o non è fascista questo governo? E allora la cosa è fatta! Se poi resta con le mani in mano, tanto peggio per lui, dimostra di non essere in grado di garantire l’ordine e la sicurezza e perderà la faccia nei confronti dei suoi sostenitori e del mondo. Il governo, invece, coi suoi ministri di competenza, Taiani e Crosetto, Esteri e Difesa, ha svolto un compito irreprensibile, tutelando i flotillanti nostri connazionali, col solo limite di non provocare incidenti diplomatici. Che più? Taiani è rimasto continuamente in contatto col suo omologo israeliano per avere informazioni e rassicurazioni. Crosetto ha inviato una nave della Marina Militare per quanti avessero voluto desistere ove la situazione fosse degenerata. L’impresa per certi aspetti, all’inizio, mostrava di essere suggestiva. Si trattava di forzare un blocco navale su barche in festa di bandiere e di sventolii. Gaza sembrava una specie di Fiume, la città conquistata nel 1919 dai legionari d’annunziani, tanto che anche tra i giovani di destra serpeggiava qualche simpatia. Si è risolta in un esito scontato. I flotillanti si sono pacificamente arresi ancor prima di entrare in acque territoriali controllate dagli israeliani, appena i militari della stella di David hanno loro intimato di alzare le mani e di lasciarsi arrestare. Il resto è grigio protocollo, burocratico iter, fino al ritorno di ognuno a casa sua sano e salvo, come volevasi che accadesse. O forse no! Resta in Italia tra i “palestinesi” la delusione per non essere accaduto nulla di importante che giustificasse l’assalto alla nazione, come già se ne vedono le imprese.

sabato 27 settembre 2025

Fascisti immaginati e sfascisti veri

Le manifestazioni del 22 settembre in 81 città italiane in favore della Palestina hanno provato, ancora una volta, che in Italia c’è il “partito” degli sfasciatori, che per esigenza di nominalismo dialettico chiamo sfascisti. A Milano specialmente, in centinaia, si sono scatenati con l’unico scopo di sfasciare, ovvero di distruggere, dando sfogo ad una sollecitazione interiore a vendicarsi di vere o presunte frustrazioni subite. Risultato, allo sfascio di oggetti, auto e vetrine, va aggiunto il tentato sfascio di sessanta agenti delle Forze dell’Ordine, tra poliziotti e carabinieri, finiti in ospedale. Deve essere proprio bello per soggetti simili abbandonarsi agli istinti primordiali e infantili di distruggere tutto in una sorta di rito orgiastico nel trionfo dell’irrazionalità! Si capirebbe – ma saremmo nella razionalità – se l’esito della manifestazione dipendesse dai danni prodotti. Più danni più successo. Il che non accade, il successo dipende dalla partecipazione pacifica del maggior numero di persone, obiettivo sicuramente ridotto perché c’è sempre chi non partecipa per non rischiare di trovarsi nel mezzo delle violenze. Questo “partito” non è solo. C’è il suo legale rappresentante in Parlamento, che è costituito da tutte le forze di sinistra, le quali se mai accadesse qualcosa di grave ad uno di quegli sfascisti, la morte per esempio, come accadde un po’ di anni fa a Genova, come minimo chiederebbero di intitolargli una piazza e di punire esemplarmente i responsabili della sua morte. Non c’è niente da fare. Qualsiasi manifestazione è buona per questi mestieranti dello sfascio per dimostrare che loro ci sono, a prescindere dalle ragioni e dalle finalità. Una volta, chi organizzava la manifestazione, fosse partito politico o sindacato, si preoccupava di affidare al servizio d’ordine il compito di impedire che si infiltrassero guastatori. In genere questo era formato da persone accorte e robuste che mettevano niente a prendere qualcuno e a sbatterlo fuori senza complimenti. Allora tutto o quasi si svolgeva nell’ordine. La manifestazione si poteva dire riuscita se nessuno si faceva male. Dal ’68 non è stato più così. Il governo ribadisce che non impedirà mai lo svolgimento delle manifestazioni anche quando dovessero degenerare in aggressioni violente, come poi regolarmente accade. La democrazia prima di tutto. Lo ha confermato il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi, al termine della giornata pro Pal del 22 ultimo scorso. Attenzione! Non siamo agli anni Sessanta e Settanta dell’altro secolo quando alle manifestazioni si andava con la P 38, con le catene e le spranghe di ferro, ma ci stiamo avvicinando. Per la Palestina è stata occupata a Roma la Facoltà di Lettere dell’Università, così a Bologna e in altre città. Altro sopruso, che passa con un rassegnato “ci sta”, come se occupare un luogo pubblico, impedendo ad altri di usufruirne, fosse lecito. A simile sfascismo è proibito reagire. Farlo significherebbe passare per fascisti e incappare nelle ganasce della giustizia costituzionale, che, come si sa, vieta di essere fascisti a salve e consente di essere fascisti a pallottole. Dobbiamo, allora, rassegnarci ad essere in balia di questa gente? Dobbiamo assistere inermi al progressivo attacco allo Stato? Non consideriamo che le Forze dell’Ordine sono lo Stato e che se colpite si colpisce lo Stato? Quando nelle piazze trionfa la violenza degli antagonisti a danno della popolazione e di chi la difende è la democrazia che si arrende. Tanti buoni cittadini – e in Italia sono la stragrande maggioranza – devono assistere senza poter fare niente alla degenerazione della democrazia e preoccuparsi perfino della propria incolumità. Se si consente la manifestazione a simili sfascisti, si priva altri della possibilità di esercitare democraticamente i propri diritti. Sono considerazioni di estrema semplicità, che dovrebbero fare i responsabili della tenuta democratica di questo Paese. Agli inizi del governo Meloni, tre anni fa, tra le tante contumelie dette dagli avversari c’era quella di fascismo, la più scontata; ma dopo tre anni nessuno è in grado di indicare un solo episodio di fascismo compiuto dalle forze governative. Per trovare qualche esempio gli avversari devono citare il busto di Mussolini di La Russa o la foto goliardica di qualche Fratello d’Italia vestito da nazista. I fascisti immaginati hanno dimostrato di sapersi comportare rispettando la Costituzione, mentre gli sfascisti veri alzano sempre il tiro e in nulla sono cambiati da quello che sono sempre stati: violenti e prevaricatori.

sabato 20 settembre 2025

La violenza nasce dal disprezzo e dall'odio

L’uccisione dell’influencer americano di estrema destra Charlie Kirk è stata occasione in Italia per risvegliare rancori non proprio sopiti. In questo ritorno si sono distinti personaggi importanti del mondo della politica e della cultura. La premier Giorgia Meloni, a cui, evidentemente, dovrebbe stare più a cuore l’unità del paese e la pace sociale, si è spinta ad accuse pesanti alla sinistra, che, con uomini come lo scrittore Saviano e il matematico Odifreddi, ha ravvivato lo scontro. Per fortuna finora si è rimasti allo sproposito delle parole. Il che dimostra che il Paese nella sua generalità è più saggio di chi lo rappresenta a livelli alti e altissimi. C’è una ragione, però, che rende il clima sempre foriero di “disgrazie” ed è per un verso il rancore nutrito dalla destra per essere stata emarginata ed esclusa per mezzo secolo dalla partecipazione piena alla politica, e per un altro dal rancore nutrito dalla sinistra, che non è riuscita ad elaborare il lutto della sconfitta del 2022 e dell’ascesa al governo di una destra considerata la storica erede del Msi e perciò del neofascismo, sopravvissuto alla catastrofe del regime nel 1943 e alla liberazione dal fascismo nel 1945. Destra e sinistra hanno componenti di rancorosità che si ravvivano ogni volta che se ne presenta l’occasione, ossia sempre. A destra per cinquant’anni, dal 1945 al 1994 (I governo Berlusconi col Msi al suo interno) i missini hanno vissuto una condizione che un raffinatissimo intellettuale come Piero Buscaroli definiva da sopravvissuti in territorio nemico. Essi, a parte la partecipazione alle elezioni e l’esigua rappresentanza politica ad ogni livello, erano esclusi da ogni effettiva partecipazione politica di governo e rischiavano lo scioglimento con l’accusa di aver rifondato il già disciolto partito fascista. Ci si era quasi convinti a destra di essere degli alieni, degli incapaci di amministrare la cosa pubblica, esclusi dai luoghi e dai fatti del potere che contano, in una sorta di apartheid. Era inconcepibile che si potesse fare una coalizione col Msi. I missini, a parte l’esperienza siciliana del milazzismo, erano nel panorama politico italiano una presenza-assenza, che per un verso completava la democrazia, per un altro la limitava alle forze cosiddette democratiche e antifasciste, di cui il Msi non faceva parte. I giovani missini non potevano avere nessuna speranza di poter diventare un giorno sindaci e assessori del proprio paese, mentre vedevano i loro coetanei che, per militare in altri partiti, raggiungevano qualsiasi meta, in politica e in carriera. Vivere per molti anni in condizioni “dimezzate” significa accumulare dentro tanto di quel rancore che all’occasione esplode in comportamenti anche violenti, se non fisicamente di certo moralmente. È quanto vediamo in alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, che rispondono con iattanza alle accuse e alle insolenze di quelli di sinistra, già rancorosi e avvelenati dall’aver visto assurgere al governo del Paese, delle regioni, delle città e dei comuni quelli che, secondo loro, non avrebbero mai potuto. Questo brodo di rancori è così forte che i protagonisti neppure si accorgono della violenza che producono coi loro comportamenti. Ci sono reti televisive, a destra come a sinistra, che non fanno che propaganda politica a senso unico a guisa degli organi di partito di una volta. Va’ a far capire ad una Lilli Gruber di essere una propagandista antigovernativa! E lo stesso a Giovanni Flores e a Corrado Formigli! E questo vale per gli opposti Paolo Del Debbio e sodali di reti che sono megafoni dei partiti di maggioranza. Non diversamente i giornali cartacei, tutti regolarmente schierati e tutti regolarmente neganti di esserlo. La “violenza” che queste fonti producono contribuisce a tenere sempre teso il rapporto. I politici non sono da meno, parlano sempre per metafore offensive, vagamente spiritose, disprezzano l’avversario, cercano di ridicolizzarlo, offendono, a volte diffamano. I cittadini si indispettiscono, quelli di destra per i continui attacchi che ricevono da politici e giornalisti di sinistra; quelli di sinistra, di rimando, mal tollerano i politici di destra, considerati inadeguati e arroganti impostori. L’aver evocato in Italia da parte della destra, dopo l’assassinio di Kirk, atmosfere da anni di piombo non è stato un esempio di prudenza, ma la reazione della sinistra con dei distinguo inaccettabili è stata la risposta che non doveva esserci. Uccidere una persona per le sue idee politiche o per i suoi compiti istituzionali è da condannare, punto e basta. Voler mettere in discussione un simile assioma è violenza, che genera a sua volta altra violenza.

sabato 13 settembre 2025

Astensionisti, arrendetevi e votate!

Quando sui giornali vedo qualche lettera al direttore mi soffermo sempre, perché la voce dei cittadini va sempre ascoltata, contiene un po’ di quel che ognuno di noi pensa. Tra le più frequenti vi sono le lettere che spiegano perché non è più il caso di andare a votare. Per lo più gli astensionisti insistono sul fatto che oggi gli uomini che ci devono rappresentare, non li scelgono gli elettori ma i segretari dei partiti. Perciò – concludono – è mancanza di rispetto sottoporre alla volontà degli elettori ciò che è stato già deciso altrove. Molti si dicono certi che se si ritornasse alle preferenze tornerebbero a votare e con entusiasmo, perché i cittadini, secondo loro, sanno scegliere meglio gli uomini a cui affidare l’esercizio delle cose pubbliche. Gli astensionisti hanno ragione su un punto, hanno torto su molti altri. Hanno ragione quando dicono che è una presa in giro chiamare i cittadini a decidere ciò che è stato già deciso; è una messinscena che riduce la democrazia ad una sorta di liturgia, peraltro costosa. Hanno torto quando dicono che i cittadini sanno scegliere meglio delle segreterie di partito. Essi dimenticano che molti candidati, in modalità voto di preferenza, in passato compravano i voti, alimentando le mafie che in certe località del Sud gestiscono mano e mente di migliaia e migliaia di elettori. Gli astensionisti, in genere, sanno poco dei candidati, sanno quello che filtra dalla propaganda; i partiti, invece, conoscono vita, morte e miracoli dei loro rappresentanti. Alcuni candidati – è arcinoto – i voti li “comprano” anche oggi perché le elezioni restano pur sempre delle gare e il tentativo di barare in politica è sempre a portata di mano. Li chiamano voti di scambio: do ut des. Ma c’è un punto che gli astensionisti dimostrano di non voler capire. Il voto è una grande conquista. È superfluo elencare tutti i sacrifici fatti nella storia per giungere a possedere questo strumento, che è così importante che il solo pensare di abolirlo crea sconcerto. Quelli che si astengono banalizzano il voto e senza rendersi conto delegano gli altri cittadini a rappresentarli nella scelta. Chi si tira fuori dal voto finirà sempre per essere rappresentato. A stabilire da chi non è il Padreterno ma altri uomini, normalissimi elettori; i quali se non fossero andati a votare, sia pure nella finzione liturgica, non avrebbero reso possibile elezione alcuna. Immaginate che arretratezza se ci fossero per legge persone con diritto di voto ed altre senza; sarebbe un precipitare di millenni indietro nella storia. Chi si astiene dal voto si priva da sé di un diritto, è un suicida politico. Quanto al voto di preferenza, occorre ricordare che c’è anche oggi, sia pure limitato a taluni candidati ritenuti per collocazione nella lista tra i papabili. Va da sé che gli elettori si trovano di fronte ad una lista già redatta e approvata, non possono votare uno che non è incluso in essa. Gli elettori, che lamentano le liste già preparate e i candidati da eleggere già “eletti”, non tengono conto che in una democrazia ordinata è necessario proporre una lista di candidati chiusa, che non può esistere una competizione elettorale aperta a ogni cittadino, indipendentemente se incluso o meno nella lista. Non è il voto di preferenza l’alternativa all’attuale sistema ma la possibilità di scegliere un cittadino qualsiasi per la gestione della cosa pubblica. Il che non può accadere. Il voto è in primis scelta di partito o di lista e poi scelta di persone inserite nella lista. Gli astensionisti, che in Italia raggiungono quasi il cinquanta per cento, si privano di un diritto senza avere in cambio nulla, senza nessuna contropartita; demandano ad altri di rappresentarli e si compiacciono della loro drittezza. A me non la fanno – dicono – io è da anni che non voto più. Ma il danno che producono al sistema è relativo, per cui non possono neppure compiacersi della loro scelta. Se nei sondaggi fosse possibile conoscere gli orientamenti politici anche degli astensionisti ci sarebbe da credere che non sarebbero diversi da quelli che si esprimono per chi votare. Chi non vota non danneggia una parte politica a favore di un’altra, in buona sostanza lascia tutto inalterato. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che astenersi non conta nulla e che il voto è l’essenza della democrazia. Chi si ostina ad astenersi dovrebbe convincersi che votare è sempre importante, perché significa partecipare a scelte che riguardano tutti, presenzialisti e astensionisti del voto. Essi, peraltro, sono responsabili di chi per età ancora non vota. È una questione di educazione civica, non di calcolo. Se pure l’incidenza fosse irrilevante si potrebbe sempre essere paghi di aver dato un contributo di civiltà. Che in democrazia, di questi tempi, non è poco.

domenica 7 settembre 2025

Ucraina, volenterosi e non

Volenteroso o volontaroso è chi è di buona volontà, diligente, desideroso. Dunque l’accezione è positiva, ma nello stesso tempo fa pensare a qualcosa di limitato, come a uno che vorrebbe ma non può perché non ha i mezzi. Ad uno studente bravo non si dice che è volenteroso, stante la bravura una condizione che va oltre la volontà e la comprende. In politica ha la stessa accezione. I volenterosi in genere conducono battaglie perse. Così in Italia furono detti quelli che volevano salvare il governo Conte dopo la crisi pandemica. Essi non avevano né le politiche né i numeri per farlo, avevano però la volontà. Il loro ragionamento era, prescindendo da tutto, trovare i voti sufficienti in Parlamento per approvare un Conte-ter. Come è noto, non riuscirono, perché in politica i volenterosi fanno pensare ai profeti disarmati di cui parlava Machiavelli, destinati a “rovinare”, cioè ad essere inevitabilmente sconfitti. Con lo stesso termine, Volenterosi, sono oggi chiamati i capi di stato o di governo europei, che, rimasti orfani dell’America trumpiana, per difendere la causa ucraina ricorrono alla volontà, non bastando evidentemente i loro soldi e le loro armi. In genere chi può fa, chi non può è volenteroso; vorrebbe fare. L’idea dei volenterosi è venuta al francese Macron e all’inglese Starmer, estesa poi ad altri, Meloni compresa, in Europa e fuori nello schieramento occidentale come Canada e Australia. Il progetto consiste nel garantire all’Ucraina una serie di tutele, dal foraggiamento militare, all’applicazione dell’art. 5 della Nato nell’ipotesi che venisse nuovamente attaccata dopo la fine della guerra, all’invio di truppe anglo-francesi in territorio ucraino a garanzia degli accordi raggiunti. Si ipotizzano cioè situazioni che al momento sono ben lontane dall’essere. Putin, infatti, di cessare il fuoco non ne vuol sapere e il ripetuto invito a Zelensky di incontrarsi a Mosca ha tutta l’aria di ribadire che le cose si decidono nella casa madre e che l’Ucraina è in fondo la figlia ribelle da ricondurre all’obbedienza, da riportare a casa. Accogliere l’invito di Putin per Zelensky sarebbe come riconoscersi sottomesso ad una volontà superiore; e difatti ha già risposto picche. Di fatto il Presidente ucraino si muove come un membro dell’Europa e della Nato senza farne parte, né dell’una né dell’altra: un ospite di riguardo, ma anche di fastidio. Intanto dall’altra parte del mondo si è ricompattato l’asse Russia-Cina con l’India e la Corea del Nord. Cosa curiosa e preoccupante è che anche la Turchia, che fa parte della Nato, era a Pechino per partecipare ai festeggiamenti per gli 80 anni dalla liberazione della Cina dai giapponesi. Lì, altro che volenterosi! Stanno cogliendo l’occasione della crisi dei rapporti dell’America trumpiana con l’Europa e la Nato per ostentare forza e per proporsi come padroni dei destini del mondo. Una situazione non incoraggiante per noi europei, che ci ritroviamo con una guerra alle porte e con la crisi delle vecchie alleanze, con zero prospettive che dipendano da noi. Volenterosi noi europei lo siamo per condizione, non essendo capaci di incidere in qualche modo con chiarezza e risolutezza. Abbiamo una visione molto chiara della situazione ma non abbiamo i mezzi per gestirla. Sappiamo che con la Russia non possiamo cedere, perché è chiaro a tutti che essa ha in progetto di riportare tutti i territori una volta dell’Unione Sovietica sotto il dominio di Mosca. L’allargamento dell’Europa, fino comprendere alcuni stati che sono stati in passato nell’Unione Sovietica, ci obbliga ad intervenire direttamente ove uno o più di essi venissero attaccati. Cedere oggi con l’Ucraina significa aspettarsi altre aggressioni. L’Europa non può accettare che si cambi la sua carta geografica con la forza delle armi. Questo lo ha detto e ripetuto. Ma finché l’America non tornerà ad essere l’”America” che abbiamo sempre conosciuto, da più di un secolo a questa parte, siamo come immobilizzati, incapaci di affrontare il nemico russo in maniera decisa e sperabilmente risolutoria. Possiamo solo prendere qualche iniziativa ai margini del campo in cui si muovono le grandi potenze mondiali. L’iniziativa dei volenterosi, che oggi conta sulla disponibilità di ventisei paesi a sostegno dell’Ucraina, segna la strada da seguire ma esprime anche l’incertezza del modo più efficace per percorrerla. Fino ad oggi si è parlato di cose da fare nelle ipotesi di un cessate il fuoco che in questo momento è ancora lontano dal verificarsi. La guerra in Ucraina continua mentre i Volenterosi pensano al dopo e Putin non sembra avere né fretta né volontà di finirla.

sabato 30 agosto 2025

Trump, quel che non t'aspetti

Viviamo tempi incredibili, inimmaginabili, grotteschi. Chi mai poteva pensare che alla presidenza dello Stato più forte del mondo arrivasse uno come Donald Trump, perfino peggiorato rispetto al suo primo mandato? Abituati a pensare all’America come alla grande sorella dell’Europa, quella più fortunata e più potente della famiglia, garanzia di sicurezza e di ordine mondiali, che ci aveva tirati fuori per ben due volte dai nostri pasticci europei, non ci raccapezziamo in balia di un soggetto, il suo presidente, che parla e agisce come un boss creato dalla penna di Mario Puzo, come “Il padrino” di Franzis Ford Coppola. Le sue prime dichiarazioni furono su eventuali annessioni di Groenlandia, Canada e Canale di Panama, facendo un po’ irritare e un po’ ridere il mondo. Ma è bastato poco perché tutti nel mondo ne accettassero le mattane e tutti stessero al gioco. È pur il Presidente degli Stati Uniti d’America! L’assurdo è diventato normale. L’incontro dei sette europei alla Casa Bianca il 18 di agosto aveva tutta l’aria di una sceneggiata di nessuna credibilità, perfino offensiva per certi aspetti. I sette sembravano rendersene conto e tuttavia come tanti scolaretti si compiacevano di ricevere il giudizio positivo dal maestro in cattedra dopo aver ciascuno recitato la sua particina. E lui, il maestro, a dispensare pagelline a tutti, perfino al francese Macron che ogni tanto maltratta con apprezzamenti a dir poco disdicevoli. Ma non erano lì gli europei per sapere che cosa il Presidente americano si era detto con Putin in Alaska qualche giorno prima? Non si doveva parlare di una sorta di road map per arrivare alla pace? Non doveva essere l’inizio di un cessate il fuoco? Niente di tutto questo. L’incontro in Alaska si è rivelato una presa in giro senza precedenti. Che cosa si siano veramente detti i due leader mondiali per tre ore non lo sapremo mai. Dalle dichiarazioni seguite si poteva ritenere cosa fatta un incontro bilaterale Zelensky-Putin, cui sarebbe seguito breviter un trilaterale. Si trattava di stabilire la sede e il giorno. Circolavano ipotesi: Roma, Vaticano, Istanbul, Ginevra. Non c’è stato niente di tutto questo, anzi a quanto ha poi riferito il ministro degli esteri russo Lavrov in Alaska non si era parlato affatto del bilaterale “fantasma” tra Zelensky e Putin. La verità è che Putin non vuole vedere Zelensky né oggi né mai. Non lo riconosce come suo interlocutore. Finché l’ucraino resta in carica la guerra continuerà sempre più intensa. Putin mira alla sua liquidazione e solo quando non ci sarà più e al suo posto ci sarà uno a lui gradito allora sarà disposto a mettere fine alla guerra. La beffa è che Trump in Alaska, a quanto si può dedurre, più che prendere le parti dell’ucraino, in sintonia con tutto l’Occidente, ha rassicurato Putin sulla sua amicizia, come se fosse il russo la vittima. Le strette di mano tra i due, seguite da rassicuranti gesti di amicizia, con la mano sinistra di Trump a poggiarsi più volte sulle mani strette a rinsaldarle, dimostravano una scelta di fedeltà, quasi di protezione. Come a dire: coraggio, ci penso io. Un rovesciamento delle parti che avrebbe del ridicolo se non fosse tragedia piena. Trump, infatti, ha ripreso ad insultare Zelensky perché si rifiuta di cedere alle pretese di Putin senza se e senza ma. È irritato con l’ucraino perché la sua tenacia a difendere il suo paese rischia di rovinargli i buoni rapporti con Putin. Dice che lui non sta né con una parte né con l’altra, ma di fatto ammicca a Putin. Minaccia di non dare più soldi né armi all’Ucraina. Nei confronti dell’Europa e della Nato non fa che prendere le distanze. Mai visto un uomo politico di tale importanza comportarsi in maniera contraddittoria, capricciosa, del tutto fuori dai più consolidati canoni della politica e della diplomazia. L’uomo che doveva riportare la pace in Ucraina in ventiquattr’ore dà in escandescenze al solo pensiero di dover rinunciare al suo messianismo. La sua inadeguatezza diventa ogni giorno di più intollerabile. La vicenda dei dazi, che pure poteva avere una sua ragion d’essere, nella sua gestione è diventata occasione per esercitare un autentico bullismo nei confronti di amici e alleati storici, da lui considerati parassiti e imbroglioni. Essi per ora hanno scelto in parte di assecondarlo e in parte di ignorarlo, scegliendo l’attesa che noi italiani conosciamo molto bene: ‘a da passà ‘a nuttata. Bisogna vedere quali danni avrà prodotto la politica di questo energumeno al termine del suo mandato facendo scongiuri che non venga riproposto un’altra volta. Sarebbe per l’Europa e il mondo una iattura.

domenica 24 agosto 2025

Pippo Baudo, un uomo per sempre

Pippo Baudo non ha mai servito tanto la sterminata gente che gli era affezionata come nella circostanza della sua morte, con quel che ne è seguito. Per il pubblico era già “morto” prima che morisse davvero, nel senso che di lui non si parlava da tempo, negletto nella sua discreta sofferta vecchiaia. Sic transit…anche per lui. Ma la sorpresa è stata grande lo stesso. È come se all’improvviso fosse resuscitato per ricordare al suo pubblico che mancava ancora l’ultimo atto della sua commedia umana, i giorni in cui sarebbe stato ancor più vivo. La sua pasqua, una sorta di festival, per stare al lessico consueto del Pippo nazionale. Generosissimo, ha “scelto” di morire in piena estate per fornire alla sua Rai, stagionalmente in crisi di contenuti, materiale per riempire gli spazi altrimenti ripetitivi e noiosi dei Teche Teche Te’. Per annunciare la sua morte si sospese la trasmissione “Evviva” condotta da Gianni Morandi su RaiUno, un incontro del tutto fortuito, ma come fatale. Fosse morto a dicembre, se ne sarebbe parlato per un paio di giorni al massimo e in spazi assai più limitati. Che più dalla sua fedeltà alla televisione di Stato, a cui era debitore e creditore insieme? La televisione per questo lo ha deificato. Tutta la sua corte – cantanti attori comici coreografi ballerini presentatori conduttori musicisti autori giornalisti – ha sprecato elogi e definizioni come mai si era sentito in Italia per un uomo, che ha avuto il grande pregio di interpretare la più corretta e inappuntabile italica medietà. Il Vescovo di Caltagirone nella sua omelia ha detto che ora è “una stella che brilla nel cielo”. Altri hanno sprecato attributi per glorificarlo, giungendo a dire che con la sua morte finiva una fase importante della storia d’Italia. Altri hanno insistito sul re del sabato sera. Qualcuno ha proposto che gli venisse intitolato il Teatro delle Vittorie. Fiorello, che evidentemente non sa più distinguere la realtà dalla sua rappresentazione, ha proposto di sostituire il cavallo dello scultore Messina, simbolo della Rai, con una statua di Pippo. È mancato solo che qualcuno suggerisse il Pantheon per la sua tumulazione. In fondo un re, lo è stato. Si è detto anche che per anni è stato lui il vero segretario nazionale della Democrazia cristiana. Iperboli, che fanno perdere il senso del reale, pur importante; la sua vera dimensione. Pippo Baudo non può uscire dalla sua collocazione di uomo di spettacolo e di costume. Quello era. In quell’ambito è stato insuperabile. Neppure i suoi colleghi storici, coi quali pure viene proposto in foto iconiche, Mike Bongiorno, Corrado ed Enzo Tortora, possono reggere il confronto. Pippo Baudo è stato di più, è andato oltre, ma mai allontanandosi da quel che forse lui stesso perseguiva, la medietas, l’uomo del giusto mezzo, l’interprete dell’italiano tipo. Il suo eloquio era di una semplicità e scorrevolezza uniche, mai una sbavatura, né in senso colto né in caduta di stile. Mai una citazione, ma mai un lapsus, un errore. Una grande prontezza di fronte all’imprevisto ne caratterizzava la capacità di andare oltre l’incidente, come dimostrano i casi di contestazione nel corso di alcuni suoi Sanremo; li superava e andava oltre, all’insegna dello spettacolo che deve continuare. La sua disinvoltura nel superare le situazioni più diverse e imbarazzanti resta insuperabile, dal bacio con l’attrice americana Sharon Stone a quello con la nostra Luciana Littizzetto, alle volgarità di Fiorello e Benigni. Lui se ne usciva sempre più personaggio. Ma anche l’esagerazione, se vogliamo, è appropriata alla circostanza. Personaggio nazional-popolare, non poteva sottrarsi a quel gusto tipicamente popolare per le iperboli che lo hanno avvolto in occasione della morte. La televisione di Pippo Baudo era fatta per quel particolare tipo di popolo che non si allontana dalla consapevolezza identitaria e si riconosce anche con fierezza nella nazione, nelle sue tradizioni, perfino nei più frusti luoghi comuni che la accompagnano da sempre. Per questo faceva storcere il naso ai colti, agli intellettuali, adusi a raffinatezze ideologiche e dotte. Il suo non era un livello raggiunto, iniziando dal basso; né un curvarsi in avanti per adeguarsi, ma la spontanea posizione di chi non è che se stesso nella sua immediatezza. Aveva fiuto nello scoprire talenti. E aveva ragione a dire “questo l’ho scoperto io”, riferendosi ai tanti uomini e donne di spettacolo da lui lanciati e fatti affermare, ma ancor più ragione avrebbe avuto di dire: eccomi, io sono quello che si è scoperto da sé. Neppure Padre Pio, da lui interpellato, ci aveva creduto.

sabato 23 agosto 2025

Ucraina, soluzione sempre più lontana

Da una parte la Russia, che dell’Ucraina vuole perfino l’anima (lingua e religione), dall’altra l’Ucraina che alla Russia non vuole cedere neppure le frange territoriali che in genere ai confini sono sempre contese. In mezzo il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, che non capisce niente né di Ucraina né di Russia, che non conosce neppure la storia dell’Europa e definisce «stupida» la guerra tra i due paesi. L’Europa, che dovrebbe occupare una posizione centrale, è di lato e parla quando è …interrogata. A sottolineare quanto conti poco in questa crisi. Per certi aspetti Trump ricorda un altro Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, che, alla fine della Grande Guerra, 1918, s’illuse, dettando i famosi 14 punti, di risolvere le varie controversie tra gli stati, con l’autodeterminazione dei popoli, in base alla quale tutte le città e le regioni contese dovevano decidere liberamente da sé con chi stare. Così venivano a cadere molti dei motivi della guerra. Neppure Wilson, nell’occasione, dimostrò di capire l’anima degli europei. La guerra russo-ucraina non può essere staccata da un disegno che è nella testa di Putin e che molto probabilmente consiste nel “recuperare” alla Russia tutti i paesi che avevano fatto parte dell’Urss e della cintura dell’Europa orientale, dalle repubbliche baltiche alla Romania, attraverso la Polonia, l’ex Cecoslovacchia e l’Ungheria, i paesi cioè del Patto di Varsavia. Pensare, come pensa Trump, che la guerra è scoppiata per futili motivi per imperizia del suo predecessore Biden, significa non volersi neppure sforzare di capire. Ci fossi stato io alla presidenza americana la guerra non avrebbe avuto mai inizio, ha ripetuto più volte Trump, volendo dare l’impressione di essere convinto di quel che diceva. Le cose, evidentemente, non stanno come pensa lui. La Russia si annesse la Crimea nel 2014. Si capì allora che non si trattava solo di Crimea, per la quale Putin poteva tirar fuori ragioni perfino plausibili, ma di un disegno più ampio. Si è detto più volte che alla base dell’aggressione russa all’Ucraina c’era la sua sempre più stretta vicinanza con l’Europa e la Nato. Troppo si era avvicinata la Nato alle porte della Russia. Ma che cosa poteva fare l’Ucraina, privata della Crimea e minacciata dalla Russia, se non contare sull’Europa e la Nato? Il carattere difensivo dell’Ucraina appariva chiaro, era un cercar di scoraggiare la Russia da successive aggressioni. Cosa, questa, che purtroppo non è accaduta. Putin ha trasformato il carattere difensivo dell’Ucraina in carattere offensivo, quasi una minaccia alla sicurezza della Russia stessa. Un pretesto, che ha trovato credito anche in Europa. Troppo la Nato si era avvicinata ad abbaiare alle porte della Russia, disse Papa Francesco, con quel suo linguaggio semplice ma fortemente evocativo. L’Europa emarginata tuttavia non demorde dalle sue posizioni. Il principio è inviolabile: non si cambiano i confini degli stati con le guerre. La Russia deve lasciare i territori dell’Ucraina e convincersi di poter avere solo rapporti di buon vicinato. Nessuno la minaccia. È ridicolo pensare che i paesi europei dell’ovest e dell’est abbiano in mente di aggredire la Russia. Non si vedono i motivi, gli interessi. Una simile preoccupazione è senza fondamento. La Russia deve convincersi che la storia si è lasciato indietro un tempo non replicabile neppure per parodia. L’incontro in Alaska del 15 agosto fra Trump e Putin ha mostrato, al di là di ciò che veramente è stato detto nelle tre ore di colloquio, che dal punto di vista politico c’era da una parte un Putin che appariva perfino beffardo nella sua sicurezza di politico navigato e dall’altra un Trump che dava l’impressione di non avere ancora capito qual era la posta in palio della partita. La guerra in Ucraina ha difatto innescato tutti i casi bellici successivi, compresi Iran e Israele, e potrebbe aprire a nuovi sconvolgimenti. Che cosa in verità si siano detti Putin e Trump in Alaska lo sanno solamente loro; ma non si è molto lontani dal pensare alle pretese americane sulla Groenlandia e sul canale di Panama. Tutto può accadere quando si dà il via ad un processo di illegalità, quel che segue è imprevedibile. L’incontro alla Casa Bianca del 18 luglio tra Trump, Zelenski e alcuni leader europei, tra i quali Giorgia Meloni, con la telefonata di Trump a Putin, ha spettacolarizzato la situazione ma non offerto nessun concreto spunto per giungere ad una soluzione. Da una parte c’è chi continua a volere tutto, dall’altra chi continua a non voler cedere nulla; da una parte chi si rifiuta perfino di sospendere il fuoco, dall’altra non ben precisati garanti dell’Ucraina. Non c’è che attendere.

sabato 16 agosto 2025

Con la morte sul collo

È proprio vero, la morte ciascuno di noi ce l’ha sul collo; e quando meno ce l’aspettiamo ecco che ci rovina addosso con tutta la sua fatalità. Una povera cristiana scende dal tram per avviarsi verso casa e viene travolta e uccisa da un’auto a bordo della quale ci sono quattro ragazzini. Il più grande, che la guida, ha tredici anni e ha la prontezza di dire che non gli sono funzionati i freni. Sono tutti dei rom al di sotto dei quattordici anni, per la legge italiana non sono imputabili. Dunque, per quella povera cristiana è come se gli fosse caduto addosso la scheggia di un meteorite. Loro, i ragazzini, non sono imputabili! E i loro genitori? Le loro famiglie? Le autorità cittadine che comunque nulla hanno fatto nei tempi precedenti per evitare la tragedia, ritenendo presumibile che questa gente era lì accampata da tempo? Niente, i ragazzini non sono imputabili e buonanotte al secchio. Ci sono solo dei piccoli adempimenti da fare per il loro affidamento a qualche struttura. Poi, più niente. Quando la società si dimostra così impotente vuol dire che si è in presenza di un dissesto ideologico grave. Se ne prende atto e basta. Ma è proprio così? Il Ministro Salvini si è permesso di sollevare la questione rom ed è stato subito zittito dal sindaco della città, che nei confronti di questa gente evidentemente ha un rapporto di buona vicinanza, direi di generosa tolleranza. Il problema, che tale non è per tutti, si pone ogni volta che accade una disgrazia, un incidente, una questione. Si parla per qualche giorno, poi si tace fino a nuova disgrazia. Come se tutto fosse fatale, inevitabile. A chi càpita, càpita. Un disgraziato, più disgraziato di altri c’è sempre. Ma è di tutta evidenza che se nulla si poteva fare nell’immediato per evitare la disgrazia di quella donna, tanto, tantissimo si sarebbe potuto fare prima. Quei quattro ragazzini, le loro mamme, i loro papà non dovevano stare lì ad abitare sub divo come animali in un bosco. E infatti che fanno quei ragazzini, lasciati liberi di muoversi a piacimento? Quello che gli càpita. Rubano una macchina. Mica il borsello lasciato incustodito da una signora distratta! La mettono in moto e iniziano a scorrazzare per la città fino a quando non perdono il controllo del mezzo e…si salvi chi può! Perché, se è vero che i ragazzini non sono imputabili, l’età per capire come si ruba una macchina, si mette in moto e via, altro che se lo sanno! La delinquenza minorile ormai è da anni che ha abbassato la soglia. Sempre più ragazzini aggrediscono persone anziane e indifese nei parchi pubblici, per strada; si affrontano in bande, compiono gesta vandaliche ai danni di cose pubbliche e private. Fanno quello che prima facevano i ragazzi di quindici e sedici anni. Ma la soglia dell’imputabilità è rimasta sempre quella dei quattordici anni. Segno di umanità e di civiltà giuridica. Se no, che altro? Qualche anno fa sempre il Ministro Salvini si fece riprendere a bordo di una pala meccanica mentre smuoveva tende e accampamenti rom. A che cosa è servito se non a fare propaganda elettorale? Dove amministra la destra accadono esattamente le stesse cose di dove amministra la sinistra. Le leggi son…come diceva Dante. Non è questione di destra o di sinistra, ma di “italianità”, di modo di intendere i problemi e di non risolverli. Spesso mi chiedo come mai in una qualsiasi località della Svizzera, dove mi è capitato di vivere per qualche anno, cose del genere non potrebbero mai accadere. Lì, in Svizzera, se ti fermi con un camper per più di un quarto d’ora in un punto qualsiasi del territorio sei raggiunto dalla polizia, che controlla e prende i provvedimenti del caso. Campi nomadi, raggruppamenti rom in quel paese fuori controllo non se ne potrebbero mai verificare. Gruppi di ragazzini che sciamano per strada, nemmeno a immaginarseli! Perché in Italia non è possibile quel che è possibilissimo in Svizzera? Sono forse gli svizzeri degli odiosi disumani? Amano vivere nella dittatura più ferrea? No, semplicemente in ogni cittadino svizzero c’è un poliziotto che interviene puntualmente all’interno e all’esterno di sé perché la legge non venga infranta, disattesa, ignorata. In Svizzera il cittadino ha sempre la mano destra pronta a colpire la mano sinistra se questa non dovesse comportarsi a modo. Altro che non sappia la mano destra quel che fa la sinistra! In Italia siamo nelle mani di Dio con quel che significa l’espressione, ovvero del caso, della fortuna. L’episodio triste di quella povera cristiana, morta senza sapere perché, fa riflettere sulla impossibilità, tutta italiana, di coniugare l’ordine con la libertà.

sabato 9 agosto 2025

Più amor di patria, via!

Presto i nostri bambini vedranno nei teatrini dei parchi pubblici giudici e politici che si randellano a vicenda come paladini e saraceni. Sono diventati maschere fisse dello spettacolo pubblico. Colpa bipartisan. In Italia la giustizia fa sempre politica: le cose sono come le percepisci. Il caso Almasri torna impetuoso alla ribalta. Con le solite ricadute giustizialpolitiche. Da una parte i giudici, che fanno finta di non sapere che coi loro atti la politica la fanno, eccome!, dall’altra i politici, che trovano nelle loro riforme sgradite ai giudici la ragione dei loro attacchi. La vicenda del generale libico, che se ne andava in giro per l’Europa ad assistere alle partite di calcio delle squadre più rinomate, è nota. Dall’Italia all’Inghilterra, dall’Inghilterra al Belgio, dal Belgio in Germania, dalla Germania in Italia; più volte fermato e rilasciato. Ma quando fu in Italia, la Corte Penale Internazionale dell’Aja emise contro di lui un mandato di cattura per reati gravissimi. Non prima, si badi bene, ma in Italia, a Torino! Il ricercato, che ha il suo spazio di operatività sulle coste libiche coi migranti, è un pericoloso soggetto, con un suo personale seguito. Lo vedemmo appena sceso dall’aereo che lo aveva riportato in Libia essere accolto con giubilo dai suoi fedeli. Conveniva impacchettarlo e portarlo via, nella sua terra, a prescindere se ci fossero o meno dei ricatti libici. Consegnarlo all’Aja significava esporre i nostri connazionali che si trovano in Libia per lavoro a gravi ritorsioni. C’è poco da fare con questa gente. Opera fuori da ogni legalità. Lo sanno i giudici italiani. Lo sanno i politici italiani dell’opposizione, che chissà cosa avrebbero pagato per vedere il governo italiano ricattato da bande di delinquenti libici sequestratori di nostri connazionali! Sia chiaro! È cosa vecchia da noi, pur di mettere in difficoltà l’avversario non ci si fa scrupolo di niente, figurarsi della …patria. Fece bene il governo italiano a riportarlo in Libia senza tanti indugi? A ragionare col buon senso, sì: non poteva fare altro. Ma, a cavillare in termini giuridici e a speculare in termini politici, no: andava consegnato ai giudici della Corte Penale Internazionale. Poi per il nostro governo sarebbero state cose amare. E questo avrebbe fatto brindare al successo giudici e politici di opposizione. Il cinismo regna in politica in ogni riposto. È inutile essere ipocriti e negarlo. C’è del marcio nell’affare Almasri, comunque lo si voglia vedere. Primo, perché la Corte Penale dell’Aja non emise prima il mandato di cattura? Secondo, perché più volte fermato in Inghilterra e sul continente, Almasri non fu trattenuto in attesa delle disposizioni della Corte Penale? È di tutta evidenza che il caso ebbe un inizio e un percorso peggio che dire alla buona. Ognuno cercò di liberarsi del soggetto come di qualcosa di tossico. E doveva essere proprio l’Italia a consegnare alla Corte Penale il ricercato per una caterva di reati, uno peggio dell’altro? Già, ci doveva essere un fesso col cerino in mano. Ora, bene ha fatto la Meloni ad assumersi le responsabilità di quanto operato dai suoi ministri nel caso Almasri, un’occasione d’oro per infliggere al “Conte qualsiasi” un colpo di quelli che lasciano tramortiti e a tutta la compagnia cantante. Finirà che il Parlamento rifiuterà l’autorizzazione a procedere contro i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano e le opposizioni probabilmente ricorreranno alla Corte Penale per denunciare il comportamento del governo. Ma qui ci si dimentica della gente, che è poi ciò che conta di più, nei sondaggi e nei voti. Che cosa pensa della vicenda? Sta col governo o coi giudici; col governo o coi suoi oppositori? La gente ha capito perfettamente la posta in gioco, anche perché nessuno la nasconde. La gente sta dalla parte di chi ha agito per il bene degli italiani. Se avessimo consegnato il generale libico alla Corte Penale dell’Aja avremmo avuto sicuramente dei problemi piuttosto importanti coi libici; avremmo esposto i nostri concittadini a rappresaglie e ritorsioni. In passato i nostri governi non si sono comportati diversamente. Se pure, perciò, l’intera operazione lascia non pochi punti oscuri è evidente che il governo ha agito per evitare il peggio. E chi può condannare chi agisce in siffatta maniera? I sofisti che spaccano il capello in quattro e i politici interessati a creare problemi al governo sicuramente non la finiranno qui. Gli altri, la gente comune, pragmatica e lieta di aver evitato una situazione complicata per il proprio Paese, penseranno che il governo abbia fatto bene. Probabilmente non è la cosa più bella, intendiamoci, ma è sicuramente la più utile e la più capibile dagli italiani.

sabato 2 agosto 2025

Ma governare si può in questo paese?

Ancora una volta dei giudici, questa volta della Corte di Giustizia Europea, sono intervenuti per dire che è legittimo che sia un giudice a stabilire se un Paese è sicuro o meno. Per loro è sicuro quel Paese in cui non ci sono guerre, in cui nessuno corre il rischio di subire discriminazione e persecuzione. Stando così le cose e conoscendo quanto accade nel mondo, nessun Paese è sicuro “in assoluto”, compresi gli Stati Uniti d’America, compresa l’Italia. In ogni parte del mondo si può dimostrare che ci sono dei perseguitati, che esistono condizioni di pericolo. Sicché quanti ne vengono vengono in Italia di migranti, fossero pure milioni, dovrebbero essere ben accolti perché provenienti da paesi “insicuri”. E a dirlo non è il Governo, a cui spetta il dovere di assumersi ogni responsabilità dell’azione politica ma il primo giudice che si alza la mattina e pontifica su quel che quel giorno più gli aggrada. Sicché, mentre il governo è responsabile di quel che accade nel nostro Paese, a decidere se una cosa si deve o non si deve fare, sono altri, in questo caso i giudici. I quali, forti dell’obbligarietà dell’azione penale, possono intervenire dove vogliono o ritengono opportuno. Alla pronuncia della Corte Europea ha gioito anche l’arcivescovo Gian Carlo Perego, presidente della Commissione Cei per i migranti, il quale è andato oltre con affermazioni indegne di un prelato. A suo dire il governo italiano in maniera subdola mette in essere degli atti illegittimi nei confronti di migranti ritenuti non in regola, in riferimento al Cpr di Albania. L’alto rappresentante della Chiesa è del parere che qualunque migrante, per il fatto di essere un migrante, viene da un paese in cui non si sente al sicuro. Altrettanto forte è giunta la replica del Governo. La Presidente Meloni ha risposto a muso duro sia alla Corte di Giustizia, accusata di competenze indebite, sia all’arcivescovo Perego. Anche i leader della maggioranza governativa, Salvini e Tajani, hanno risposto con determinazione, ribadendo che il Governo continuerà ad andare avanti con le sue politiche per combattere i trafficanti di esseri umani e per difendere i confini italiani. Quel che ancora una volta emerge da questo intrecciarsi di competenze è che ormai non si può più governare. Qualsiasi atto, a giusta o ingiusta ragione, capziosamente o razionalmente, viene impugnato dalle opposizioni politiche, dalla magistratura, dalla Chiesa, dai sindacati, dagli oppositori di strada, pur di impedire al Governo di governare. Viene di ricordare quanto disse Mussolini negli ultimi tempi della Repubblica di Salò: in Italia non è né facile né difficile governare, è inutile. Ma forse lui pensava ancora da dittatore, avendo potuto governare per vent’anni. Oggi governare è semplicemente impossibile. Hai a che fare con una caterva di nemici, i quali se pure è legittimo che ti combattano, non è accettabile che per farlo vadano contro gli interessi del comune Paese di appartenenza. Vedi con quanta iattanza e soddisfazione i vari Schlein, Conte, Renzi e compagni parlano del miliardo di euro speso dal governo italiano per costruire il Cpr in Albania, pur fingendo di dolersene; sarebbero doppiamente “contenti” se i miliardi spesi fossero stati due. È la democrazia, bellezza! È pur vero che molto spesso a legarsi le mani sono gli stessi governanti, i quali aderiscono ad astratte iniziative internazionali, senza considerare tutte le conseguenze. Vedi la Corte Penale Internazionale dell’Aja che ha condannato alcuni uomini politici, come Putin e Netanyahu, sui quali pesa un mandato di cattura internazionale. Sicché se oggi si decidesse di fare in Italia un incontro per la pace tra Russia e Ucraina non sarebbbe possibile per l’obbligo che scatterebbe di arrestare Putin. Un inghippo del genere è già successo con il Generale libico Almasri, che condannato dall’Aja e arrestato a Torino, invece di essere consegnato alla Corte Penale dell’Aja per i dovuti provvedimenti, fu messo su un aereo di Stato e riportato in Libia. Un chiaro atto eversivo, che si spiega con la ragion di Stato, ovvero per evitare che, consegnando Almasri all’Aja, ci fossero ritorsioni nei confronti dei nostri connazionali che lavorano in Libia. Purtroppo con molta leggerezza i politici si legano le mani da sé con lacci e lacciuoli, che poi devono o spezzare, contravvenendo alle convenzioni, o rispettare rimanendo fermi nell’inazione. Politici più lungimiranti, proprio per non crearsi problemi, non aderiscono a simili istituzioni internazionali, che sono buone e nobili nelle intenzioni ma complicate nella fattualità.

sabato 26 luglio 2025

Tra genitori e figli ormai c'è il vuoto

Le trasformazioni sociali sono processi lunghi e lenti, all’inizio non fanno mai pensare agli sviluppi più estremi. Oggi noi viviamo le fasi avanzate di un processo che vede lo stravolgimento dell’istituto più antico, millenario, quello della famiglia. È crisi dell’insieme e dei singoli membri. Oggi i giovani, in età genitoriale, non vogliono fare figli, si rifiutano di essere padri. Per un altro verso i giovani, nella loro condizione di figli, dei genitori e della famiglia non ne vogliono sapere. Giunti all’età di essere indipendenti se ne vanno, prendono strade che li portano lontano. Insomma genitori e figli non sono più gli uni continuatori degli altri; non vogliono far parte della stessa catena. I primi non creando figli, i secondi, quando ci sono, allontanandosi dai genitori. Si vedono gli effetti: calo delle nascite per un verso, fuga dei giovani per un altro. La conseguenza è lo spopolamento. Questo lo registrano anche fonti istituzionali come l’Istat. Il fenomeno è fondamentalmente del Sud, categoria geo-antropologica “dannata”. Ma se è vero che non è facile realizzarsi nel Sud, ci sono anche casi comodi e scontati, che vengono rifiutati. Ci sono famiglie che hanno raggiunto un grado di benessere importante, con attività commerciali e industriali ben avviate, create e condotte con spirito weberiano, che, data la strada diversa intrapresa dai figli, sono costrette a chiudere o a vendere. Molti posti di lavoro si perdono così. Molti antichi mestieri spariscono così. Si dice che è normale che uno cerchi condizioni di vita migliori. La migrazione lo dimostra, ad ogni livello. Ma spesso i tanti giovani che se ne vanno e lasciano la famiglia non raggiungono che risultati modesti, inferiori che se fossero rimasti a casa. L’agognato stipendio mensile, facendo l’impiegato, è niente rispetto a quello che l’azienda di famiglia avrebbe potuto garantire loro. Questo sta a dimostrare che non è neppure questione di convenienza, ma di rifiuto culturale. I giovani che se ne vanno lo fanno perché non vogliono fastidi dai genitori che invecchiano. I genitori che non vogliono figli in realtà non vogliono fastidi per crescerli e portarli fino all’età dell’indipendenza dalla famiglia per poi vederseli sparire sul più bello. Il problema che si sta delineando è ben più grave dei soliti banali conflitti generazionali di sempre. Qui, alla base, da una parte e dall’altra, c’è un rifiuto radicale. Di fronte a quanto mostrano oggi i figli, insensibili e irriconoscenti nei confronti della famiglia, i giovani sposi si guardano bene dal mettere al mondo figli ingrati, che proprio quando c’è più bisogno di loro non ci sono, sono altrove, a condurre una vita magari peggiore che se fossero rimasti “a casa”. Sono le conseguenze della frantumazione famigliare. La famiglia non c’è più, sparita e con essa l’etica famigliare, le consuetudini, le tradizioni, i ruoli, la casa. L’ambita casa! La sacra casa! A tanto si è giunti per il progressivo smantellamento di una cultura millenaria follemente aggredita dal modernismo degli anni Sessanta e Settanta. L’ultimo bombardamento la famiglia l’ha ricevuto con l’attacco al patriarcato. Improvvisamente è stato tirato fuori quest’altro pilastro per colpirlo furiosamente in quanto base del tradizionale impianto famigliare. S’incominciò con le coppie di fatto: giovani che hanno preferito mettersi insieme piuttosto che sposarsi regolarmente. Il marito di una volta è diventato il compagno. Lo Stato ha fatto la sua parte legalizzando i mutamenti provenienti dalla società. Un dato costante di queste unioni è la mancanza di figli. Un altro fenomeno che ha intaccato la famiglia è stato la facilitazione del divorzio, che ha interessato un numero sempre crescente di giovani, i cui matrimoni durano a volte pochissimo. Non sembra esserci rimedio. Un’alternativa alla famiglia tradizionale che garantiva una continuità senza soluzione è la cosiddetta famiglia “queer” (la parola significa diverso ma anche ridicolo), così come delineata dalla scrittrice sarda Michela Murgia, una famiglia basata non sui ruoli derivanti dal matrimonio ma sulla spontanea cura. Non più ruoli ma assistenza reciproca. Va da sé che di figli, in un disordine simile, nessuno si sogna di farne; è una “famiglia” dove nessuno ha un ruolo specifico, ma ognuno è “tutto” per l’altro. Per trovare qualcosa di simile nella storia bisogna andare al medioevo, quando singole persone si riunivano in comunità e chiedevano al papa la concessione della regola. Erano i frati, dai quali sono nati gli ordini religiosi. Un nuovo monachesimo ci attende, per di più senza “regola”.

sabato 19 luglio 2025

I mille giorni di Giorgia

In questa metà di luglio, giorno più giorno meno, Giorgia Meloni “celebra” i suoi mille giorni di governo. Spesso noi uomini ci inventiamo le datazioni un po’ per comodità di storici e un po’ per vanità di politici. All’evento la Presidente del Consiglio ha dedicato un’intervista su RaiUno il 17 luglio. Ha detto delle cose ovvie ma non inutili, ha ricordato i punti salienti della sua opera di governo. Fra tutti ha sottolineato il calo di sbarchi di migranti sulle nostre coste, la creazione di un milione di posti di lavoro e l’avvio di numerose riforme, fra cui il premierato e la giustizia. Altri della sua area hanno voluto ricordare un aspetto importante del suo ormai quasi triennio di governo: l’assoluta normalità. Chi temeva derive autoritarie o colpi si stato, manifestazioni di intolleranza e approcci duceschi ha dovuto una volta tanto tacere. Si spera che il silenzio diventi esso stesso normalità, mi riferisco al silenzio su immaginati e temuti slittamenti autoritari. Sarebbe un bel traguardo in questo paese in cui in occasione, l’anno scorso, del ricordo di Matteotti, c’era chi si avventurava in paragoni con la realtà odierna assolutamente capotici per non dire altro. Certo, c’è da capire. Quello della paura del fascismo è una bella carta da giocare nell’eterna partita della propaganda elettorale. Perderla, quella carta, s’impoverisce il mazzo e si è costretti a trovare nell’abilità del gioco le risorse per vincere le partite. Se si finisse di barare, sarebbe una crescita per tutti. Non sono mancati, tuttavia, nel corso di questi mille giorni, tentativi di curvare verso interventi autoritari taluni scontri di manifestanti delle sinistre con le forze dell’ordine. Sono venuti fuori casi di scoperte di eventi privati in cui qualcuno si esibiva in saluti fascisti per sostenere che “questi”, i fu missini, non cambiano mai, sono sempre gli stessi maledetti fascisti che dicono di non avere niente a che fare col fascismo politico. Perfino per il Decreto sicurezza, di recente approvato, si è cercato di scomodare prospettive liberticide, cui non sono stati estranei taluni magistrati. Quel che è stato dirimente nella messa da parte di ogni seria insistenza sul fascismo è stato il grande successo della Meloni in tutto il mondo. Già all’inizio del suo governo si capì che era sbagliato insistere su questo tipo di critica perché era come dire al mondo che l’Italia era un paese fascista. Man mano che la Meloni veniva accolta in tutto il mondo da capi di stato e di governo con simpatia e rispetto sarebbe stato suicidario insistere su dei tasti assolutamenti sconnessi dalla realtà. In un mondo dilaniato da una guerra mondiale, a pezzi la chiamava Francesco, con efferatezze indicibili in Ucraina e in Israele, chi potrebbe dar credito che in Italia al governo ci sono i fascisti? Forse siamo stati noi, in Italia, gli ultimi nel mondo a renderci conto che era infantile gridare all’orco della favola. L’unico motivo di una qualche preoccupazione è stato il caso del Generale Vannacci, il quale peraltro è l’unico nel centrodestra che non si preoccupa di ostentare parole e modi richiamanti il Ventennio. Ma proprio per l’ex Generale della Folgore è più lo sfottò per le sue uscite da parte delle opposizioni che un autentico sdegno, come a rendersi conto che su certe cose insistere è ridicolo. Tutte rose e fiori, allora, i mille giorni di Giorgia? Sarebbe sciocco pensarlo, anche se il dato che rende il governo Meloni saldo in sella non è nel governo è fuori ed è nelle opposizioni che sono ben lontane dal costituire una alternativa possibile e credibile. Si potrebbe dire che la vera forza di Meloni sia la mancanza di un avversario. La temuta deriva meloniana di Calenda, peraltro, e il passaggio di una consigliera comunale romana dal Pd a FdI fanno pensare a quel fenomeno tipicamente italiano dell’andare in soccorso del vincitore, che incomincia a manifestarsi. Certo, non è il caso per nessuno di mettersi a dormire sugli allori. Anche il centrodestra subisce la forza internazionale della Meloni e tacita fin dal nascere ogni polemica ed ogni dissenso. Conosciamo la situazione politica italiana e sappiamo che non ci vuole molto perché cambi. I risultati delle prossime elezioni regionali potrebbero dare uno scossone importante alla maggioranza specialmente se si dovesse perdere il Veneto, come accadde qualche anno fa a Verona, dove con una maggioranza elettorale di centrodestra, spaccato, si finì per regalare al centrosinistra il Comune. Le rogne quotidiane, inoltre, non mancano mai. Nei decorsi mille giorni sono state contenute e nascoste. I giorni che verranno saranno sicuramente più impegnativi, come in genere sono le code.