sabato 8 marzo 2025
Santanché e le dimissioni
Da quando si è insediato, il governo Meloni ha perso due sottosegretari e un ministro, per dimissioni: la Montaruli, Sgarbi e Sangiuliano, ognuno per motivi diversi o per opportunità diverse. Per l’opposizione avrebbero dovuto lasciare l’incarico almeno altri quattro, tre ministri (Santanché, Piantedosi e Nordio) e un sottosegretario (Delmastro), anche qui per ragioni diverse. Spero di non essermi sbagliato nel conteggio.
Quella delle dimissioni è una questione che in Italia non trova un equilibrio. Prendiamo atto che non siamo calvinisti, i quali identificano la salvezza o la perdizione col successo o con l’insuccesso nella vita. Se fossimo calvinisti, non ci sarebbe problema alcuno. Si è incappati in un incidente di percorso esistenziale? Bene, ci si regoli di conseguenza, senza tante storie. Perché aggiungere incidente ad incidente mentendo, negando, occultando? In Germania, alcuni anni fa, un ministro si dimise perché fu accusato di aver copiato in parte la sua tesi di laurea. In Italia una cosa del genere farebbe ridere i giudici stessi. In Italia, si sa, la morale cattolica, le strade del Signore e via…vogliamoci bene.
Un uomo delle istituzioni, messo a processo e dunque prima ancora di essere condannato o assolto, dovrebbe fare un esame di coscienza. Lui solo sa se è colpevole o innocente. Gli altri possono solo presumerlo. Chi dovrebbe dimettersi e non si dimette si appella al fatto che il più delle volte l’accusato finisce per essere assolto perché il fatto non sussiste, magari dopo un po’ di anni di attese e di processi, fino al terzo grado. Questa giustificazione non è del tutto peregrina, almeno non lo è in Italia, dove non c’è la cultura delle dimissioni e non c’è una credibile cultura delle istituzioni. Ma si sa che la verità processuale non sempre corrisponde alla verità storica, anche per la formula “in dubio pro reo” che favorisce gli accusati dei quali non si riesce a provare l’accusa. E siccome non si assolve più per insufficienza di prove ecco che esce che il fatto non sussiste. Ma torniamo a dire che nessuno sa meglio dell’accusato se è colpevole o innocente.
Se è colpevole e non si dimette e viene condannato dopo un po’ di anni con sentenza passata in giudicato ha praticamente continuato per tutti quegli anni ad esercitare il compito di ministro o sottosegretario in condizione indebita, salvo che nel frattempo non fosse cambiato governo. Se il ministro è accusato di furto o frode ai danni dello Stato, non si dimette e continua a fare il ministro, una volta condannato dimostra che per quegli anni è stato un ladro o un furfante a rappresentare le istituzioni. Questo può succedere. Allora sarebbe il caso, lo dico da ruminante della politica non da giurista, che non mi compete, quel ministro, che, pur sapendosi colpevole, ha continuato a fare il ministro dovrebbe essere condannato all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e ad una pena pecuniaria proporzionata al danno arrecato all’immagine dello Stato e della Nazione. Troppo comodo non dimettersi e sfruttare le lungaggini della giustizia per rimanere di fatto in un posto di alto prestigio morale e di importante funzione pubblica come se nulla fosse.
Dio non voglia che tra qualche anno la Santanchè venga definitivamente condannata. Che condanna sarebbe mai la sua se nel frattempo ha continuato a fare la ministra, a vantare di essere ricca, di fare collezione di borse di lusso, di camminare su tacchi dodici e via di seguito? Intendiamoci, difendersi è un diritto. Non è però un diritto offendere le istituzioni e per esse il popolo composto anche da persone che non possono vantare le cose della Santanchè. Nel caso in specie c’è anche un risvolto politico particolarmente importante. In politica si è relativamente liberi di fare o di non fare qualcosa, non si è mai liberi in assoluto. Quale diritto avrebbe la Santanché di trascinare nelle sue vicende private – si consideri che le accuse che le sono rivolte risalgono a prima che diventasse ministra – una comunità umana costituita da milioni di persone?
Sembrerebbe paradossale che ci si augurasse che la ministra ricca sia anche innocente – avete capito bene – e che tutte le accuse rivoltele siano cattiverie di giustizialisti vampiri mai sazi; ma purtroppo non è così. Speriamo che sia innocente non tanto perché vige la presunzione di innocenza quanto per il fatto, non di poco conto, che se dovesse essere condannata, lei e tutti i suoi amici di partito dovrebbero, come dice un’espressione popolare, cacarsi la faccia.
sabato 1 marzo 2025
Trump come Brenno: guai ai vinti!
Quel che è accaduto il 28 febbraio 2025 nello studio ovale della Casa Bianca a Washington merita di essere memorabile. Un Presidente che zittisce l’ospite, presidente di un altro paese, lo caccia via e gli dice di tornare quando si sente preparato, è fuori dalla più incredibile eventualità. È una bolla di acqua ghiacciata caduta sul mondo. Una volta ho assistito ad una scena del genere. Un professore all’Università invitò uno studente in sede di esami ad andarsene e a ritornare quando si fosse sentito preparato. Né più né meno.
Ma Trump è andato oltre, si è comportato come Brenno, il re dei Galli, che, dopo aver conquistato Roma chiese un riscatto in oro e ai poveri romani che si erano accorti che la bilancia era truccata disse di tacere e sbattendo la sua spada su uno dei due piatti urlò: guai ai vinti! Il presidente ucraino Zeleski non è Marco Furio Camillo e perciò non ha detto l’Ucraina si conquista col ferro non con l’oro. Però il presidente ucraino è stato fermo nelle sue argomentazioni, ha tenuto duro e ha predetto che prima o poi gli americani si accorgeranno dei guai che li attendono se continueranno a credere nella Russia. Probabile che ad irritare Trump siano state proprio queste parole, considerate velleitarie e irrispettose. Che tali però non erano, se le intenzioni erano quelle di mettere in guardia l’alleato protettore dai pericoli di un nemico comune. Ma ad uno come Trump, che si comporta come un barbaro avvinazzato, non si può mettere in dubbio la sua strapotenza, la sua posizione di padreterno in terra, è sembrata lesa maestà. E poi, quale nemico comune? Trump ha rivendicato la sua terzietà, che lo rende, a suo dire, più avvantaggiato nelle trattative.
Ora, dopo il patatrac, cosa accadrà? Noi europei, con qualche piccola eccezione, l’ungherese Orban si è detto filorusso, abbiamo ribadito di stare con Zelenski, continuando nella nostra opera di aiuti in tutti i modi per arrivare ad una pace giusta, che non può essere identificabile con la sconfitta dell’Ucraina, ma con un accordo che tenga conto degli interessi delle parti in causa. Ma non possiamo ignorare o far finta di non capire che la sparata trumpiana non è stata solo contro Zelenski ma contro tutta l’Europa. Siamo in presenza di qualcosa di improvviso che ha spiazzato tutti. Del resto che Trump ce l’abbia pure con l’Europa è notorio, l’accusa è di aver stravivacchiato a spese degli Stati Uniti d’America. L’aumento dei dazi sulle merci provenienti dall’Europa dimostra quanto Trump sia convinto delle sue elucubrazioni.
Il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, data come particolarmente vicina a Trump, da considerarla addirittura pontiera tra Usa ed Europa, si trova in imbarazzo, perché se è vero che finora c’è stato una sorta di idillio col presidente americano, è anche vero che è stata fin dall’inizio dell’invasione ucraina la più convinta e fervida sostenitrice del popolo ucraino. Le opposizioni in Italia battono su questo punto; ma in Italia si capisce, appena gli oppositori vedono la possibilità di mettere in difficoltà la premier italiana si lanciano come avvoltoi sulla preda.
Veniamo ai fatti. Quali carte in concreto ha in mano l’Europa per risolvere il caso ucraino? Non ne ha, se le avesse avute se le sarebbe giocate prima. Ora addirittura la situazione è peggiorata. Purtroppo la sua scelta fin dall’inizio era di far causa comune e compatta con tutto l’Occidente. Ora che l’Occidente è diviso l’Europa si trova in acque difficili e il caso ucraino le rende ancor più torbide e innavigabili. L’Europa non è in grado di far giungere i due Stati in guerra ad una pace giusta. Gli Stati Uniti certamente possono di più, possono indurre la Russia, in cambio di consistenti guadagni, a mettere fine alla guerra. Ma sarà una pace giusta per l’Ucraina quella ottenuta con l’intesa russo-americana? E l’Europa l’accetterà? L’Europa, per quel che è stato prima e dopo l’invasione, fa tutt’uno con gli interessi dell’Ucraina. Difficile dire che cosa avrà alla fine l’Europa da tutta la vicenda. Poteva saperlo nella situazione pretrumpiana, non oggi più.
Ma proprio nell’America pretrumpiana l’Europa ha ragione oggi di sperare. Non è possibile che in America non conti nessuno all’infuori del Presidente. Ci sono forze tradizionalmente filoeuropeistiche che potrebbero agire e costringere Trump a più miti consigli.
Trump ha rimproverato a Zelenski di voler giocare con la terza guerra mondiale, ma se qui non cambia l’atteggiamento americano si andrà molto vicino; e Dio non voglia che si arrivi proprio dove non si deve mai arrivare.
domenica 23 febbraio 2025
Signori, un po' di rispetto!
La guerra dei trent’anni, ma già sta andando oltre, tra i politici e i magistrati, iniziata con la discesa in campo di Berlusconi, vede non solo l’abbassarsi di prestigio degli uni e degli altri ma anche di una parte di quel mondo che li circonda, quello dei giornalisti televisivi e dei giornalisti cartacei quando questi vanno in televisione. Non dovrei dirlo, dato che io sono un giornalista, sia pure pubblicista che mi rimanda alla mia professione di docente, alla quale tengo in maniera particolare. I giornalisti della carta stampata superano in rappresentazioni indecenti i loro colleghi televisivi quando pontificano dagli stessi luoghi, diventati in questi ultimi anni veri vomitatoi di insulti e di ingiurie. Chi qualche volta ha sentito Marco Travaglio, direttore del “Fatto Quotidiano”, dalla Gruber sulla 7 o del suo sodale Andrea Scanzi, non può non essersi fatto la doccia dopo la trasmissione, per farsi scivolare tutte le porcherie sparate a zero su tutto e tutti. Così anche sul fronte opposto, dove degli specialisti dell’insulto, veri killer, si esibiscono in aggressioni verbali nei confronti dei politici avversari. I signori della politica si combattono attraverso i loro “bravi”.
Lo scadimento dell’ambiente lo si vede anche negli aspetti marginali. A sentire la Gruber rivolgersi agli ospiti presenti chiamandoli per cognome come se gli stessi non avessero un titolo, come se non fossero a volta onorevoli o ministri, professori o giudici, direttori o presidenti, viene di pensare che ormai siamo alla rappresentazione della società marmellata, dove non c’è più nemmeno un pezzettone.
Chi sei tu, Gruber, a rivolgerti ad un parlamentare senza chiamarlo Onorevole o Senatore? Chi ti autorizza a dare del tu a Ministri e Sottosegretari? a trattare un presidente alla stregua di un anonimo usciere? Si tratta di bazzecole, si potrebbe dire. No, non è così. La forma è sostanza. E se pure la società non è una caserma, non è neppure la curva di uno stadio. Se una personalità del mondo della politica e della cultura diventa un cognome, senza nessun titolo, vuol dire che non la persona ha perso di valore ma il titolo e quel che il titolo sostanzia. Un professore, un procuratore della repubblica, un direttore, un presidente non possono essere chiamati per cognome come scolaretti. Devono essere riveriti in ciò che rappresentano. Se no si svilisce il titolo, gli studi, la funzione. Si strappa il rapporto di rispetto tra le persone, che hanno sicuramente un livello di parità ma hanno anche un livello di importanza, di rilievo sociale.
Il pubblico che segue da casa, che sghignazza agli insulti, alla mancanza di rispetto verso una personalità, non può che giungere alla banalizzazione di tutto e di tutti. Finisce per ritenere normale rivolgersi ad un medico, ad un professore senza il dovuto rispetto, senza riguardo alcuno, a considerarlo un “laqualunque” qualsiasi da insultare e sbeffeggiare. Di qui le continue aggressioni a medici e a professori, una volta categorie tra le più rispettate.
Lo stadio del male è così avanzato che nessuno si lamenta, nessuno protesta il proprio titolo e il legittimo rispetto, nessuno pretende il lei nella conversazione, come se fosse una richiesta fuori dal mondo; e invece non dovrebbe essere neppure una richiesta, ma un normale interfacciarsi tra persone che svolgono ruoli diversi. Proprio in televisione si dovrebbe dare l’esempio. Sembra, invece, che tutti si riconoscano in questo crogiuolo di maleducazione, di rissa, dove le vittime sembra che godano ad essere svillaneggiate. Si può pure capire l’imbarazzo di queste persone a richiedere di essere chiamate più correttamente col titolo che hanno, ma ormai al punto in cui siamo arrivati bisogna mettere da parte l’imbarazzo e dire: “egregia signora, egregio signore, si rivolga a me chiamandomi col titolo che mi spetta e mi dia del lei. Chi ci vede e ci ascolta deve sapere con chi lei sta parlando”. L’eccesso di confidenza, quando viene esposto – in privato il discorso è diverso – lede la dignità delle persone, in primis di chi si concede arbitrariamente di non osservare un minimo di galateo.
Un po’ di anni fa in televisione, nel corso di una tribuna politica, Bettino Craxi si rivolse al direttore di Paese Sera del tempo con un’espressione popolare, “queste cose raccontale a tuo nonno”; l’altro si fece cupo in volto e chiese immediatamente a Craxi di scusarsi. Oggi sembra che tutto sia cambiato e che la normale educazione sia roba da rigattieri, quando mancano ancora solo le pacche sulle spalle e un rutto in faccia.
sabato 15 febbraio 2025
Quel che ho visto di Sanremo
Hai visto Sanremo? È la domanda che ti senti fare da più parti fin dal primo mattino. Dal bar all’edicola non si parla d’altro. Come se si trattasse di un evento da non perdere, di quelli che, per usare un’espressione abusata, ti fa dire, tutto contento, c’ero anch’io; e magari speri che accada qualcosa, non so, un disperato che si vuole buttare giù dalla loggia, un cavallo pazzo che s’imbizzarrisce in diretta, un bacio socratico, un decoltè traditore, qualcosa del genere.
Io, Sanremo! rispondono i più. Ma che sei scemo? È la risposta più ricorrente. E invece Sanremo se lo vedono proprio tutti, perché poi incominciano a tradirsi di averlo seguito quando parlano di questo o di quello. Hanno ragione quelli che dicono che è il primo ponte vacanziero italiano. È un ponte su tutti gli “stretti” d’Italia, lunghi e corti; un ponte che si fa e si disfa una volta all’anno; non come certi ponti che sono promessi dall’indomani di Porta Pia e non hanno ancora i piloni sui quali poggiarli. C’è un prima e un dopo Sanremo.
Ah, se il festival mi sta piacendo? Me ne stavo dimenticando. Finora l’ho seguito a metà, ovvero ho seguito solo la prima parte, quella per dovere di democratica spartizione televisiva, dovendo condividere il televisore in casa. Poi, per quel che mi tocca, corro subito a RaiStoria, dove mi pasco di cose note e meno note ma sempre interessanti a ricordarle e ad approfondirle.
No, Sanremo di quest’anno non mi è piaciuto, non mi sta piacendo. Stasera, la quarta puntata spero di godermela tutta con le sue cover, canzoni d’altri tempi, che, se pur reinterpretate, conservano fascino e bellezza. Quel Conti mi sembra poco sul pezzo, come si dice oggi. Delle sue collaboratrici e dei suoi collaboratori – ma perché tanti? – finora mi è piaciuta la modella Bianca Balti e i suoi incantevoli vestiti. A dire il vero anche le altre hanno indossato vestiti dei migliori sarti italiani, da Miriam Leone ad Elettra Lamborghini. Benigni, per noi italiani, è come il parmigiano reggiano, piace a tutti, è una garanzia di divertimento. Non altrettanto Frassica e Malgioglio, banalotti e scontati. Malgioglio è meglio come critico e commentatore. Frassica è meglio e…basta.
Le canzoni sono decisamente fuori dalla portata di una persona “normale”, non solo per gusto ma anche per udito. Molto suono, le parole non si capiscono, a carpire l’interesse i vestiti maschili, brutti, stravaganti, eccessivi. Ad eccezione di Achille Lauro che forse si ricorda di avere un nome importante. Ma dove vanno a vestirsi gli altri, da qualche rigattiere? La gestualità di alcuni, dei rapper – si dice così? –, monotona come la loro musica, stizzisce, dà l’impressione di persone arrabbiate, risentite, minacciose. Pensi che da un momento all’altro tirino fuori un mitra per fare una strage. Pur senza calarmi nella realtà di Vola colomba e dei Papaveri, precedente alla mia stagione, dico che una canzone è bella o brutta prima di tutto dopo averla ascoltata e poi capita. E se non riesci ad ascoltarla e a non capirla? Pazienza, l’audience è assicurata.
Dicono che vada per la maggiore Giorgia. Quella che replicò alla Meloni dicendo: anch’io mi chiamo Giorgia e sono una donna ma non rompo le scatole alla gente. Chissà, che non si voglia contrapporre Giorgia a Giorgia? Benigni lo ha fatto a modo suo. A me è piaciuta la canzone di Cristicchi, l’unica sulla quale posso esprimere un giudizio di merito. Fatto salvo il principio che l’arte ha poco o nulla a che fare col messaggio politico, etico o sociale, il pezzo ha una sua dignità e soprattutto connotazione. Se vince, ha vinto l’Italia del buon cuore, dei buoni sentimenti, che è poi la solita Italia, che quando pensi che è peccaminosa esce fuori con la sua purezza. Gli do il secondo posto.
Nella seconda serata mi è piaciuto papa Francesco col suo messaggio sulla musica. Ma dicono che era roba vecchia, non fatta per Sanremo. Speriamo che non finisca pure lui al Copasir. Vero senza ombra di dubbio, invece, è stato il messaggio delle due cantanti, l’ebrea e la palestinese, che hanno fatto capire che per i loro due popoli è meglio suonare che suonarsele.
Come ogni anno la Rai ha tenuto a dire che gli ascolti sono aumentati facendo riferimento alle corrispettive serate dell’anno scorso. Sta di fatto che dalla prima puntata in poi è stato un calo continuo. Carlo Conti, poi, il direttore artistico e il conduttore del festival, si è molto speso personalmente per la Suzuki, uno degli sponsor. Mi chiedo: era nel contratto? era cosa che poteva fare? Mah! Buon Sanremo a tutti e…all’anno prossimo!
sabato 8 febbraio 2025
C'è giornalismo e giornalismo
I giornalisti, che vediamo e sentiamo in televisione, che leggiamo nei giornali, affermano che appartiene all’etica del giornalista pubblicare tutte le notizie di cui viene in possesso; qualcosa che somiglia all’obbligatorietà dell’azione penale. Come un magistrato è obbligato ad intervenire nel momento in cui è a conoscenza di un reato così il giornalista quando viene a sapere qualcosa che ritiene possa interessare il pubblico. Questo è senz’altro vero nel giornalismo generalista. Non vale per il giornalismo politico; è un altro mondo. Quando un giornalista riesce a procurarsi una notizia non si chiede se può interessare il pubblico ma se conviene alla parte politica nella quale si riconosce. Una distorsione del principio che in taluni casi è decisiva, perché la notizia è parola e nel mentre infuria una guerra di parole, la politica è guerra di parole, dire o non dire qualcosa conta moltissimo.
In verità i giornalisti non osservano con professionalità quello che dicono. Oggi la maggior parte dei giornalisti sono schierati e difendono le parti, maggioranza e opposizione politiche, con tal vigore che neppure i diretti interessati fanno nei luoghi della politica. Ci sono trasmissioni che sembrano corazzate in guerra contro la maggioranza di governo ed altre contro le opposizioni. I “combattenti” non si curano minimamente di rispettare un minimo di decoro personale, si abbandonano a sproloqui aggressivi del “nemico” incuranti che dall’altra parte dello schermo ci sono sì persone di parte ma anche altre che vogliono solo essere informate correttamente; che purtroppo vengono passate per “nemiche”.
Sarà perché io sono un docente che fa pure il giornalista se ritengo che le notizie prima di pubblicarle vanno valutate non già se sono a favore o contro la propria parte politica, ma se è importante e onesto pubblicarle. Le notizie devono essere utili non ad una parte ma all’opinione pubblica, che per natura è complessità e sintesi. Se non sono utili e anzi dannose non si pubblicano, lo stesso se non sono chiare e complete. Buttar così una notizia non documentata, un rumor, è come voler creare un effetto di danno per una parte, di favore per un’altra. Una notizia rubata o comprata non è pubblicabile, non è decente pubblicarla.
Nella guerra dell’informazione che si sta combattendo oggi in Italia sono in campo giornalistico veri e propri servizi segreti, spie, infiltrati, agenti sotto copertura; à la guerre comme à la guerre. Spesso le notizie non vengono sapute per vie normali, spontanee, ma vengono procacciate, richieste, “rubate”, forse anche pagate. E qui non siamo più nel campo del lecito. Uno che si infiltra in un evento per vedere e riferire commette un illecito, se non proprio penale, di sicuro morale. Le leggi che ci sono non proteggono più la privacy, e non la proteggono perché non c’è più, se ne è volatilizzato il concetto stesso. I telefoni sono sempre più sotto controllo. Perfino le chat chiuse e riservate a ben precise persone vengono bucate per mettere in pubblico quello che gli interessati dicono pensando di dirlo in privato. L’effetto è di gettare nel pubblico “notizie” che tali non sono allo scopo di danneggiare una parte politica a tutto vantaggio di un’altra. In una simile situazione che senso ha parlare di opportunità o meno di pubblicare una notizia, di parlare di libertà di stampa. I talebani della notizia ignorano che nella società non esiste solo la propaganda. Ci vuole molto a capire che anche i preti bestemmiano colti in particolari frangenti di vita? Ci vuole molto a capire che uno prima di fare i bisogni nel suo bagno si spoglia? Ci vuol tanto a capire che quello che vale per una parte politica vale anche per l’altra?
Ovvio che furti e rapine di notizie, mischiando il privato col pubblico, producono effetti negativi, non fanno amare i giornali alla gente, gettano discredito su una categoria che è importantissima per il ruolo che ha nella società. Un buon giornalista è quello che sa giungere ad una notizia per vie lecite; è quello che la sa dare, la sa raccontare; non chi pensa di aver fatto il colpo, di aver arrecato un danno ad una parte politica e di essersi guadagnati i galloni dell’altra parte.
La realtà in cui viviamo purtroppo ci dice che i principi in cui crediamo, anche fermamente, spesso vengono oltraggiati nella pratica di vita. È da tempo che diciamo che i costumi si stanno imbarbarendo. Non so se è il caso di usare ancora il gerundio; il segno della decenza l’abbiamo passato da un pezzo. Almeno, prendiamone atto.
sabato 1 febbraio 2025
A sinistra aspettando Godot
Da sempre si può dire che a sinistra hanno l’abitudine di parlare della loro condizione, di elaborare tattiche e strategie, di ipotizzare alleanze, senza farlo però in una sede importante, tipo congresso. Lo fanno sui giornali, nei talkshow, spesso più che delle proprie ragioni compiacendosi dei torti degli avversari.
Prendiamo l’ultimo caso eclatante che ha fatto insorgere tutta la sinistra in maniera anche smodata contro il governo: il caso del generale libico arrestato in Italia e poi dal nostro governo riportato in Libia. Cosa che ha poi innescato l’ennesimo scontro tra il governo e la magistratura, che ha messo sotto indagine giudiziaria la Presidente Meloni, due ministri, Nordio e Piantedosi, e il sottosegretario Mantovano. Da tutto il bailamme, secondo i sondaggi, è sortita una crescita di consenso della Meloni. La gente ha capito che la Meloni ha liberato il “torturatore” libico per evitare che di lì a qualche giorno i libici sequestrassero qualche italiano in Libia e ricattassero il nostro Paese: io ti do il tuo e tu mi dai il mio, come è successo con la giornalista Sala e l’ingegnere iraniano. La gente ha capito inoltre che il “torturatore” libico in qualche modo trattiene in Libia un po’ di migranti, cosa per la quale i governi di mezza Europa spendono milioni e milioni di euro, che elargiscono ad hoc ai vari dittatori nostri dirimpettai. Che i migranti vengano trattenuti piace all’opinione pubblica, che non gradisce che il nostro Paese venga invaso da tanta gente, pur bisognosa e in miserevoli condizioni. L’accoglienza è una gran bella cosa, da sempre. L’ospite si è sempre detto, è sacro. In nessun tempo e in nessun paese lo straniero è stato maltrattato. Omero, uno dei pilastri della nostra civiltà, ci dice che ad Ulisse, tornato ad Itaca come uno sconosciuto straniero, furono lavati i piedi, in segno di accoglienza e di ospitalità. Ma qui siamo in presenza di un fenomeno epocale. La gente lo ha capito perché qualcuno glielo ha spiegato. Non siamo ancora al mors tua vita mea ma lo capiscono tutti che un’accoglienza senza limiti è un’invasione che rende più precaria la vita di oggi e tragica quella di domani. La storia ha registrato tanti casi di rigetto degli stranieri a diversi anni di distanza. Non si creda che il male non ritorni. Il mai più è una pia illusione.
Io credo che la sinistra farebbe meglio se in talune questioni assumesse un atteggiamento di non contrapposizione alla destra, trattandosi di problemi che riguardano la nazione. È vero, diverse sensibilità motivano destra e sinistra, che impediscono di venir meno alla propria cultura; ma allora perché essa non cerca di convincere l’opinione pubblica delle sue ragioni, dicendo chiaro e tondo: dobbiamo accogliere i migranti quanti ne vengono vengono e fino a quando vengono? Non lo fanno perché sanno che non è sostenibile. Ma se invece trovassero l’intelligenza e la forza di guardare in faccia la realtà e cercassero di avere con la destra un diverso rapporto non lascerebbero agli avversari il consenso dell’opinione pubblica su un problema così importante, passando peraltro per degli irresponsabili o ubriachi di ideologia.
Anche sulle alleanze non riescono ad avere le idee chiare. Allearsi per battere le destre non significa niente se non chiarisci che cosa vuoi evitare che accada con le destre al governo e che cosa vorresti che accadesse con le sinistre al governo. È su questo piano che occorre elebarare un percorso. Invece si passa il tempo per vedere se il rapporto tra il Pd e il M5S regge, che fa registrare avvicinamenti e allontanamenti quasi fossero capricci tra innamorati. Il Pd, partito guida di un’ipotetica coalizione antidestra, non ha risolto mai la questione interna, sperando che provvedesse il tempo a sistemare diversità e contrasti. I postdemocristiani, per esempio, dove sono e che cosa fanno? Continuano a puntare su una Schlein ormai sempre più spenta e logora? Non sono passati molti giorni da quando è venuto fuori il problema, con l’ipotesi Gentiloni in una probabile guida della coalizione. Ma quelli non dimenticano da dove vengono.
Tutte queste problematiche sono ampiamente avvertite dalla base anche se si insiste a metterla su un piano di tifo calcistico: dobbiamo battere le destre puntando sull’emotività delle persone. Quel che oggi appassiona l’elettore di centrosinistra è quanto accade a destra, alle stravaganze di certi esponenti, ai modi popolareschi della Meloni, agli spropositi di Salvini, insomma al contorno della politica. Ma quel che ci vuole è un congresso, come una volta si faceva.
Col Salento nel cuore...e non solo
Angela Campanile, salentina di Taurisano, vive ormai da anni a Paderno Dugnano, in provincia di Milano, con marito, Emilio Spedicato, già docente di matematica all’Università di Bergamo, e figli. Ha viaggiato e viaggia moltissimo, ma ovunque vada porta con sé il suo Salento, del Salento tutto. Ecco perché non si può dire che le stia solo nel cuore. Parlata, cucina, costumi, atmosfere, immagini, personaggi tipici: è il suo centro esistenziale e il suo alone. Giunta ormai ad una bella età, che di una signora non si indica, ha voluto raccogliere ogni espressione viva della sua terra e l’ha messa in un volume, Pensieri da Milano per il Salento (Lecce, Youcanprint, 2024, pp. 250). È fatto per lo più di immagini, quattro per ogni facciata, per un totale di circa mille, didascalizzate con brevi pensieri. Suddiviso in nove capitoli, tematicamente intitolati, il volume racchiude uno scrigno di emozioni. Non nostalgia, ché l’autrice scende nel Salento almeno due tre volte l’anno e lo vive ancora, ma qualcosa come una pianta dalle molte foglie e dai molti fiori, che la Campanile cura con amore e dedizione.
sabato 25 gennaio 2025
Di questo solo oggi possiamo essere contenti
È curioso come in questo paese i leader politici a confronto recitino interscambiandosele le stesse parti, come dei copioni che si passano passandosi i ruoli, come la campanella da un presidente all’altro. Chi è all’opposizione è sempre sul piede di guerra, chiede le dimissioni dei ministri o sottoministri in carica anche per un nonnulla, cerca di smascherare le iniziative della maggioranza, i suoi casi, le sue vicende. Al governo si danno tutte le responsabilità di quel che accade, anche delle bombe d’acqua o degli straripamenti di fiumi e fiumiciattoli. Chi è al governo ricorre a tutti i sistemi pur di non cedere di un millimetro alle ragioni degli avversari; minimizza, temporeggia.
Abbiamo visto decine di volte in televisione quando la Meloni spiegava agli italiani la questione delle accise sulla benzina promettendo di toglierle se avesse vinto le elezioni e fosse andata al governo. Dalla Meloni, ora che è al governo, silenzio sulle accise. La ministra Santanchè, del suo stesso partito, è rinviata a giudizio. Dovrebbe dimettersi? Se la Meloni fosse all’opposizione e il ministro rinviato a giudizio fosse in maggioranza, non ci sarebbero dubbi sulle richieste di dimissioni, con tanto di indignazione a corredo. Si dimetta! Repubblica delle banane! Chieda scusa agli italiani! Ma, siccome è capo del governo, tace e lascia agli oppositori di indignarsi, mentre lei spera che tutto si sgonfi nel giro di qualche giorno. Insomma, le solite parti nella solita commedia.
I comici, a partire da Totò e del suo Antonio La Trippa, lo hanno spiegato molto bene agli italiani. I quali non tutti reagiscono alla stessa maniera. Alcuni sono stanchi di vedere politici di opposizione arrabbiarsi e politici di maggioranza far finta di niente. Altri si sono convinti che così funziona la democrazia in Italia, che è pur sempre meglio di dove non c’è democrazia e bisogna ridere o piangere se ride o piange il dittatore, come accade ancora in tanti paesi del mondo. Conveniamo tutti che è meglio tenerci stretta la nostra democrazia, che ci consente perfino di non votare quando non ne sentiamo la voglia. Del resto fu Churchill, uno che ne sapeva, a dire che la democrazia è il più brutto sistema di governo eccetto tutti gli altri.
L’elettorato che ancora va a votare si sta riducendo di volta in volta. Oggi c’è circa il cinquanta per cento che non vota perché ritiene che sia inutile, che questo o quello pari sono. Il mantra è: promettere per non mantenere. Prova ne sia che a seconda della collocazione, il leader, a prescindere da quel che ha detto in campagna elettorale o ancora prima, si dispone a recitare la sua brava parte. Tutto si riduce alla bravura con cui la recita. La Meloni riesce a farsi credere di più della Schlein, non perché sia più brava ma perché per un dato naturale è più in sintonia con la gente, la quale, anche se sa che in fondo promette ma non mantiene, pensa all’alternativa e la preferisce.
Allora, non c’è niente da fare? È tutto scontato? Non è proprio così. Diciamo che c’è una misura e che questa prima o poi si colma. Questo accade quando si verificano casi particolari in successione. Come in questi giorni in Italia. C’è stato prima il caso dell’ingegnere iraniano liberato in cambio della liberazione della nostra giornalista, poi il caso della Santanchè rinviata a giudizio, poi il caso del generale libico famigerato torturatore di migranti prima arrestato e poi riportato in Libia con un aereo dell’Aeronautica militare italiana, poi i trasporti che non funzionano, poi lo sciopero dei magistrati, poi la delinquenza diffusa nelle nostre piazze e strade che di notte, e non solo di notte, diventano territorio “nemico” con orde di giovani migranti e non che si affrontano per prevalere in attività criminali. Il quadro si completa con qualche femminicidio, con un medico picchiato in Pronto soccorso e con qualche altra follia.
Questi sono i casi che ogni giorno i giornali sciorinano e sui quali si sviluppano dibattiti televisivi con le parti preschierate. Non politici a confronto, quello avviene in Parlamento, ma schierani della maggioranza e schierani dell’opposizione, che rendono con le loro velenosità, anche personali, meno credibili le argomentazioni pro o contro. Questa è la democrazia, non perdiamola di vista. I cittadini liberi parlino liberamente, votino altrettanto liberamente, si facciano carico di qualche verità. Noi, ostinati elettori, facciamo come diceva una vecchia canzone di Achille Togliani. Una volta nei viottoli di campagna, nel buio della notte, fra le erbacce che delimitavano da una parte e dall’altra brillavano le lucciole; esse non facevano luce sufficiente a vedere, ma consentivano di seguire la via. Di questo solo oggi possiamo accontentarci. Da qualche parte ne usciremo.
sabato 18 gennaio 2025
Meloni e il caso Sala
Il Ministro di Giustizia Carlo Nordio, dopo la liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala, disse che il caso niente aveva a che fare con quello dell’ingegnere iraniano Mohammad Abedini-Najafabani arrestato a Milano dalla nostra Digos. Aggiunse, sotto l’incalzare di un giornalista, che i casi erano differenti anche se paralleli. Ora, si sa, che due rette parallele non s’incontrano mai. Benedetta italianità! Invece qui si sono “incontrate”. Vuol dire che proprio rette non erano. O per lo meno non era retto il discorso. Come si può continuare a non ammetterlo? Gli iraniani arrestarono la nostra giornalista tre giorni dopo che noi avevamo arrestato il loro ingegnere. E perché la arrestarono? per dire: cari amici italiani, voi liberate il nostro ingegnere e noi liberiamo la vostra giornalista. Ed è quanto è avvenuto, con la sola variante che ad essere liberata per prima è stata la nostra giornalista, ma era un dettaglio dell’affaire.
Non è stata una bella pagina politica, diciamo la verità. Lo è stata per un prossimo libro Cuore, che sicuramente scriverà deamicisianamente qualcuno, magari la Meloni nel suo prossimo libro. Intendiamoci, davanti ad una vita umana salvata hanno dovuto star zitti e fingere di essere contenti perfino quelli delle opposizioni, che di solito saltano e cantano come grilli d’estate ad ogni calar della sera. Ma le cose, raccontate per come sono, portano a considerazioni un po’ diverse. Che sia o meno opportuno di dirle è un altro discorso. Per fortuna non tutti in Italia fanno politica, qualcuno che si mette in un angolo e le cose le dice come stanno ancora c’è.
L’arresto della nostra giornalista è stato un sopruso da parte di uno Stato, quello iraniano, che nella circostanza si è comportato come un boss mafioso. Ha arrestato una giornalista straniera senza un motivo, dato che l’accusa di aver violato le leggi islamiche non significa nulla se non vengono specificati i reati. Era chiara l’intenzione fin dal primo momento. O lasciate libero il nostro ingegnere o noi teniamo all’addiaccio, senza cuscino e senza occhiali, la vostra giornalista. Era evidente che la Sala era solo un ostaggio, che serviva per il ricatto. L’ingegnere, invece, è accusato dalle autorità americane di terrorismo. La situazione era asimmetrica. Lo scambio che c’è stato, la giornalista per un terrorista, non è accettabile. Nessuno Stato si piega a simili ricatti. E noi abbiamo assai illustri esempi. Per Moro non ci fu niente da fare e ancora oggi chi ha il senso dello Stato plaude al comportamento dell’allora classe politica e governativa italiana, che non intese cedere.
Probabile che se invece di una donna, Giorgia Meloni, in Italia ci fosse stato un Capo del Governo uomo le cose sarebbero andate diversamente, come sono andate in passato. Anche qui è appena il caso di ricordare il capo dei terroristi palestinesi Abu Abbas liberato da Craxi e il più recente imprenditore russo, Artem Uss, sempre richiesto dagli Americani, messo nelle condizioni di scappare. Forse avremmo fatto lo stesso con l’ingegnere iraniano. L’avremmo lasciato andare.
Di diverso c’è la Meloni, che secondo papa Francesco non è né popolare né populista, è popolana; e si sa che i popolani la pensano e agiscono alla sans façon. Non volendo guastare i buoni rapporti che ha con gli Americani è volata da Trump e gli ha detto: senti, dobbiamo liberare la nostra ragazza e c’è un solo modo per farlo, liberando l’ingegnere che voi volete che noi vi estradiamo. Il buon Trump, che non mette molto a sintonizzarsi con la Meloni, ha acconsentito senz’altro, ed ecco che il caso è stato risolto alla fai e faccio.
Questione finita? Magari! Il caso costituisce un precedente pericoloso. Se ogni volta che le autorità di altri paesi ci chiedono di arrestare qualcuno e di consegnarglielo secondo le leggi internazionali, noi rischiamo arresti di nostri connazionali a scopo di ricatto, andiamo bene! Di nuovo la Meloni o chi per lei prende il volo e va a contrattare scambi e rilasci? E chi si trovasse al posto della Meloni sarebbe dello stesso avviso, di andare a mortificare la dignità dello Stato sia pure per salvare una vita umana? Si consideri che il gesto della Meloni non è ascrivibile ad un capo di governo nell’esercizio delle sue funzioni. Se così fosse dovrebbe fare la stessa cosa in altri similari casi. La Meloni invece si è comportata da mamma e ad una mamma neppure Trump ha saputo dire di no. Si comporterà allo stesso modo se dovesse proporsi un altro caso del genere? Dubito, potrebbero non esserci le condizioni. A questo punto è la filiera che conviene spezzare. Non si arresta più nessuno in nome e per conto di altri e ognuno si gratti la tigna con le sue mani.
sabato 11 gennaio 2025
Vanini, un chiarimento con Raimondi
Il professor Francesco Paolo Raimondi ha postato recentemente nel sito «Archivio Giulio Cesare Vanini. Iliesi - Cnr», di cui è responsabile, una noticina che, riguardandomi, mi obbliga a qualche chiarimento. In «Bacheca» ha scritto:
«Ha conosciuto una infelice riedizione uno dei più beceri pamphlet antivaniniani, violentemente polemico, scritto da Salvatore Casto contro la celebre epigrafe dettata da Giovanni Bovio in memoria del filosofo taurisanese, "arso, non confutato" e "consacrato al secolo vendicatore". Il libello fu pubblicato in Lecce nel 1908 con lo pseudonimo Nescius e con il pomposo titolo L'iscrizione lapidaria per Vanini Una lucciola tra splendidi pianeti ossia Dialogo tra un Clericaletto ed un Vaniniano in una riunione di altri Vaniniani (in Lecce). Esso è riprodotto "in trascrizione critica e in riproduzione fotografica", come se si trattasse di opera di alto livello letterario, da G. MONTONATO, Cronache vaniniane, Taurisano, 2016 (in concomitanza e in contrapposizione ideologica con l'erezione del monumento a Vanini). Di non diversa ispirazione è l'altro volumetto dello stesso autore Di Vanini... ultimo dialogo a Tolosa, Taurisano 2019 (in concomitanza con il Convegno vaniniano), il quale manca di qualsivoglia valore letterario o storiografico. Tali sono peraltro altri occasionali contributi che, dettati da pregiudiziale ostilità, compaiono sulle pagine di un giornale locale "Presenza Taurisanese", pur essendo privi di consistenza storica e filosofica».
Incominciamo col dire che nel primo caso, Dialogo tra un Clericaletto e un Vaniniano, si tratta di un documento storico, degno del massimo rispetto, a prescindere dai suoi contenuti di merito. Uno storico, quale è il professore Raimondi, sa che un documento o è autentico o è falso, tertium non datur. Stabilito che è autentico, lo storico che lo disprezza perché non ne condivide i contenuti è come quel medico che si rifiuta di curare un malato perché non gli piace la faccia. Che sia stato pubblicato in concomitanza di un evento importante è prassi editoriale e giornalistica, che vale per tutti i personaggi e i fatti della storia e della letteratura. Quanto alla «contrapposizione ideologica con l’erezione del monumento a Vanini» attribuitami è pura invenzione. Lo sanno tutti, dal Sindaco all’Assessore alla Cultura del tempo, ai lettori di «Presenza Taurisanese», che sono sempre stato favorevolissimo al monumento e che la mia contrarietà a far parte della relativa commissione è da attribuire alla presenza nella stessa del professor Raimondi. In molte circostanze, anche scritte, ho sempre plaudito alla realizzazione di quel monumento, al suo autore e al Comune che lo ha voluto. Avrebbe forse preteso che gli chiedessi l’autorizzazione per pubblicare il documento?
Quanto al volumetto Di Vanini…ultimo dialogo a Tolosa, si tratta di un testo di pura fantasia, scritto in assoluta libertà. Credo che se il professor Raimondi lo avesse letto se ne sarebbe facilmente avveduto. Concomitanza? Sì, e allora? Forse il professor Raimondi, ancora una volta, avrebbe preteso il suo imprimatur? Via, scenda a terra! Parla di una mia «pregiudiziale ostilità». Ma quando mai? Posso dimostrare in qualsiasi momento che ho sempre parlato bene di tutto ciò che è stato fatto a Taurisano per Vanini e per altri personaggi locali. Non essendo il caso di elencare tutti gli eventi di cui sono stato ideatore e realizzatore, spesso in collaborazione del professor Raimondi, taccio per buon gusto.
Prima di parlare – gli disse un po’ di anni fa un prete ortodosso – bisogna documentarsi. Non occorre che glielo ripeta io, adesso. Purtroppo è così preso a leggere le cose sue che le altre cerca di divinarle. Ma soprattutto la finisca con la sua idea padronale ed esclusivista della cultura, che fra tutti i vizi che possa avere un intellettuale è il più ridicolo.
Prof. Luigi Montonato
sabato 4 gennaio 2025
Governo, è tempo di fare
Vige una regola nel mondo del calcio: squadra che vince non si tocca. Un buon allenatore si guarda bene dal sostituire un giocatore quando con quel giocatore la squadra ha giocato bene e ha vinto. Il governo Meloni sembra aver fatto propria questa regola, a cui si appella la premier ogni qualvolta qualcuno o dalla opposizione o nella stessa maggioranza accenni a qualche sostituzione o ad un rimpasto. È accaduto che qualcuno ha dovuto dimettersi per cause di forza maggiore. Così la sottosegretaria Montaruli per essere stata condannata in un processo, così per il ministro della Cultura Sangiuliano per una nota vicenda più privata che pubblica. Di recente, dopo l’assoluzione al processo di Palermo, l’attuale ministro dei Trasporti e vice-premier, Matteo Salvini, ha dato l’impressione che non gli dispiacerebbe tornare al Viminale al posto di Piantedosi attuale ministro dell’Interno. Ogni volta che è accaduto si è sentito un coro di no, che la stabilità del governo è una risorsa importante per continuare a governare come fin dall’inizio si è detto. Perfino con la rinuncia alla Fiamma che è nel simbolo di Fratelli d’Italia le risposte sono state chiare: non è all’ordine del giorno, come dire: non se n’è mai parlato.
Ovvio che le cose non stanno proprio così, le turbolenze ci sono, appena appena fatte passare dagli interessati per differenza di punti di vista. Se no – dicono – saremmo un solo partito, invece siamo in quattro, compreso Moderati per l’Italia. È normale che ci siano punti di vista diversi. Sta di fatto, però, che le frizioni tra esponenti dello stesso governo ma di partiti diversi sono aumentate negli ultimi mesi, specialmente tra i leghisti e i forzisti, in merito alla riduzione del canone Rai, voluto da Salvini, non voluto da Tajani. Se vogliamo, una bazzecola, da liquidare presto presto senza molto battibeccare. Ma dietro c’è un braccio di ferro fra questi due partiti che si contendono il secondo posto nella maggioranza. Intorno al dieci per cento essi salgono e scendono, un po’ l’uno e un po’ l’altro. Salvini vuole presentarsi all’elettorato come quello che taglia le tasse, Tajani si preoccupa invece di non far gravare sul bilancio dello Stato le entrate Rai per canone. A prescindere da chi nello specifico abbia ragione, la materia del contendere è irrisoria. Ridurre il canone? Ma lo sa Salvini che le emittenti private hanno fatto terra bruciata intorno al calcio incassando ogni anno milioni e milioni di euro dagli abbonamenti dei tifosi e degli appassionati? Che cosa vuole che sia il taglio di poche decine di euro dal canone Rai? Altre sono le tasse da tagliare e altro discorso è la lotta all’evasione fiscale!
La tenuta del governo passa attraverso queste contrapposizioni che nascondono sempre un dato politico. Non ha senso nascondersi dietro l’ovvio di essere diversi. Ma qui si tratta di operare nei fatti e sui fatti; e qui dovrebbero essere tutti meno litigiosi. Nell’anno terzo del governo Meloni si aprono opportunità importanti per affrontare poi la parte finale della legislatura. Se pure questo terzo anno passa senza che il governo mostri di aver conseguito dei risultati, le elezioni del 2027 saranno più complicate. Facciamo degli esempi concreti: che ne è della riforma della giustizia? Che del premierato? Che dell’autonomia differenziata? Che dell’immigrazione e della soluzione Albania? Che della sanità? Che della scuola, della quale se ne parla da sempre senza mai portare nulla di solido e di concreto? Che dei trasporti, che nel nostro paese diventano sempre più aleatori per i tanti scioperi?
Dividersi e confrontarsi è positivo purché non diventi condizione di parlare parlare senza nulla combinare. Su queste problematiche diventa non dico urgente ma almeno compiere qualche passo avanti significativo. La gente ha bisogno non solo di sentire, ma anche e soprattutto di vedere, di vivere i cambiamenti. Quando la premier Meloni dice che lei vuole vedere l’Italia al termine della legislatura meglio di come era all’inizio del suo mandato ha ragione, ma la formula appare anche un po’ sibillina, nel senso che alla fine una porta per uscire da una situazione difficile la si trova sempre. Si ha ragione, perciò, di temere che le frizioni tra le varie componenti della maggioranza aumenteranno sempre più man mano che si va verso la fine della legislatura e la conseguente campagna elettorale, quando si parlerà di candidature e soprattutto si scatenerà la lotta a chi prende più voti. Allora il governo potrà dimostrare di essere soddisfatto o meno al cospetto del popolo italiano e magari riuscire a portare quanti più elettori al voto, più fiduciosi di prima.
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