domenica 29 dicembre 2024

2025, governo Meloni al giro di boa

Soddisfatti o rimborsati? In politica non vale. Se l’operato di un governo fosse riconducibile ad un bene di consumo, che si potrebbe dire del governo Meloni dopo due anni? Senza vanto e senza scorno. Gli avversari dicono che galleggi. Galleggiare non è negativo, perché comunque chi galleggia non affonda; ma non è nemmeno positivo, perché è fermo sull’acqua e non va né avanti né indietro, come una barca che un disattento barcaiolo ha lasciato senza benzina e non ha remi per tornare a riva. Lo dicono i partiti dell’opposizione e i loro pensatori (giornalisti, intellettuali, cantanti, comici, vignettisti) che in qualche modo in essi si riconoscono e in essi sperano di tornare al governo dei “competenti”, che sono, come ognun sa, quelli di sinistra. Se, tuttavia, confrontiamo quel che gli oppositori dicono oggi e quello che dicevano all’esordio di questo governo, due anni e tre mesi fa, c’è da registrare un innegabile passo avanti. Al governo Meloni non davano più di cinque mesi di vita. Dove poteva andare un governo composto da uomini che avevano sempre fatto opposizione e che venivano da un partito che mai aveva avuto incarichi nei governi e nelle istituzioni? Sarebbe sicuramente naufragato. Era ciò che pensavano con preoccupazione anche tanti sostenitori ed elettori di Fratelli d’Italia, il partito dei postmissini. Le opposizioni graffiavano proprio sull’inesperienza, sull’incapacità, sull’inadeguatezza del personale, nonostante la presenza nel governo dei tecnici e dei provenienti dai partiti di esperienza governativa come Lega e Forza Italia. Il governo Meloni, invece, ha sorpreso anche i suoi sostenitori; ma soprattutto ha sfatato quella che sembrava una verità indiscutibile, che a governare il Paese non potevano essere che i discendenti dalla Dc e dal Pci, ovvero il Pd più qualche cespuglio di circostanza. Ed è proprio sull’inadeguatezza che essi insistono ancora per attaccare il governo Meloni. Non che manchino persone e situazioni per “picchiare”, ma non possono essere solo queste i termini di paragone, anche perché è innegabile che la classe dirigente di Fratelli d’Italia è formata in gran parte da homines novi. Gli stessi che nel passato non hanno avuto opportunità di formarsi e di verificarsi. Oggi è facile dire che il Msi ha potuto vivere e svolgere il suo compito politico in tutta libertà per circa ottant’anni. La verità è che questo partito era ignorato dal dibattito politico e preso in formale considerazione il minimo possibile per non negare platealmente i principi costituzionali. I suoi uomini perciò parlavano e votavano in tutte le assemblee in cui erano eletti, partecipavano alle tribune politiche come tutti gli altri, avevano diritto di rappresentanza in ogni istituzione politica e amministrativa. Per il resto era come se essi non esistessero. Accadeva a qualsiasi livello, anche a quello di paese o di quartiere. Quando c’erano le feste dell’Avanti, dell’Unità o dell’Amicizia tutti erano invitati a partecipare tranne quelli del Msi, che era una cosa in sé odiosa. L’arco costituzionale li escludeva. E tutti si adeguavano. Fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso era così. Mi è capitato di recente di leggere una antologia della rivista satirica “Il male”, uscita per quattro anni, dal 1978 al 1982. Chi cerca in essa un solo riferimento al Msi o a qualche suo uomo, rimane deluso. Niente, questo partito semplicemente non esisteva. Essere preso in considerazione dalla satira, sia pure per essere irriso, era come avere un riconoscimento. Ottant’anni di inesistenza, di morti tenuti in vita solo perché gli stessi si accorgessero di essere morti, hanno prodotto una sfiducia totale nella gente del Msi fino a farla dubitare perfino delle sue capacità di poter fare quello che tutti gli altri facevano quasi per condizione “naturale”. È accaduto, invece, che questo governo non abbia fatto mirabilia, non abbia fatto tutto quello che aveva promesso di fare, dall’immigrazione alle tasse, dalla sanità a qualche significativo aiuto sociale; tira però a campare, galleggia, non affonda, si agita, favorito anche da due congiunture, una nazionale: l’inadeguatezza delle opposizioni incapaci di elaborare un’alternativa credibile, e una internazionale: la crisi delle due grandi nazioni tradizionalmente protagoniste della politica europea, Germania e Francia, che ha fatto assurgere l’Italia a partner privilegiato degli Stati Uniti d’America. All’ingresso del 2025, è iniziato l’anno di mezzo, Giorgia Meloni ha solo la preoccupazione di fare quel che fino ad oggi non ha fatto, se non vuole arrivare alle nuove elezioni del ’27 senza scuse e con un bottino scarso di risultati.

sabato 21 dicembre 2024

Ucraina, la guerra non è stata inutile

Chi ancora sostiene, come fa il giornalista Marco Travaglio, che la guerra Russia-Ucraina è stata inutile, un’orrenda strage di uomini, donne e bambini, tanto scontato era l’esito, mi ricorda un tale del mio paese che la sera, di ritorno dalla bottega di fabbro, non si lavava perché era inutile farlo tanto il giorno dopo si sarebbe nuovamente sporcato. Un paese ne aggredisce un altro, scopo conquista, e l’altro deve starsene zitto e quieto tanto l’aggredito non può competere con l’aggressore e finirà comunque col doversi assoggettare. E zitta e ferma doveva starsene la comunità internazionale per le stesse ragioni. Secondo questo allegro modo di sragionare, la pace precedente e quella susseguente rendevano inutile la guerra. Cose del genere nella storia ne sono accadute rarissimamente. Quando c’è stata un’aggressione, c’è sempre stata una reazione da parte dell’aggredito, la quale, il più delle volte, ha avuto la sua importanza nella determinazione finale. Si dirà: ma la pace è un bene che viene prima di tutto e di tutti. Se l’esito della guerra è tale da non poter scongiurare la sconfitta, perché farla? È presto detto: perché l’aggressore russo, in questo caso, sarebbe passato ad imprese anche più facili nei confronti di Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Georgia, Moldava e via continuando con tutto l’ex impero sovietico. Putin, il neozar, non si è neppure peritato di nascondere le sue intenzioni. Chi viola le regole internazionali va fermato possibilmente nei modi che non siano di peggioramento della situazione. Mi spiego: non si doveva arrivare alla terza guerra mondiale subito dopo che i carri armati russi erano entrati in territorio ucraino. Ma, evidentemente, neppure starsene fermi a guardare, in attesa che la cosa fosse finita col ritorno alla pace, che per l’uno, l’aggressore, sarebbe stata di vittoria, per l’aggredito di sconfitta. La pace non è un bene perimetrabile nello spazio e nel tempo, è qualcosa di assai più ampio. L’Ucraina ha fatto bene e fa bene a battersi e la comunità internazionale fa bene a sostenerla fattivamente. Battendosi si difende la pace vera, la pace dei giusti. Può essere che l’Ucraina abbia commesso degli errori. Può essere che la Nato si sia avvicinata troppo alle porte della Russia. Può essere tutto, ma un dato è incontrovertibile: da una parte c’è stato un aggressore e dall’altra un aggredito. Davvero la guerra è stata inutile? Nel frattempo, con la guerra, un po’ di cose sono cambiate. Svezia e Finlandia hanno chiesto di entrare nella Nato dopo la loro tradizionale neutralità e i paesi che stanno intorno alla Russia sempre più convintamente vogliono entrare nell’Unione Europea. Il piano di ricomporre la vecchia Unione Sovietica, riveduta e corretta, non sembra più tanto praticabile. Tutto questo sarebbe avvenuto se l’Ucraina avesse accettato l’invasione e se la comunità internazionale se ne fosse stata per i fatti suoi in difesa della pace e del quieto vivere? C’è da dubitare. A volte il tempo aiuta a far nascere situazioni nuove. Senza scomodare Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore anti Annibale, la guerra dell’Ucraina ha consentito che maturassero certe situazioni politiche, che rendono oggi la Russia meno spavalda e più conscia delle difficoltà a voler togliere la libertà e la pace ad altri paesi. Ora, dopo due anni di guerra, pare che le due parti vogliano cercare una soluzione. L’ucraino Zielinski ha detto di non avere risorse belliche per recuperare il Donbass e la Crimea. La dichiarazione potrebbe essere letta come un segno di resa e una disponibilità all’accordo, ma anche come una nuova richiesta agli alleati di armi e di mezzi. Dall’altra parte il russo Putin ha detto che è disposto a trattare con tutti anche con Zielinski a condizione che in Ucraina questi venga eletto in maniera regolare. Si sa da sempre che la carica di presidente dell’Ucraina di Zielinski è stata contestata da Putin come irregolare. Anche questa dichiarazione può essere intesa come una disponibilità a trattare, forse Putin conta sul condizionamento del voto in Ucraina o forse, come si dice, mena il can per l’aia. È da ingenui non pensare che Putin abbia “suoi” uomini in Ucraina pronti a fare dell’Ucraina un’altra Bielorussia. Si tratta comunque di spiragli che in una situazione molto complessa potrebbero aprirsi ad una soluzione o a rendere sempre più ingarbugliata la matassa. Pensare che tutto possa risolversi “francescanamente” – con tutto il rispetto! – o alla “Travaglio” è utopia bell’e buona. Finora si è evitato il peggio con soluzioni partecipi e dilatorie; diamo tempo al tempo.

sabato 14 dicembre 2024

Fratelli d'Italia, che c'è da buttare

Recentemente Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento per Fratelli d’Italia, ha adombrato l’opportunità di togliere la Fiamma dal simbolo del partito. Nulla di propositivo ma un passaggio nel corso di un’intervista. Ciriani non è uno qualunque, è un personaggio del partito di Giorgia Meloni che si è sempre contraddistinto per la sua moderazione e per l’immagine che offre di sé, di persona misurata e a modo. Non potevano mancare le reazioni della componente postmissina del partito, essendo la Fiamma uno dei bersagli preferiti degli avversari. La polemica, molto soft e breve, rimanda all’immediato dopoguerra, quando fu scelta dal neonato MSI quale suo simbolo. Se ne sono dette tante sui suoi significati. Agli avversari piace sostenere la leggenda che essa rappresenti la luce e il calore che emana il corpo di Mussolini dalla sua bara, su cui erano le iniziali del partito MSI, letto in acronimo MuSsolinI. Tutte balle. La storia racconta ben altro. Quanto al nome Movimento Sociale Italiano ricalca l’esperienza politica di François de la Rocque in Francia del 1936 Mouvement social français. Questo era un movimento che cercava di unire le varie associazioni combattentistiche francesi dopo la guerra 1914-18, per costituire una grande forza politica. Quanto al simbolo, lasciamo la parola allo stesso Almirante, che ne fu l’ideatore. «Ero segretario del MSI, nel 1947, quando, pochi mesi dopo l’avventurosa nascita del Partito, si profilò l’occasione di misurarci sul terreno elettorale con le votazioni amministrative di Roma. Ancora non avevamo un simbolo e bisognava pensarci in vista degli adempimenti tecnici per quel battesimo elettorale. Il fascio, ancorchè repubblicano, non si addiceva, evidentemente, a quella nostra prima battaglia democratica. Ci pensavo e ripensavo ma non veniva fuori nulla di soddisfacente. Un bel giorno, mentre scendevo le scale della nostra sede di Corso Vittorio, vidi venirmi incontro un giovane mutilato di guerra della Rsi che arrancava su una sola gamba e una stampella. Mi fermò – qualcuno aveva già imparato a conoscermi e a riconoscermi – e mi disse ‘Tu sei Almirante? Bene. Ma com’è che sulla porta di questo partito non c’è un’insegna? Non ce l’avete?’. Non ancora, risposi imbarazzato. E quello: ‘ Ma non è il Partito dei combattenti? E allora perché non gli metti il simbolo dei combattenti, la fiamma?’. Il giorno dopo chiamai un amico disegnatore e lo misi al lavoro, sino a quando, dopo una serie di schizzi, tracciò i segni di quel fortunato simbolo che da quarant’anni, nei giorni lieti e nelle ore buie, caratterizza la nostra esaltante esistenza». (Intervista di F. M. D’Asaro ad Almirante del 1986). Il motto che si dice coniato da Augusto De Marsanich, primo segretario nazionale del Partito, “Non restaurare non rinnegare”, ben s’accorda alla Fiamma. Essa per sua natura è qualcosa che finché arde c’è, che è fondamentalmente presente. Non restaurare, infatti, taglia corto, ove ce ne fosse bisogno. Dopo 76 anni il Partito, senza restaurare e senza rinnegare, è giunto al governo ed è proiettato verso il futuro. La Fiamma lo ha accompagnato per tutto il lungo e accidentato percorso. Bisogna prendere atto che i dirigenti del Partito hanno voluto ribadire, lasciando la Fiamma sulle loro bandiere, che il Partito è nato nel 1946 e nel corso degli anni si è sempre attualizzato. Neppure l’Italia di oggi è l’Italia di Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini e Garibaldi, ciò nondimeno ha conservato tutta la sua dimensione, politica, morale e patriottica. Non è tanto per una sorta di nostalgia o di romanticismo che si deve continuare ad averla nel proprio simbolo, ma per dare sempre l’idea ai giovani che tutto viene dal passato, da un passato fatto da altri giovani con sudore e sangue. Conservare i segni della propria identità è potente, significa che in ogni momento si ha a disposizione una grande forza di attrazione, una squilla che chiama a raccolta. Quando Fratelli d’Italia si è proposto poco più di dieci anni fa dalle rovine del sistema partiti aveva appena il due per cento. Era la raccolta. Negli anni successivi ha saputo dire agli italiani: noi siamo quelli che vengono da lontano e non hanno nulla di cui vergognarsi. Gli italiani hanno capito. Che cosa i Fratelli d’Italia possono buttare perché non serve più e anzi è dannoso? Quel modo ruvido e compiaciuto di far pesare sugli altri l’alterigia di chi escluso e pestato per anni ha saputo rialzarsi e battersi con successo. Ecco, questo con gli anni non ha più ragione di esistere, perché le esperienze dei giovani di Fratelli d’Italia di oggi non sono le stesse dei giovani missini di ieri. Ne è “testimone” proprio la Fiamma, che ha “visto” gli uni e sta “vedendo” gli altri.

sabato 7 dicembre 2024

La democrazia possibile. Accontentiamoci

La democrazia, diceva Churchill, è la più brutta forma di governo, eccetto tutte le altre. Non è uno dei soliti paradossi che fanno storcere il labbro e la mente. Basta pensare per un attimo alla assurdità democratica. Una parte, la maggioranza, governa e l’altra, l’opposizione, fa di tutto per non farla governare, per farla fallire. Danneggiato è il Paese. Nessuna opposizione in democrazia è disposta ad ammetterlo, ma è innegabile che sia così. Ben lungi dal governare insieme ciascuna dal posto e dalle ragioni che occupa esse sono in “guerra”. Anche questa è vera: la guerra – diceva Von Klausewitz è politica continuata con altre armi. Anche all’interno delle due parti si riproduce in sottomultipli il dualismo, per cui, come diceva Carl Schmitt, in politica ciascuno è amicus hostis dell’altro. Ciò che conferisce dignità alle parti è lo scopo, ovvero l’ideologia, vera maschera che copre tutto, perfino le turpitudini più nefande. La vera educazione politica è quella di insegnare ai giovani come scoprire gli inganni e le frodi, atteso che, però, non è tutto frodi e inganni. Ci sono le componenti buone, che, a seconda del valore di chi le esprime, possono risultare vincenti. La democrazia, come tante altre belle cose inventate dall’uomo, non esiste se non come sollecitazione a muoversi verso una direzione nel rispetto della legge comune, che ora si chiama Statuto ora Costituzione. Che tanto sia vero lo dicono le affermazioni dei tre più affermati dittatori del Novecento. Per Mussolini il fascismo era democrazia, così il nazismo per Hitler, il comunismo per Stalin. Pertanto essa ha bisogno di una sua precisa identità, che la distingua da ogni dittatura, ed è la ricerca continua di se stessa, il suo farsi nella libertà di tutti gli individui di una nazione. Né il fascismo, né il nazismo, né il comunismo erano democrazia per due motivi: primo, durante il loro imperio non c’era ricerca di inclusione; secondo, non c’era libertà di partecipazione. Ciò detto, non esiste un grado massimo di compiutezza della democrazia, oltre il quale non è possibile andare. Esiste una democrazia possibile, un farsi della democrazia. Quando si parla di riforme, che è l’obiettivo di ogni governo, si dimentica che la politica non può darsi dei limiti di tempo per realizzarli. Se ci fosse una scadenza – che so, un cataclisma che ponesse fine a tutto – si avrebbe ragione di dire affrettiamoci a realizzare ciò che ci preserva dai pericoli. Ma questo limite non c’è e allora occorre accontentarsi della democrazia possibile. Il che non significa che non è democrazia quella che procede lentamente e realisticamente nel suo farsi. Nel percorso democratico ogni tappa è democrazia, se in essa si ravvisano le sue spcificità suddette. Facciamo un esempio: Oggi nei confronti della cosiddetta comunità Lgbt+ c’è una considerazione sociale e istituzionale che non c’era venti anni fa. Si può dire che venti anni fa in Italia non c’era democrazia, perché questa comanità non era considerata come lo è oggi; che oggi non c’è democrazia perché l’obiettivo massimo non è stato ancora raggiunto? Evidentemente no. La democrazia di ieri e quella di oggi sono democrazie possibili, perché in esse si ravvisa la ricerca del raggiungimento di una condizione di libertà e di partecipazione senza fughe in avanti che spesso compromettono il processo. Accanto alla sigla Lgbt c’è un + indefinito che indica proprio la continuità della ricerca e della libertà, l’inclusività senza limiti. Ieri questa umanità era segregata, oggi è alla luce del sole, pur con le inevitabili resistenze, che non senza importanza oggi ognuno tiene per sé. Può accadere domani o dopodomani che il processo compia un altro passo e poi un altro ancora. Può accadere anche che alcune conquiste oltre che segnare il passo facciano registrare dei passi indietro. Anche questo rientra nella democrazia possibile. Si tenga conto che la democrazia ha valore universale e paradossalmente comprende anche chi è contrario a certe inclusività. Nel dibattito politico ci sono i conservatori legati a valori diversi da quelli dei progressisti. Può accadere che i conservatori diventino in un paese la maggioranza e inseguano ritorni all’antico. Essi vanno combattuti con le stesse armi con le quali i conservatori sono riusciti da minoranza che erano a diventare maggioranza. Nessuno pensi di poter cristallizzare ciò che è fluido. In politica e ancor più in democrazia, che, per tornare a Churchill, della politica è la realizzazione più brutta a prescindere da tutte le altre, tutto è fluido e prende la forma che gli uomini sanno imprimere nei luoghi e nei tempi che consentono.

sabato 30 novembre 2024

Violenze: e se ricominciassimo daccapo?

Sì, va bene, i femminicidi! Ma qui non manca giorno che non si uccida qualcuno in maniera più o meno feroce. Si dirà: il mondo è andato sempre così. Vuol dire pure qualcosa se la storia inizia con un delitto, quello di Caino che uccide Abele. Vuol dire che la vita ha iniziato con due grandi peccati. Uno, l’originale, per così dire di disobbedienza e di piacere; l’altro, il primo in assoluto, di potere e di dolore. E il mondo, così avviato, non finisce di macinare morti ammazzati. Lasciamo stare le guerre, che vengono fatte proprio per uccidere quanto più è possibile per poi, contando i morti, valutare quel che si è vinto. C’è nella società odierna una sorta di inflazione della violenza mortale. Non è più tempo di schiaffi, di pugni, di scazzottate. I ragazzi, una volta, prima di affrontarsi stabilivano se lo dovevano fare a pugni o a lotta e chi trasgrediva perdeva la stima degli amici. C’era lealtà perfino nei comportamenti negativi. Oggi si va direttamente a colpire per uccidere, in tutte le età, in tutti gli ambienti. È quanto vediamo in Italia, il nostro beneamato Paese, dove ormai si uccide per niente, dove si è perso qualsiasi valore per la vita. Spesso chi uccide dice di non sapere perché lo ha fatto. Che così, gli è scappato il colpo per gioco. Forse sarebbe il caso di introdurre a scuola dei corsi per spiegare le armi, l’uso e le conseguenze. Non sapere perché si spara e non conoscere le conseguenze del gesto è inquietante. Corriamo tutti dei pericoli quotidiani. Non ci sentiamo più all’interno di una società, che ci protegge; ma in un campo sparso di automi, dove ognuno va per conto suo e non vede neppure l’altro per rivolgergli un sorriso o un saluto, convinto di non dovere niente a nessuno. Tutti puntiamo dritti alla felicità propria, individuale, che mal s’accorda con quella degli altri, siano gli altri grandi o piccoli, famigliari o forestieri. I giovani non vogliono figli per non doversi sacrificare per essi. I figli, appena possono, scappano per non doversi sacrificare per i genitori. Il sacrificio è bandito come condizione di obbligo morale. Molte costituzioni, figlie del pensiero illuministico, dicono esplicitamente che lo scopo della vita è la felicità. Il sacrificio è l’opposto, l’altruismo, a partire da quello interno alle famiglie, è l’opposto. C’è cultura in questa condizione, non è solo stortura, degenerazione. I femminicidi sono stati eletti ad unico obbrobrio, ma c’è tanta altra barbarie diffusa. Una mamma, che, per non privarsi del piacere di passare un po’ di giorni in allegria col ganzo, lascia la figlioletta di pochi mesi sola in casa per cinque-sei giorni di fila e la ritrova morta. Un’altra giovanissima donna partorisce e seppellisce in giardino i neonati senza che nessuno se ne accorga. Un’altra ancora uccide la sua piccola di pochi mesi e non sa dare una spiegazione. Per converso ci sono giovani che uccidono la mamma e le strappano il cuore con le mani. Ragazzi e ragazzini che sparano e si accoltellano come una volta risolvevano i bisticci con una semplice spinta e caduta per terra, qualche graffio al massimo e la maglietta strappata. Com’è possibile che il mondo non si renda conto del precipizio in cui è caduto? Ovvio che la colpa non è del singolo ma della situazione nel suo complesso. Il che non significa deresponsabilizzare l’individuo, non punirlo per quello che ha fatto. La punizione è conditio sine qua non per la rieducazione. Ma si deve poi passare ad affrontare la questione in maniera più comprensiva per prevenire, per indirizzare la società verso una vivibilità con meno problemi e più stimoli. Le agenzie educative tradizionali hanno perso la loro autorevolezza, conseguenza della perdita di autorità. I genitori degli alunni a scuola organizzano spedizioni punitive nei confronti dei professori, che in ogni caso sono soggetti a sanzioni disciplinari ove si comportino male con gli alunni. I ragazzi, invece, sfregiano le auto dei professori, gli rivolgono ingiurie e minacce sui muri, li aggrediscono in ogni modo con armi e oggetti. I professori possono aver torto come tutti gli esseri umani ma non possono essere violati nella loro dignità e purtroppo anche fisicità. I professori possono e devono essere puniti se sbagliano, ma a punirli lo devono fare le istituzioni e le leggi, non i boss o i figli dei boss o addirittura direttamente gli alunni. In matematica, quando non si trova il risultato di un problema, inutile cercare dove si è sbagliato, lo si rifà daccapo. Così nella vita. Del resto Pasolini lo disse cinquant’anni fa: «La bacchetta, papà, la bacchetta…un po’ di bacchetta!» (Lettere luterane).

sabato 23 novembre 2024

Ma esiste ancora il Pd?

Una delle più celebri ballate di François Villon chiude le strofe col refrain: ou sont les neiges d’antan? (dove sono le nevi dell’altro anno?). C’era in Italia una volta un partito che si chiamava Pd (Partito democratico). C’è ancora, ma quanto è lontano dalla sintesi Dc-Pci, quale era agli inizi! Di fronte alla crisi che lo attanagliava di dirigenza e di voti decise qualche anno fa di riordinarsi per ripartire. Elesse un suo nuovo segretario, che fu Stefano Bonaccini, un uomo di ceppo, voglio dire solido, bravo presidente della Regione Emilia Romagna, un politico che sembrava cadere a fagiuolo per un partito un po’ allo sbando dopo molte strenzate. Ma quando nelle cose entra il verme del male non c’è verso. Il verme fu il marketing. Il Pd volle ri-contarsi con una nuova elezione del segretario, andando a chiedere il voto non solo agli iscritti questa volta ma a tutti gli “aderenti” ad un supposto altro Pd diluito nella società. Questa volta venne eletta una segretaria, la Elly Schlein, il cui nome molti italiani, benché istruiti, neppure sanno pronunciare correttamente: benestante, omosessuale, poliglotta, multipassaporto, ebrea. Erano i tempi di Giorgia Meloni, che, a destra, faceva mirabilia; era necessario che a sinistra si rispondesse di conseguenza. S’ode a destra uno squillo di tromba, dice il Manzoni nel primo coro del Carmagnola, a sinistra s’ode uno squillo. Ma la politica non è letteratura. L’operazione dei due segretari a rincorrersi non ha funzionato. La politica, ridotta ormai a immagine, si è preso il suo e ha fatto capire che non si deve puntare ad una donna siccome il nemico vincente è guidato da una donna. Bonaccini peraltro aveva dimostrato qualità nient’affatto trascurabili. Un partito deve sempre mettere in campo il meglio che ha. La Schlein neppure era iscritta al partito. Ma dal momento che la Schlein si è insediata a capo dei lanzichenecchi del centrosinistra – absit iniuria – non si sente più parlare di un’intera classe dirigente del Pd, todos desaparecidos. Dove sono i Rosato, i Franceschini, i Del Rio, gli Orlando, gli Speranza? Ou sont les neiges d’antan? Un’intera classe dirigente si è squagliata. Fa ridere e piangere allo stesso tempo Pierluigi Bersani quando sostiene che ha torto De Luca in Campania a chiedere il terzo mandato. «De Luca – dice – dovrebbe fare quello che faccio io», cioè andare da una trasmissione all’altra a fare propaganda contro la politica del “Bar Italia”, una sorta di pensionamento attivo. Conta poco per lui mantenere la Regione o perderla. L’importante è il punto. Beninteso, il principio del limite ai mandati è un buon principio, ma perché voler buttare una macchina quando ancora va? Se la posta in palio è la presidenza di una Regione, buon senso vorrebbe che si continuasse con quello che al momento sembra “l’usato sicuro”. Le sinistre di tutto il mondo subiscono sconfitte e sconfitte. Certo, obietterà qualcuno: ha da passà a nuttata, come diceva Eduardo. Prima o poi cambierà il vento e la sinistra – questo almeno nei voti di chi è a sinistra – tornerà a brillare in tutti i consessi, dai cittadini a quelli europei. In Europa, peraltro c’è una curiosa situazione. Nei vari paesi europei avanzano le destre, mentre in Europa resiste la roccaforte delle sinistre, al punto che fanno la voce grossa: questo sì e questo no, come è accaduto nella nomina dei vicepresidenti esecutivi della Commissione. La sinistra in Italia continua a non capire che la gente preferisce i politici pragmatici, poco ideologizzati, magari un po’ volgari e privi di bon ton, ma capaci di risolvere i problemi. Se, come pare che stia accadendo in ogni parte del mondo, le politiche migratorie e quelle dei diritti civili, per come le propone la sinistra, non incontrano il favore della gente, buonsenso vorrebbe che si cambiasse registro. Mosè non è ancora tornato sul Sinai a far rivedere le leggi a Domineddio. Dove è scritto, in quale tavola, che si devono favorire le derive migratorie e quelle sociali dei diritti civili per una minima percentuale della popolazione contro il parere della maggioranza? La risposta è che la democrazia richiede un simile atteggiamento, poiché la marcia del progresso va in quella direzione. Ma così si pone un grosso problema, che investe la stessa democrazia, la quale non ha una sola dimensione. Impedire che sbarchino in Italia tutti i migranti di questo mondo e contenere i diritti civili entro il possibile non è antidemocratico, è quanto la democrazia può offrire in questo momento. La democrazia è anche gradualità.

sabato 16 novembre 2024

Mattarella, quando ci vuole ci vuole

Succede a chi segue la politica per conoscere e far conoscere, per apprendere e far apprendere – compito della pubblica informazione – che oggi ci si deve perfino arrabbiare di fronte a gesti e parole dei politici e dei rappresentanti delle istituzioni e domani dover riconoscere la giustezza di un intervento, di un provvedimento degli stessi. Apparentemente può sembrare una contraddizione da Girella, il famoso personaggio del Giusti, una confusione di idee. Non è così. Quel che conta, da cui si deve partire, è il fatto. Solo il fatto è realtà, il resto è ciò che si può valutare e non è contraddirsi su un uomo politico se oggi gli dici bravo se agisce bene e domani lo critichi se agisce male. Anzi, proprio nell’apparente contraddizione c’è il succo dell’onestà intellettuale, la credibilità di una persona. Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica del bis, dopo quello di Giorgio Napolitano, ha compiuto un gesto importante nei giorni scorsi invitando Raffaele Fitto al Quirinale. Le parole e i gesti del Presidente vanno saputi interpretare, qualcosa di più della semplice interpretazione, che è ovvia. Mattarella si è complimentato col Ministro per il bell’esame sostenuto davanti alla commissione che doveva saggiarne la preparazione e l’adeguatezza a ricoprire l’alto e prestigioso incarico di vice-Presidente esecutivo della Commissione Europea. A Fitto non è stata ancora ratificata la nomina e da quel che si dice molto dipende anche dalla decisione di Elly Schlein, segretaria Pd e capo dell’opposizione al governo di Giorgia Meloni, di cui Fitto è parte. Cosa ha voluto dire Mattarella col suo gesto? È sicuramente un caso di moral suasion, che, cambiato in moneta politica sonante, vuol dire che sarebbe opportuno che la Schlein favorisse la nomina di Fitto in Europa. A questo genere di “presenza” Mattarella ricorre spesso, anzi va sempre più caratterizzandosi come il Presidente che dice sempre la “sua” senza minimamente mancare di rispetto alle altre. Ma Mattarella ha anche detto parole molto importanti in questi ultimi giorni, sia nel corso delle sue visite all’estero, in Cina soprattutto, sia in Italia. Argomento: la democrazia. All’estero Mattarella ha voluto far conoscere la qualità della nostra democrazia, senza per questo offendere minimamente quei paesi, fra cui la Cina, dove la democrazia è fatta di altro metallo, per così dire. In Italia, mentre si discute nelle sedi istituzionali e ci si aggredisce nelle piazze come cani arrabbiati, Mattarella ha tenuto una bella lezione sul ruolo del Presidente della Repubblica, che è sempre di arbitro e di “guardiano” della Costituzione. Evidente che lui parlasse di sé riferendosi agli altri. Ha tenuto a dire che lui non sempre condivide le leggi del Parlamento e del Governo, ma siccome esse sono state votate liberamente lui non può rifiutarsi di promulgarle, salvo che non vadano contro la Costituzione. Chi ha voluto capire a che cosa si riferisse ha capito. La legge sulla maternità con l’utero cosiddetto in affitto, che la rende reato universale, è stata da lui promulgata, probabilmente, però, senza condividerla. Bella e plastica la metafora dei fortilizi. Le istituzioni non possono essere postazioni di combattimento e di potere, col tentativo continuo di invadere il territorio nemico. Ciascuno al suo posto dovrebbe comportarsi non come il difensore di un potere ma come l’espressione democratica di una struttura operante per l’intera Nazione. Impossibile non ricorrere col pensiero allo scontro tra magistrati e politici, che hanno esposto il Paese a intromissioni dall’estero, verso cui Mattarella si è rivolto con parole dure ma appropriate. Un caso di moral suasion ai giudici, a cui, non piacendo le politiche del governo in materia di immigrazione clandestina, ricorrono alle loro “armi” per ostacolarne il funzionamento? O ai politici, che pensano di poter applicare le loro leggi senza nessun controllo da parte della magistratura? Probabilmente per entrambi i fronti. In Italia c’è necessità di tante cose, materiali e morali. Di una in particolare c’è bisogno da sempre ed è la cultura democratica. Essa consiste nel riconoscere le ragioni della parte avversa, ma non nel senso negativo - è pure giusto che tu ti opponga dato che sei all’opposizione – ma in positivo; è lodevole che tu approvi un provvedimento del governo pur essendo all’opposizione. Questa è cultura democratica. Tutto il resto è chiacchiericcio, spesso inutile, più spesso dannoso. Nelle parole di Mattarella occorre cogliere quel che c’è: il frutto e il seme di questa cultura.

sabato 9 novembre 2024

Politicamente scorretti non significa essere maleducati

Ogni tanto a bordo strada incontri qualche signora che non ci metti molto a capire che si tratta di una prestatrice d’opera. Se ti fermi e a lei ti rivolgi chiamandola per l’attività svolta, quella, che pure sta lì apposta, ti può querelare o spaccarti la faccia. E avrebbe ragione nell’uno come nell’altro caso. Il politicamente scorretto non può essere mai maleducazione. La parola “politicamente” lo preserva in un preciso contesto che è quello della politica. Fuori da quel contesto è violenza verbale, variamente punibile. Di recente Elon Musk, il presidente della Tesla, l’uomo più ricco del mondo, che progetta di andare e venire da Marte, sostenitore di Trump nella campagna presidenziale vincente negli Usa, ha chiamato Olaf Scholz, il cancelliere della Germania, «scemo». In altri tempi la cosa poteva risolversi come minimo con un duello. Oggi, semplicemente non si risolve, la si lascia sospesa. E meno male, perché Musk sarebbe capace di infilzare il povero Scholz al primo assalto, data la differenza d’età e di indole. Scholz, probabilmente, aspetterà l’occasione per servirgli la risposta. C’è oggi in Italia un deciso attestarsi sul politicamente corretto, che, per dirla con un termine immediato e diretto, potremmo chiamare ipocrisia. In politica l’ipocrisia non è un difetto, è un pregio perché tende a sdrammatizzare e a far passare una cosa brutta per qualcosa che non ha niente a che fare né col bello né col brutto. Purché non si usi l’ironia, perché in questo caso salterebbe subito all’occhio la scorrettezza. La frase con cui Berlusconi si rivolse a Rosy Bindi, «lei, signora, è più bella che intelligente» fu doppiamente scorretta. L’avesse detta ad una bella donna, l’offesa sarebbe stata semplice; ma lo disse ad un’anziana signora che certo non brillava per bellezza, dunque se non brillava per bellezza meno ancora brillava per intelligenza. Purtroppo il politicamente corretto ha invaso ogni campo in maniera anche esagerata, contravvenendo alle più elementari regole della comunicazione, che impongono di essere rapidi, essenziali e sintetici, usare il minor numero di parole possibile. In nome del politicamente corretto c’è un sovvertimento generale nella comunicazione. I portatori di handicap, ciechi muti sordi disabili in genere, premesso che a loro non ci si rivolge con questi termini, perché si sarebbe maleducati. Essi diventano non vedenti, non parlanti, non udenti, diversamente abili; e va da sé che a loro non ci si rivolge direttamente neppure in quest’altra forma. Il discorso vale nel discorso indiretto, dove non si offende nessuno in specifico e l’una forma vale l’altra. Dire cieco o dire non vedente è la stessa cosa, solo nella seconda forma si impiegano due parole invece di una. Ma non è solo questione di quantità di parole. Ci sono proverbi, “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, per esempio, che vengono privati della loro forza semantica se riproposti in politicamente corretto. Se dici “chi va con un diversamente abile impara ad essere un diversamente abile”. Così “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” perderebbe trasformandolo in “non c’è peggior non udente di chi non vuol non udire”. Oppure “il figlio muto la mamma lo capisce” trasformato per il politicamente corretto “Il figlio non parlante la mamma lo capisce”. La buona educazione vuole che in presenza di un portatore di difetto non si citi quel difetto. Comunque nel corso dei secoli le cose sono mutate. Pensiamo ai romani, i quali conferivano i tria nomina (tre nomi: prenomen, nomen, cognomen) alle persone importanti. Il cognomen era il soprannome, un privilegio. Cicerone (Marco Tullio) era così chiamato perché aveva un grosso porro in faccia a forma di cece. Il poeta Orazio (Quinto Orazio Flacco) aveva per cognome Flaccus (molliccio) perché era basso, grosso e flaccido. L’imperatore Claudio fu così detto perché era zoppo (da claudico). In realtà il politicamente corretto ha impoverito la nostra lingua, ha burocratizzato la comunicazione e non risolto minimimente il problema, giacchè è parimenti offensivo rivolgersi direttamente ad un sordo chiamandolo non udente. Ad una persona, quale che sia la sua condizione, ci si rivolge con educazione senza nessuna intitolazione né in positivo né in negativo. La nostra era si sta caratterizzando sempre più per una sorta di diffuso pietismo. Niente a che fare col Pietismus, corrente culturale-religiosa in Germania tra Sei-Settecento, ma tendenza a smussare, addolcire, eliminare tutto ciò che appare duro, avvicinare gli esseri umani verso un punto condiviso che non segni differenze. Tutto questo è positivo purché non si esageri e impoverisca il lessico, in una fase in cui peraltro la nostra lingua viene sempre più mortificata e perfino greco e latino vengono letti all’inglese. È uno sproposito sentire conduttori e conduttrici in televisione pronunciare il grecissimo «bio» bai e il latinissimo «plus» plas. Che onomatopeicamente fa pensare ad un tonfo rovinoso.

sabato 2 novembre 2024

La voce della "pozzanghera"

Io quell’Alessandro Giuli, ministro della cultura, lo “conosco” da molti anni. Le virgolette sono d’obbligo perché di persona non l’ho mai visto, mentre il divario di età e di luogo scoraggia dal cercare improbabili circostanze d’incontro. Agli inizi degli anni Zero del secolo nuovo ci trovammo insieme in una rivista “L’Officina”, che usciva a Roma. Chiaramente di destra, aveva come sottotitolo “Le ragioni nazionalpopolari”. Stare in uno stesso luogo culturale è come convivere in una stessa casa e ti viene spontaneo cercare di conoscere gli altri con-viventi. Mi misi a leggere i suoi interventi, come del resto quelli degli altri. Fui colpito dal fatto che di qualunque cosa trattasse non si capiva niente. La sua prosa era come una ragnatela, il significato sfuggente come polvere. Sarà perché io ho la mentalità dello storico – mi dissi – e dunque privilegio i fatti il più chiaramente possibile esposti! Dimostrava comunque una propensione per la filosofia, per la religione, per l’esoterismo. Un po’ di anni fa un amico mi regalò due suoi libri, una raccolta di poesie e un romanzo. Idem con patate. Non si capiva niente. Non so più dove siano andati a finire quei due volumetti, per cercare di rileggerli oggi e vedere se a distanza di anni capisco qualcosa che l’impazienza non mi consentì di farlo quando m’approcciai la prima volta. Il Giuli, però, ha dimostrato negli ultimi anni di possedere buone doti scrittorie. È capibilissimo, pur con quella ricercatezza lessicale che qualche volta lo fa scivolare fuori pista. Non sarebbe diventato un collaboratore del “Foglio” e poi addirittura condirettore se non si fosse in qualche modo piegato all’esposizione facile e diretta, tipica del giornalista. I suoi libri, ne ho letti due, “Il passo delle oche” e “Gramsci è vivo”, li ho trovati divertente il primo, con molto humour, e un po’ irritante il secondo per le genuflessioni continue all’altare di Madonna Costituzione. Essa è da rispettare, ma non da venerare. La venerazione insospettisce e fa pensare ad altre cose, che il buon Andreotti chiamava “male”. Infatti Giuli è stato eccessivo quando, commentando alcune scene di camerati che salutavano romanamente e cantavano inni fascisti così solo per divertirsi e per il gusto di trasgredire, ha usato la parola “pozzanghera”. Quei giovani, che sicuramente avevano votato Fratelli d’Italia e contribuito a farlo diventare Presidente del Maxxi prima e Ministro della Cultura dopo, non meritavano di essere scaraventati in una sorta di bolgia dantesca, dove Giuli condanna i peccatori irriducibili. Non so lui, ma io in quella “pozzanghera” ci sono stato e forse perfino la Meloni nei suoi anni più giovanili c’è stata; non dico che lì dentro si è fatto il bagno, ma insomma i piedi credo se li sia bagnati qualche volta, perché in quella pozzanghera c’è l’humus della cultura nazionalpopolare. Giuli non è più per simili cose, forse non lo è mai stato. E neppure la Meloni lo è più. Ma mi piace pensare che lei tra una vasca piena di latte di asina e una pozzanghera, tutto in senso figurato s’intende, di cui Giuli è maestro, piuttosto che fare la Poppea, un pensierino per la pozzanghera lo avrebbe fatto. Non ha più l’età e la condizione sociale per sguazzare liberamente tra girini e ranocchi; ma non credo che lei per quell’ambiente abbia lo stesso giudizio di Giuli. Nel 1977 Marco Tarchi, allora giovane dissidente del Msi, fondò una rivista satirica, “La Voce della Fogna”. Fu un successo che, però, gli costò l’espulsione dal partito. La “pozzanghera” di Giuli è imparagonabile alla “fogna” di Tarchi. Nella prima c’è disprezzo, nella seconda c’è tanta autoironia e nobile difesa di una condizione. Quando “La Voce della Fogna” fu fondata, sui muri delle città italiane i comunisti scrivevano “fascisti carogne tornate nelle fogne” e rischiavi all’Università o per strada di rimediare qualche sprangata in testa. Oggi i fascisti-missini o quel che di loro resta vivono nei salotti della politica e forse alcuni di loro occupano spazi patinati ai quali non sono affatto adeguati. Il partito non ha meglio da offrire o se pure ce l’ha preferisce i “fidati”. Meloni non sbaglia, ma prima o poi sarà costretta a rischiare di affidarsi a qualcuno che al potere non arriva perché non c’è di meglio, ma perché ha più spiccate e comprovate doti. La vicenda del Ministero della Cultura, da Sangiuliano a Giuli, è emblematica. Ma, onestamente, tra il modesto Sangiuliano e l’esoterico Giuli era da preferire il primo. Per Sangiuliano non c’era niente di meglio, per Giuli non c’era niente di peggio.

sabato 26 ottobre 2024

Ennio Licci, venticinque anni dopo

Ennio Licci morì il 28 ottobre 1999. Una data di morte iconica, anniversario della Marcia su Roma. Certe coincidenze hanno dello straordinario. Aveva 56 anni ed era missino, ovvero fascista, ovviamente per come poteva essere un fascista in democrazia: formalmente rispettoso della Costituzione e delle leggi dello Stato. Per essere percepiti fascisti era – ed è sufficiente ancora oggi – avere del fascismo storico un’opinione diversa dalla vulgata resistenziale e antifascista. Per le sue idee politiche, come tutti i missini-fascisti, Ennio era sistematicamente escluso dai fasti democratici e antifascisti, chiusi nella formula rigida dell’Arco costituzionale. Questo abbracciava tutti i partiti che avevano concorso all’elaborazione e all’approvazione della Costituzione, partito comunista compreso. Il Msi non poteva essere incluso perché quando si votò per eleggere l’Assemblea Costituente, il 2 giugno 1946, non esisteva; fu fondato il 26 dicembre di quell’anno. E chi si era trovato, trovato! Ma, posto che a quella data fosse esistito, non sarebbe stato chiamato lo stesso a far parte dei costituenti a causa della sua origine, dichiaratamente “fascista”. Ennio prestò il servizio militare in Marina. Si laureò in Lingue e Letterature Straniere, quadriennalista di inglese. In Inghilterra era stato per specializzarsi nella conversazione in lingua, mantenendosi a Londra facendo il cameriere. Non che la sua famiglia non fosse in condizione di mantenerlo agli studi anche in Inghilterra, ché era una delle più benestanti di Ruffano; ma lui volle fare anche un’esperienza lavorativa, della quale era particolarmente orgoglioso. La sua attività politica era intensa e continua, andava dall’organizzazione e partecipazione a Ruffano, suo paese, alle elezioni amministrative, alla propaganda politica nei comuni vicini, al controllo del territorio, fondando sezioni e assistendole con varie iniziative politiche. Per questa sua attività fu eletto due volte al Consiglio Provinciale per un periodo di dieci anni, dove ebbe modo di distinguersi in alcuni settori della pubblica amministrazione, come riconobbe l’On. Giacinto Urso suo presidente della Provincia in occasione di una cerimonia commemorativa. Lo sconvolgimento dei primi anni Novanta con Tangentopoli, Mani Pulite, Berlusconi e lo sdoganamento del Msi, vide Ennio Licci, come tutti i missini-fascisti, iniziare un percorso accidentato. Il Msi-Destra Nazionale, nel Congresso del 1995 a Fiuggi chiuse col Msi, divenne Alleanza Nazionale. Il partito si scisse ed Ennio seguì Pino Rauti che fondò il Msi-Fiamma Tricolore. Questo partito non ebbe molta fortuna. Ennio, in disaccordo con i dirigenti provinciali, lo lasciò. In un primo momento si propose di fondare la “Repubblica Salentina”, una lista locale più che un partito per non disperdere il suo seguito elettorale che a Ruffano era assai consistente. Ma anche perché in lui, negli ultimi tempi, c’era un attaccamento al territorio e alla sua storia, al localismo, che non poteva prescindere dai Borbone e dalle rivendicazioni meridionalistiche. La sua “repubblica” rimase un’idea. Ma presto cercò di tornare in campo aderendo a Mani Pulite, il partito fondato da Antonio Di Pietro, uno dei più determinati giudici di Tangentopoli. Con questa lista tornò in Consiglio Comunale. Fu l’ultimo tratto della sua lunga attività politica. Una malattia lo aggredì nell’estate del 1999 e non lo fece arrivare ad affacciarsi al nuovo millennio. Anche da questo fu escluso. Aveva appena iniziato il suo ultimo anno scolastico, sarebbe andato in pensione dall’inizio del successivo. Lui, che da sempre aveva eletto il fare come principio di vita, non giunse alla quiescenza, nella quale sperava di impegnarsi ancora di più in politica. Difficile dire dove Ennio sarebbe finito politicamente se non fosse morto. Spesso me lo sono chiesto. Dopo il ritiro di Antonio Di Pietro e la fine di Mani Pulite, probabilmente avrebbe aderito, non foss’altro che per la novità, al movimento di Grillo, dove sono andati a finire tanti missini-fascisti. Forse avrebbe coronato la carriera politica in Senato o alla Camera, vista l’abbondanza di eletti grillini nel 2013 e nel 2018. Ma è una supposizione mia, del tutto capotica. Certo, fermo non sarebbe rimasto. Aveva della politica un’idea soprattutto del darsi da fare. A me sarebbe piaciuto che fosse tornato a destra, magari in Fratelli d’Italia. Ma questi sono sentimentalismi del tutto personali. Una cosa è certa. Lui sarebbe potuto finire, per somma di paradossi, anche in un partito dichiaratamente antifascista, sarebbe rimasto sempre lui, con le sue idee, con la sua storia, con quella bellissima e fornitissima biblioteca, a cui io attingevo continuamente per le mie ricerche. Dove spiccavano i suoi cimeli, la raccolta di Critica Fascista di Giuseppe Bottai, l’autografo di Gabriele D’Annunzio, le foto con Giorgio Almirante, la katana appesa, le foto di Juko Mishima, di Julus Evola e di Ezra Pound, l’emblema della casa borbonica. Dove lui si sentiva nel suo mondo, ed era se stesso.

sabato 19 ottobre 2024

Affare migranti: giudici dalla mentalità comunista

Io credo che prima o poi in Italia ci dobbiamo porre il dilemma se stare in una dittatura di giudici o in una dittatura di politici. Non sembri l’esagerazione di un catastrofista, dovuta all’ultima recentissima presa di posizione di alcuni giudici contro l’iniziativa politica del governo di trasferire i migranti in Albania in attesa di chiarirne la posizione, ovvero di accoglierli o di respingerli. Alla magistratura bisogna mettere un limite, un off-limits, che è la sfera di operatività che spetta alla politica e solo alla politica. Il che non significa che un politico può fare quel che vuole, nella sfera del suo privato resta un cittadino come tutti gli altri. Nell’esercizio politico risponde solo al popolo italiano. Non è possibile che qualche azzeccagarbugli con qualche cavillo giuridico mortifichi e danneggi l’azione del governo, che si svolge nell’interesse della nazione e con ciò partecipi alla lotta politica, favorendo una parte in favore di un’altra. Parliamo, come sempre, senza peli sulla lingua, come una volta si diceva prima che si introducesse il politicamente scorretto. Ancora non è né reato né peccato. In materia di immigrazione ai giudici non va bene il metodo Salvini, che rischia sei anni di carcere per aver fatto esattamente quel che il suo dovere gli imponeva di fare da ministro dell’interno nella forbice delle opportunità che aveva. Ai giudici non va bene neppure il metodo Meloni, che ha fatto spendere al Paese circa un miliardo di euro per portare temporaneamente i migranti in Albania. Una soluzione, questa, al vaglio di altri paesi europei, nell’ipotesi di adottarla, ultimo l’Olanda. Per i giudici non ci sono paesi sicuri e neppure l’Albania lo è. Dunque per questi giudici, autori di un provvedimento che farebbe ridere se non irritasse dal più profondo, l’unico paese al mondo sicuro è l’Italia. E lo credo bene, coi giudici che abbiamo! Per loro, per i giudici dico, in opposizione al governo e a gran parte del popolo italiano, che si è espresso chiaramente due anni fa – se ha un senso votare in democrazia! – i migranti che arrivano in Italia devono essere accolti tutti, tutti da spesare e inserire nel tessuto sociale della Nazione. Quanti sono, sono! Quanto costano, costano! Sono esseri umani come noi! Così, oltre a questi giudici, parla solo il Papa. Che però non è responsabile di niente, non si impegna col popolo, non viene eletto se non da Dominedio tramite il suo emissario lo Spirito Santo. I giudici, perciò, in dispregio di chi si è affidato col voto ad una classe politica, vogliono ribaltare la volontà popolare. Se il popolo avesse votato in maggioranza la coalizione del centrosinistra avrebbe dato un mandato sicuro: accogliamo i migranti. Invece ha voluto dare un messaggio diverso, opposto, e ha votato in maggioranza il centrodestra. È un ragionamento così semplice quanto il problema della mamma che va al mercato con cento euro in tasce, ne spende cinquanta, e si chiede: quanto mi resta in tasca? Un affare pericoloso frustrare il popolo che ha a sua disposizione due elementi: la Costituzione di diritto e quella di fatto. Quando tra l’una e l’altra si crea il vuoto, allora possono succedere cose gravi. Il popolo, lo sappiamo, ha tanta pazienza, ma poi improvvisamente la perde. Maestà, disse il maggiordomo a Luigi XVI che dormiva tranquillamente, il popolo sta per entrare nella reggia. Che cosa è, gli rispose il re, una protesta? No, ribattè il maggiordomo, la rivoluzione! Fino a questo punto uno può obiettare: ma si tratta di pochi giudici e tutti notoriamente di sinistra, per non dire comunisti della peggiore specie, di quelli che si mimetizzano per combattere e colpire meglio. La gente deve sapere che non ci sono giudici comunisti, ma comunisti giudici. La posposizione dei termini non è senza senso, significa che i comunisti antepongono sempre il loro essere comunisti a qualsiasi attività svolgano. I comunisti sono quelli che per il partito, ne sono prova i tanti processi staliniani e non solo, si accusano da soli pur di non tradire il loro credo. I comunisti sono quelli che in qualsiasi posto di lavoro si trovino, pensano prima di tutto di essere al servizio del partito. Neppure i politici del centrosinistra si azzardano in campagna elettorale di dire senza equivoci, giochi di parole, riferimenti umanitari e pietistici, che se vincono loro aprono a tutti indistintamente, perché sanno che rischierebbero non di non di vincere le elezioni ma di subire un annientamento. I giudici dall’alto o dal basso della loro situazione lo danno ad intendere non perché ci credano ma perché da anni in Italia la magistratura di sinistra è una portaerei in grado di colpire chiunque non la pensi in un certo modo. In lizza non c’è più il partito comunista. Ma ci sono le mentalità, che non tanto facilmente spariscono.

sabato 12 ottobre 2024

A margine di un convegno su Matteotti

Ci sono persone a cui non manca l’erudizione, a volte ne hanno pure troppa, mancano di cultura; a cui non manca neppure la perspicacia, mancano di galateo. Sanno perfettamente che cos’è un convegno di studi, ma si comportano come se fossero in piazza e fanno comizi, sguaiati e scomposti, mancanti di rispetto per se stessi e per gli altri, vivi e morti. È capitato la sera di venerdì, 11 ottobre, nella Biblioteca Bernardini di Lecce, dove era in svolgimento un convegno sul delitto Matteotti, in ricorrenza del suo centenario, organizzato dalla sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia. Ad un certo punto ha preso la parola la prof.ssa Anna Stomeo, che con garbo, ma con qualche acrobazia metodologica ha stabilito un rapporto di prefigurazione tra la situazione in cui avvenne il delitto Matteotti e la situazione odierna. Discutibile il suo punto di vista ma proposto con argomentazioni interessanti e dotte, tra Auerbach ed Eco. Saltiamo il mio intervento, ne parlo dopo. Poi è stato il turno di Maurizio Nocera, il quale da locandina doveva svolgere un intervento dal titolo che incuriosiva, Matteotti, un antifascista antelitteram, diventato poi Matteotti e basta, come era normale che fosse in mancanza di un’idea. Nocera, noto antifascista, già presidente dell’Anpi leccese, si è prodotto in una urlata professione di antifascismo, ribadendo di essere un compagno e che Matteotti fu ucciso su mandato di Mussolini e che la situazione odierna presenta aspetti molto simili a quelli di cento anni fa. Ma è stato Ettore Bambi, storico del giornalismo, autore un po’ di anni fa di un testo diventato cult per chi segue questo settore, Stampa e società nel Salento fascista, a passare il segno della compostezza e del rigore. Bambi ha detto papale papale che la situazione di oggi, col governo di centrodestra, richiama quella in cui fu ucciso Matteotti e che la Meloni coi suoi decreti sicurezza richiama le leggi liberticide. Il tutto in un urlato tono da comizio rionale. Ora, nei convegni della Società di Storia Patria non c’è mai dibattito. Così, chi parla prima deve sorbirsi tutto quello che gli altri dicono dopo, a volte con riferimento esplicito, altre tacendo il destinatario. Cosa ho detto io prima di leggere la relazione preparata per stare nei termini di tempo stabiliti? Ho fatto un cappelletto, in cui dicevo che forse sarebbe il caso prima o poi di parlare di Matteotti, sapere chi era, da dove veniva la sua famiglia, il carattere scostante e superbo, la sua irriducibilità, non per giustificare la sua condanna a morte, ma per capire meglio il personaggio, la sua figura. Probabilmente è stato questo che ha provocato il tilt di alcuni, ché per il resto ho detto esattamente quello che la gran parte degli storici più accreditati dicono, citandoli regolarmente, eccedendo in ovvietà. L’accaduto, che a me sembra di non dover trascurare, dimostra come in questo Paese si vive all’insegna dell’intolleranza, benchè si parli di democrazia come si beve l’acqua d’estate per dissetarsi. Oggi c’è una situazione imparagonabile a quella di cento anni fa. Se così non fosse il capo o la capa dell’opposizione, Eddy Schlein, rischierebbe di fare la fine di Matteotti e noi non potremmo fare convegni e comizi per dire tutto quello che ci passa per la mente. Ora vediamo che simili scenari sono da visionari mattoidi. Insistere nel fare paragoni improponibili si manca di rispetto per tutte quelle persone che vissero quegli anni, difficili e drammatici, in cui ci furono migliaia di vittime, da una parte e dall’altra, come perfino Antonio Scurati, nel suo libro Mussolini il figlio del secolo, ammette. Tutti gli storici seri sono d’accordo nel dire che ad incominciare a dare mazzate nel dopoguerra furono i socialisti (biennio rosso) e che solo dopo, nel ‘21-’22 (biennio nero), si diffuse lo squadrismo fascista, al servizio, riconosciamolo pure, in certe zone del Paese, degli agrari, stanchi di subire violenze ed angherie dai “rossi”. L’impressione che oggi si ha, di fronte a certe manifestazioni di opposizione preconcetta, è che si vorrebbe ricreare quelle situazioni allo scopo folle, questa volta, di far piazza pulita dei nemici. Il ritorno alla ragione e alla compostezza aiuta a risolvere i gravi problemi dell’Italia, dell’Europa e del mondo, in un momento in cui la violenza, questa sì e non solo politica, sembra farla da padrone. Il governo di centrodestra è stato voluto dagli italiani, i quali non hanno votato con la legge Acerbo, tra brogli e violenze, ma con una legge democratica e nella serenità degli elettori.

sabato 5 ottobre 2024

La Sinistra non sa che pesci pigliare

Le ultime «onde bige» della gran palude limacciosa in cui si trova ora la sinistra non fanno rimpiangere il campo largo, e questo francamente dimostra come l’euforia di trovarsi alla vigilia di una grosse koalition era più che altro per mascherare la delusione incombente. La sparpagliata è giunta in modi diversi. In Azione, la creatura politica di Carlo Calenda, si sono ribellati alcuni e se ne sono usciti senza ipocrisie. Di stare a sinistra nel campo largo, fianco a fianco coi comunisti di Fratoianni, noi non vogliamo saperne. Hanno detto la Gelmini, la Carfagna, la Versace e Costa. Ma a fare più rumore è stata l’ira funesta di Giuseppe Conte, leader del Movimento pentastellato. Io con quello lì neppure morto, ha detto, riferendosi a Matteo Renzi. E dire che era quasi fatta! Ora sul campo largo restano i resti, mi scuso per l’allitterazione. Sembra che sia passato uno di quei nubifragi estivi che fanno volare tavolini e sedie dei caffè dehors. Poveracci! I giornalisti embedded della sinistra dei vari canali televisivi si arrabbattono come possono. Non sanno che dire. Girano e girano e non escono dalla stessa solfa, appigliandosi perfino all’ovvio della proibizione di una manifestazione pro Palestina, organizzata per il primo anniversario della strage del 7 ottobre. Che loro, ovviamente, negano: un caso! Solo un caso, dicono. In una democrazia sana, ma per la sinistra la nostra non lo è quando al governo c’è la destra, è normalissimo che in previsione di disordini gravi, il questore, che è il massimo responsabile operativo dell’ordine pubblico, la vieti. Alcuni, illuminati a intermittenza, riconoscono che la manifestazione comporta dei rischi, però… però… però… impedirla! Come se un questore possa mettersi a sfogliare la margherita: la proibisco o non la proibisco. Scrivo quando ancora mancano dieci ore alla manifestazione e dico, senza ombra di dubbio, che gli incidenti saranno gravi; che è, poi, alla fin fine, quello che vogliono a sinistra per accusare il governo di autoritarismo e di repressione. Sperano di poter ritrovare l’intesa larga perduta e continuare a illudersi un’altra volta. Chi manifesta per la Palestina è due volte malvagio. Una perché parteggia per un’azione terroristica che ha fatto 1.200 vittime e che ha dato inizio alla guerra; due, perché non vuole che esista lo stato ebraico, il cui valore è sotto gli occhi di tutti. Un piccolo Stato tiene fronte ad un’infinità di nemici, compreso il fu impero di Ciro e Dario. Ma, per tornare al dibattito interno, occorre rilevare che in questo momento in Italia non c’è che questo bi-coalizionismo. Altro non è possibile, fino a quando non si arriverà al premierato e ad una legge elettorale nuova, fatta ad hoc. Le coalizioni non possono durare a lungo perché è nella loro natura essere piene di contrapposizioni, a volte represse altre volte più resistenti e gravi. Tanto a destra quanto a sinistra. Esse trovano il collante non tanto sulle cose da fare quanto sulla lotta all’avversario. Tant’è vero che appena la morsa dell’opposizione si allenta emergono le contrapposizioni interne. Lo vediamo tutti giorni con le frizioni Tajani-Salvini e quelle più soft Salvini-Meloni. A sinistra, come è già stato detto, le posizioni sono ancora più accentuate per avere i protagonisti risentimenti personali. Ma fino a quando Conte resisterà sulle sue posizioni impedendo il formarsi di una coalizione competitiva, capace di battere le destre? La posizione di Conte, come tutte quelle dei cavalieri solitari, ha una punta di nobiltà, che però non serve alla causa comune. Prima o poi Conte dovrà scegliere se consumarsi come una candela, non potendo costituire alleanze né a destra né a sinistra, a destra perché non può, a sinistra perché non vuole, o trasformarsi in un candelotto di dinamite da esplodere insieme ad altri e sfondare la resistenza dei nemici. La beata solitudo dei pentastellati ha un precedente nel rifiuto che essi opposero nel 2013 al Pd di Bersani, per poi mettersi a disposizione di qualsiasi alleanza cinque anni dopo, nel 2018, passando da soli contro tutti a con chiunque pur di governare. Ricordiamo i governi di Conte: giallo-verde il primo, giallo-rosso il secondo. I due governi dello scasso al tesoro dello Stato, col reddito di cittadinanza prima e col bonus edilizio 110 per cento dopo. Le difficoltà e le contraddizioni della sinistra sono già nell’elezione di Schlein a segretaria di un Pd indefinito, quello del voto allargato a chicchessia. Il voto del Pd definito aveva eletto Boccaccini. Il partito della Schlein, quello ipotizzato, ancora non esiste. E si vede che non esiste!

sabato 28 settembre 2024

Sicurezza vera e minacce vuote

Il decreto sicurezza approvato dalla Camera è un contenitore di minacce, come del resto tutte le leggi. Il governo pensa che spaventando i delinquenti essi non delinquano. Molte pene, già previste, sono state appesantite, altre sono introdotte ex novo. Tutto per mettere un freno al dilagare nelle città della delinquenza in gran parte dovuta agli stranieri giunti nel nostro Paese per le vie più diverse. Le opposizioni, che quando non fanno battute ridicole fanno strepito chiassoso, hanno parlato subito di misure autoritarie, fasciste e sono scese in piazza. Quattro dirigenti di partito e di sindacato si sono autopromossi a opinione pubblica. Ciò fa pensare che esse, le opposizioni dico, non difendono i cittadini dai delinquenti, ma, al contrario, i delinquenti dagli apparati di sicurezza. E poi vogliono vincere le elezioni! E poi parlano di programmi condivisi e di campi larghi! Esse promettono agli italiani l’abolizione delle pene e la soluzione dei problemi che portano la gente a delinquere, ad occupare abusivamente case altrui, a scippare per strada, a violentare le donne. Tu sei senza casa? eccotene una! Tu non hai da comprarti da mangiare o da drogarti? toh i soldi, va a saziarti! Tu soffri di astinenza sessuale? eccoti la puttana di Stato! E così via. Salvo che quando queste forze politiche sono state al governo, e per un numero considerevole di anni, i miracoli di soddisfare i bisogni più vari della gente non solo non li hanno compiuti ma non li hanno neppure pensati. Perché chi sta al governo, tempo per le minchiate non ne ha. Esse si sono limitate a far finta di niente, anzi a cercare di convincere che in Italia si vive in sicurezza e che è solo una percezione quella dell’insicurezza. Ma quando la gente vive sulla propria pelle il pericolo di essere aggredita per strada, allora che fa? Si affida ai “fascisti”. Anzi, finisce per invocarli, magari quelli veri, senza virgolette. Il punto importante di queste misure “repressive”, che il governo si accinge ad approvare, è che finiranno a niente. Il problema non è la leggerezza o la pesantezza delle pene; sono le pene, che dovrebbero essere scontate. Ma per questo occorre personale adeguato nel numero e nel protocollo di intervento, che purtroppo non c’è. Mancano uomini da tenere sotto controllo il territorio, mentre le carceri scoppiano di reclusi. Chi va a catturare i delinquenti? E dove vengono reclusi per scontare la pena? Qualcuno ha pensato ai soldati, in aggiunta ai poliziotti e ai carabinieri. Ma se non si cambia il protocollo d’intervento è come mandarli allo sbaraglio. Per mettere le mani sui delinquenti gli uomini delle forze dell’ordine non devono aspettare di essere aggrediti. Devono intervenire in un rapporto numerico con le persone da catturare sufficiente a compiere l’azione con successo. Il governo Meloni, con questo decreto, ha dimostrato di avere a cuore l’ordine e la legge, non fa finta di niente, come hanno fatto e fanno i governi di centrosinistra, ma la risposta che sta cercando di dare è inadeguata, finisce per risolversi in una bolla di sapone. Essa è troppo ottimistica. Sperare che i delinquenti si spaventino per il rincrudelirsi delle pene è sbagliato se poi le pene non ci saranno. Le leggi già esistenti bastavano a risolvere il problema, non c’era bisogno che se ne approvassero altre. Certo, che per certe problematiche sociali, come quella della casa, è necessario che il governo s’impegni in un piano edilizio da realizzarsi nel più breve tempo possibile e nel formulare le graduatorie degli aventi diritto escludere quelli che in precedenza ne hanno occupata una abusivamente. Si guarderebbero così di continuare ad occupare case di altri. Ormai è tempo di dare inizio ad un piano di edilizia carceraria. Non possono stare in un carcere quantità di reclusi il doppio se non di più di quanto quel carcere ne dovrebbe ospitare. Sono trascorsi due anni dall’inizio del governo di centrodestra e di simili provvedimenti neppure l’ombra. Solo di recente si sta cercando di affrontare il problema delle carceri. Si può comprendere la preoccupazione di non passare per un governo che ha costruito carceri. Sarebbe più bello passare per un governo che ha costruito strutture per fare stare meglio i cittadini, i bambini, i giovani e perciò ospedali, parchi pubblici, istituti culturali, scuole, campi sportivi, palestre, piscine. Ma se l’urgenza è di costruire carceri, allora si proceda. Ogni cosa va fatta a tempo debito. Non si fa quel che si vuole, ma quel che si deve. Tanto vale ancor più per lo Stato.

sabato 21 settembre 2024

L'Italia, paese incomprensibile

Nella settimana 9-15 settembre sono accaduti due fatti, che dire incredibili è davvero poco; semplicemente assurdi. Il primo è per così dire privato. Una signora viene scippata nottetempo della sua borsetta, in cui ha le chiavi di casa e i documenti. Deve assolutamente recuperarla, ma non può essere così incosciente da affrontare lo scippatore fisicamente. Le viene l’idea come un lampo di investirlo con la macchina, una-due volte fino a renderlo inoffensivo, e recupera la borsetta. Lo scippatore muore. Gli viene dedicata una manifestazione di solidarietà, in nome di un nuovo principio di legittimità di ladri, borseggiatori e scippatori riuniti. La corte dei miracoli inalbera bandiera. La signora è detenuta in casa ed accusata di pesantissimi reati, che possono comprometterle l’esistenza. Il secondo fatto è pubblico perché riguarda il ministro, vice-presidente del Consiglio, Matteo Salvini. Il pubblico ministero della Procura di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione per avere egli impedito, quando era ministro degli interni del primo governo Conte, ad una nave di migranti di sbarcare in Italia, trattenendola sei giorni prima di darle il permesso. La stessa aveva rifiutato altri porti sicuri in Tunisia, a Malta e in Spagna. Il caso è senza precedenti. Nessun politico mai, che io sappia – ed ho un anno più della Repubblica – è stato messo sotto accusa dalla magistratura per una scelta politica. Il caso è una commistione di forze politiche di sinistra in affinità elettiva con una magistratura della stessa parte politica. È l’establishmente, che è così consolidato in Italia che non lo sconfigge nessuna elezione o nessun plebiscito. La denuncia era partita da Lega Ambiente. L’autorizzazione a processare Salvini da parte del Senato era stata possibile per il comportamento “rivoltato” dei 5 Stelle, già con lui nello stesso governo, che in commissione avevano votato contro. Non è il caso di andare al dettaglio. Di materia per fare qualche riflessione ce n’è abbastanza nei due casi. Uno più grave dell’altro. Primo caso. La signora omicida poteva non uccidere lo scippatore? Sì, ma doveva rinunciare alla sua borsetta, alle chiavi di casa e ai documenti e ringraziare il Signore che non le era andata anche peggio. C’è un particolare: la signora non era in grado di fare il ragionamento che io, seduto al computer, posso fare, tranquillo e nella possibilità di togliere, aggiungere e correggere il mio scritto. La signora di certo aveva altre urgenze ed era assalita da altri impulsi incontrollabili compreso quello di maledire lo Stato che lascia in giro delinquenti, ladri e scippatori. La cristiana, come noi popolarmente chiamiamo una donna, non ha avuto la possibilità di fare alcun ragionamento. Doveva recuperare la borsetta. Volerla processare mediaticamente, come è già accaduto, è altro assurdo all’assurdo. Invece di solidarizzare con lei e pregare il Signore di non doversi mai trovare nella sua situazione, si sono tutti, donne soprattutto, trasformati in pedagoghi, psicologi e francescani di primo, secondo e terzo grado e l’hanno condannata senza se e senza ma. Si va formando in Italia una sorta di sindacato – il partito c’è già – per difendere ladri, vagabondi e sfaccendati vari e garantire loro i “sacrosanti” diritti di rubare, di scippare e di occupare abusivamente case altrui, in nome del diritto naturale che viene prima di quello positivo. Il secondo caso è estremamente grave perché un politico, nell’esercizio dei suoi interventi istituzionali, non può essere messo sotto accusa da magistrati pretestuosi. Tanto meno lo possono fare se sono dichiaratamente di parte, ne rivendicano il diritto ed interpretano e manipolano le leggi come conviene loro in quel momento. Se dovesse passare quella linea, allora faremmo un salto all’indietro di diversi secoli, a quando vigeva l’assolutismo e la magistratura, asservita al re, con un cavillo qualsiasi, arrestava, processava e condannava i politici sgraditi. Essere favorevoli o contrari all’immigrazione è un diritto di ogni cittadino, è un dovere di ogni politico che ha chiesto al popolo il voto per fare una certa politica. La democrazia è questa. Non ci si può appigliare ad essa quando conviene e rigettarla negli altri casi. Anche il dovere di aiutare in mare i naufraghi va precisato. Un conto è aiutare chi si trova in difficoltà in mare mentre sta svolgendo un’attività lecita un altro è quando si tratta di rendersi complici di un piano affaristico per un verso, di autentica invasione per un altro. Un’invasione, peraltro, sconsiderata se poi questa gente è lasciata sciamare per le strade e le piazze a procurarsi da bere, da mangiare e tutto il resto, trasformando l’urbanità in una giungla, dove per difendersi occorre trasformarsi in un delinquente o in un criminale del pari. Le politiche di accoglienza, quando non sono supportate da adeguati progetti, sono esse stesse complici di tutte le nefandezze che ne derivano. Fare gli ipocriti e i francescani non serve a niente. Occorrono interventi realistici, coraggiosi, quelli che fanno male al momento ma bene in prospettiva. Il medico pietoso ha sempre danneggiato il paziente.

sabato 14 settembre 2024

Sinner, l'assennato

Jannik Sinner è il numero uno del tennis mondiale. In quanto tale ha aperto un fronte di discussione sulla germanicità del suo nome e soprattutto del suo carattere, che almeno in apparenza si mostra freddo, calmo, ma non proprio glaciale. È nato e vissuto in alto Adige, una zona che gli austriaci chiamano Süd Tirol. La sua italianità recentemente è stata messa in discussione dal celebre fotografo degli scandali pubblicitari Oliviero Toscani. Il quale ha detto che Sinner non ha niente dell’italiano, semmai è Fabrizio Corona il simbolo dell’italianità, facendo ricordare quanto disse il prof. Miglio un po’ di anni fa sull’italianità dei meridionali, che identificò in Ulisse, l’eroe che dove non arriva con la forza arriva con l’astuzia. Lasciamo stare Toscani, che è un gran provocatore e nello stesso tempo un uomo di genio e lasciamo riposare in pace il prof. Miglio. Ci sono tanti italiani, anche meridionali, che hanno saputo vivere e morire in difesa di valori universali, penso all’avv. Ambrosoli e ai tanti magistrati, settentrionali e meridionali, caduti per aver compiuto il proprio dovere. Noi italiani, peraltro, abbiamo avuto fior di personalità di origine non interamente italiana o interamente straniera, grandi e grandissimi. L’attore Vittorio Gassman e lo scrittore Curzio Malaparte erano figli di padre tedesco e di mamma italiana. Lo stesso Dante Alighieri, a cui i tedeschi vogliono un gran bene, si “sospetta” fosse di origine tedesca. E Leonardo da Vinci era di madre araba, una schiava, di quelle che servivano in tutto e per tutto i loro signori. Perché, secondo Toscani, saremmo tutti dei Fabrizio Corona? Certo, non siamo nemmeno tutti Jannik Sinner. Ma un popolo, come il nostro, ha saputo sempre arricchirsi del contributo di chi è venuto a vivere tra di noi. Sorprende come in certi democratici emerga, tra il lusco e il brusco, un po’ di razzismo. Sinner in tedesco significa assennato. Sinn, la parola base, significa senso, giudizio. La parola italiana senno deriva dal francone (antico germanico) sin. Scherzando si può dire che il senno a noi italiani ce l’han dato i tedeschi. Ben più importante è il caso Sinner per i suoi risvolti sociologici. Grazie alle sue vittorie oggi gli italiani guardano il tennis con quasi uguale attenzione del calcio. Si sono appassionati al gioco ma anche a lui, che continua ad avere un comportamento ineccepibile. Ha dedicato la sua recente vittoria all’Us open alla zia che sta poco bene. Più italiano di così? Un po’ più tedesco si è dimostrato licenziando il suo massaggiatore che involontariamente l’ha messo nei guai col doping. Con certe eccellenze umane non è il caso di italianità o di germanicità. In tutti i paesi del mondo, specialmente nelle zone di frontiera, da noi regolate con intelligenza dai nostri governi e da quelli dei paesi limitrofi, ci sono popolazioni che risentono di una nazionalità plurale. Né gli abitanti si pongono più il problema: si è austriaci in Austria, si è italiani in Italia; come gli italiani che vivono in Slovenia o in Croazia sono sloveni e croati. C’è una specie di uomini, che dallo sport alla scienza, dall’arte all’ingegno, spuntano in ogni parte del mondo e si affermano ai più alti livelli. Sono costoro cittadini del mondo, che sentono di appartenere all’umanità prima ancora che ad una nazione. Sono europei, americani, cinesi, indiani, giapponesi, africani, australiani. Volerli legare per forza ad una nazionalità è come metter loro una maschera di ferro. Nella sua celebre ode «In morte di Carlo Imbonati» Manzoni fa l’esempio di Omero, la cui nascita se la contendevano tanti luoghi della Grecia ma «patria ei non conosce[a] altra che il cielo». Con questo non si vuole svilire il senso di patria e di nazione, che resiste e resisterà. Ma si vuole anche accettare i cambiamenti che fatalmente arrivano trasportati dalla corrente della storia, a volte tumultuosa e torrentizia, a volte placida e serena. Sinner nel campo dello sport ha raggiunto il cielo, manzonianamente inteso, con ciò dando a italiani ed austriaci senso di orgoglio. Un’operazione di risulta ma importante, che non può che giovare alla nostra gioventù più spesso orientata a seguire musiche e canzonette, cantanti e rapper, tra il divertimento e la devianza. Senza essere fissati in certi giudizi, ma la professione dalla quale si esce a volte tradisce, occorre sempre fare una distinzione tra valori e disvalori, che non possono stare sullo stesso piano e indistinti. I casi come quello di Sinner e dei tanti atleti che si sono distinti recentemente ai giochi olimpici e paralimpici sono altamente significativi.

sabato 7 settembre 2024

Telese, un caso di libertà

Martedì sera, 3 settembre, seguivo la trasmissione «In onda» su «La 7». Il mio televisore non è più abilitato a prendere Rai Storia sul 54, così mi devo purgare ogni sera. Si susseguivano diversi ospiti, a seconda dell’argomento da trattare, ma con un continuo ritorno al caso Sangiuliano, ministro della cultura, incappato in una leggerezza, che gli è costato un solenne sputtanamento e la carica di ministro. Il caso è davvero curioso, ma più che altro da gossip. Varie volte, nei mesi di luglio e agosto, il ministro ha partecipato a diversi eventi in compagnia di una donna, una sorta di Barbie, che si spacciava per consulente del ministro per i grandi eventi. Sono circolate diverse foto con Sangiuliano che le sta così d’appresso, guancia a guancia, come in “una rotonda sul mare”. Solo un fesso non capiva che tra i due c’era “cosa”. In altre foto le cinge la vita col braccio a tenerla stretta a sé. Un flirt estivo, camuffato dalla politica per non destare le legittime ire della moglie. Ma la Barbie si è rivelata una birba. Pare che avesse occhiali a telecamera per riprendere e registrare quel che le pareva senza farsi scoprire. In effetti il ministro – ha poi detto – di averla tenuta in prova e che al termine invece di nominarla le ha detto che non era il caso; in verità, per evitare, ove fosse stata assunta, il conflitto d’interessi. Di qui il gran casino che si è scatenato sui social e sui giornali. Le opposizioni, che pure rimproverano al governo di passare il tempo a indagare sui comportamenti galanti di un suo ministro invece di pensare ai problemi del Paese, perdono il loro tempo allo stesso modo, gonfiando il caso e chiedendo le dimissioni del ministro Sangiuliano, mentre i media di opposizione hanno continuato a tenere vivo il falò stando sul pezzo come in una trincea. Al conduttore Luca Telese della “Sette”, ad un certo punto, è scappato di dire «noi giornalisti liberi», coinvolgendo la compiaciuta co-conduttrice Marianna Aprile. Ero di malumore, un po’ per la fessagginità di Sangiuliano e un po’ per l’esagerazione di un caso strumentalizzato per far dimettere il ministro improvvido e creare difficoltà al governo; e soprattutto perché Sangiuliano non si è virilmente dimesso piuttosto che piagnucolare e implorare comprensione. Le parole di Telese mi fecero cambiare umore, d’improvviso, «noi giornalisti liberi». Mi venne così da ridere che dovetti scappare in bagno, io che soffro di stitichezza. Ma come? Liberi, e da chi?, da che cosa? E poi perché dirlo? Excusatio non petita con quel che segue. Lui e la sua collega sono giornalisti che lavorano alla “Sette”, che, padrone Urbano Cairo, è legittimamente su decise posizioni antigovernative, insieme ad altre trasmissioni come “Di martedì”, “Piazza pulita”, “Propaganda live”, autentiche corazzate dello schieramento antigovernativo. Telese sarà stato libero di entrare o non entrare nella “Sette”, ma dopo la scelta non ha …più scelta, salvo andarsene. Ha l’obbligo di attaccare il governo e i suoi ministri. Telese è libero come un calciatore che dopo aver scelto la squadra in cui giocare è obbligato a fare di tutto per farla vincere. Sarebbe come se a un Lautaro ad un certo punto venisse l’uzzolo di essere libero e invece di infilare la porta avversaria infilasse la sua, in nome della libertà. Ecco perché mi venne un’esplosione di riso. Telese crede davvero di essere una persona libera. È buffo quanto Sangiuliano che si crede irresistibile. Una persona libera non deve appartenere a nessuno e a niente. Lui, invece, è un giornalista pagato, come la sua collega Marianna Aprile e gli altri delle altre trasmissioni della “Sette” e non solo, per difendere una parte. L’accanimento con cui Telese e collega seguono il caso Sangiuliano sarebbe degno di miglior causa. È di tutta evidenza che Sangiuliano si è messo nei guai, sia con la famiglia, sia col governo, per un prurito cupideo. Il modo come era attaccato alla Boccia, come si vede nelle foto, se non fosse un comportamento sentimentale sarebbe un caso di molestia sessuale. Dove mai s’è visto che un ministro tiene avvinghiata a sé una sua collaboratrice? Oggi come oggi, poi, che basta sfiorarla una donna per beccarsi una querela per molestia, salvo che a lei la cosa non piaccia! Ora Sangiuliano si è dimesso, ma il casino dei "giornalisti liberi" non cessa, anzi continua più accanimento. Quanto a Sangiuliano, è il caso di dire che è stato…bocciato. La sua leggerezza ha arrecato inoltre un danno al governo ben più importante delle sue dimissioni.

sabato 31 agosto 2024

L'estate sta finendo...anzi no

L’estate sta finendo…, così cantavano i Righeira, un gruppo musicale che spopolò negli anni Ottanta. Manca meno di un mese al burocratico finale di stagione, ma il caldo continua, come se non esistesse il calendario. La natura non obbedisce ai decreti degli umani. L’estate ha sparato i suoi fuochi, roventi, che ci ha fatto dire «mai come quest’anno!». Ora è alle ultime saette; e ci prepariamo ad un lungo autunno-primavera. Ormai le stagioni sono ridotte a due: estate e pre-estate. Il cambiamento climatico è sulla nostra pelle. L’inverno non c’è più coi suoi rigori di gennaio e di febbraio, coi giorni della merla, col freddo ostinato di febbraio, minaccioso: se i giorni miei li avessi tutti farei cagliare il vino nelle botti. Nessuno può dire che tutto ciò è normale, solo i ragazzi che non hanno conosciuto il prima. Negli occhi e sulla pelle di tutti c’è qualcosa che prima non c’era. Cinquant’anni, per riferirci agli ultimi, di aggressione al verde delle campagne, dei giardini, dei parchi, del verde pubblico e privato, hanno creato il deserto. «Là dove c’era l’erba ora c’è una città» cantava Celentano nel 1966. Ettari ed ettari di verde sono stati sostituiti dal cemento. Il Salento è una landa piatta, caratterizzata dalla mancanza di corsi d’acqua e di rilievi per il gioco naturale degli elementi. Il Salento ubertoso, ricco di arboree ombre, di squarci di sole e di freschi ripari è un ricordo. La distruzione di milioni di palme e di milioni di ulivi, annientati dal punteruolo rosso e dalla xylella, ha alterato l’equilibrio naturale, ha privato il territorio delle sue resistenze e lo ha esposto alla “vendetta” della natura. Che, perciò, ha chiuso l’ombrello. Prima le campagne erano separate da viuzze e lungo i muretti a secco erano piantati alberi in filari come andava lo sterrato: lecci, ulivi, peri, giuggioli, prunastri, viscioli sì che l’ombra da qualunque parte fosse il sole copriva sempre. Ora ne prendiamo atto tutti, dubbiosi e ideologicamente prevenuti, che anche l’uomo ha avuto la sua parte nel processo del cambiamento. Anche quest’anno centinaia di migliaia di ettari di bosco sono andati in fumo, in gran parte per opera di criminali, ma anche per la mancanza di prevenzione e di adeguata repressione. A Roma ci sono stati due incendi che hanno lambito addirittura le strutture della Rai. Il fuoco è alle porte di Roma, anzi le ha varcate. I nuovi barbari, che nessun Leone Magno potrà mai fermare! Papa Francesco non ha scelto un nome, ha scelto un programma, che evoca il cantico delle creature: il sole, la luna, le stelle, l’acqua, la terra: il creato; ma è troppo misericordioso per essere convincente. Ha abolito i peccati e la seconda parte del cantico, laddove il «guai!» suonava come un’inevitabile minaccia a chi si trova, morendo, nel peccato. Gli uomini, non solo gli italiani e i salentini, stanno dimostrando a tutti i livelli di essere sordi e ciechi di fronte alla realtà. Facciamo i nostri comodi e stupidamente non pensiamo ad altro. In alcuni paesi del Salento sono stati espiantati meravigliosi filari di pini italici perché rendevano impraticabile il fondo stradale con le loro radici e minacciavano le case che nel frattempo erano state costruite abusivamente. Rimondatori improvvisati hanno fatto seccare splendidi esemplari di casuarina e di pini d’Aleppo; boschi di querce, di roverelle e di carrubi hanno lasciato il posto all’urbanizzazione selvaggia. Le piazzole di sosta delle nostre strade sono piene di rifiuti, quasi fossero state fatte apposta per i vacanzieri che lì scaricano i loro “cessi” prima di arrivare in Svizzera, in Germania, in Olanda, in Belgio, dove gli stessi diventano modelli di disciplina e di pulizia. Quasi tutti gli incendi sono provocati dall’uomo non solo per insania mentis ma anche, a volte, solo per fare pulizia sommaria. Montagne di rifiuti, carta plastica legno gomma, insieme, creano un ambiente insopportabile per chi ci abita vicino, ricettacolo anche di topi, volpi, faine, lupi e cinghiali; e allora, via, tutto al fuoco purificatore. Solo che questo non sa cosa sia la distinzione e dallo sporco dei rifiuti passa agli alberi, alla vegetazione, fino ad aggredire tutto ciò che è suo. La polemica se la colpa è solo della natura e non anche dell’uomo è pretestuosa. Se vogliamo, anche l’uomo rientra nella natura e quello che fa è un’aggiunta a quello che la natura fa da sé. Dunque non possiamo continuare a chiamarci fuori. Tenere puliti i luoghi non è solo questione di civiltà è diventato un bisogno. Le pubbliche autorità devono provvedere a vigilare e a stroncare qualsiasi principio di inciviltà e di strafottenza. Non so se è vero che da qualche parte è scritto che il secondo giudizio universale sarà un lento e progressivo suicidio dell’umanità. Ma già è chiaro che quanto sta accadendo sembra dar ragione alla triste profezia.

sabato 24 agosto 2024

Politici, giornalisti e giudici

A volte lo si chiama “don Donato” prima che questi sia nato. Non c’è notizia, allora: inventiamola. In onda, la trasmissione di «La 7», una delle corazzate mediatiche anti destra, da qualche sera non fa che parlare del nulla, che tradotto sarebbe un’indagine della magistratura su Arianna Meloni per traffico di influenze in relazione ad alcune nomine del governo. La notizia l’ha sparata il direttore del «Giornale» qualche giorno fa. Sallusti è credibile? Tutto fa pensare di sì. Può essere che, grazie ai rapporti che ha con il mondo della giustizia, sia venuto a conoscenza di qualcosa. Sarebbe venuto a sapere, il condizionale è d’obbligo, che qualche procura stia indagando sui comportamenti della sorella del Presidente del Consiglio, ipotizzando il reato di cui sopra. Che Sallusti non riveli la fonte è normale, ci mancherebbe altro. Il traffico di influenze è un reato ancor più aleatorio dell’abuso d’ufficio, che è stato eliminato di recente, ed entra nella riforma Nordio. Si tratta di un reato che alcuni anni fa trovò Alberto Sordi a rappresentarlo nel comico di un film. Consiste nel vantare rapporti importanti con un pubblico ufficiale allo scopo di ottenere beni o favori ed è regolato dall’art. 346 bis del c.p.. Il buon Sordi del film lo faceva per “professione”, entrando e uscendo dai vari uffici, come se fosse di casa. Si vorrebbe dimostrare che Arianna Meloni, che è uno dei massimi dirigenti di FdI, nonché sorella di Giorgia e moglie del ministro Lollobrigida, abbia influenzato il governo nella scelta di alcune nomine, fra cui quelle della Rai. Se lo ha fatto era lecito che lo facesse. Che fa un dirigente di partito se non collaborare a ogni livello coi suoi colleghi? Oggettivamente Arianna Meloni è un soggetto che potrebbe influenzare. E ci sarebbe da meravigliarsi che non lo fosse nelle funzioni che svolge nel partito. Come si fa a non pensare che Giorgia e Arianna non si sentano, non si scambino reciproci consigli su cose pubbliche e private? E dove sta il reato, se la questione è tutta qui? Reato sarebbe se si dimostrasse che Arianna Meloni ha ricevuto una qualche ricompensa per aver influenzato la sorella a nominare Tizio piuttosto che Caio. Insomma, il reato lo fa il tornaconto personale, non la parentela, non l’azione, lecita fino a prova contraria, di una consulenza, di un consiglio. Invece niente. L’accusa sarebbe che lei, in quanto non facente parte del governo e non essendo neppure parlamentare, avrebbe fatto da ninfa Egeria per la sorella. La cosa potrebbe finire in una bolla di sapone. Ma, intanto, le televisioni portano in casa degli italiani il sospetto che Arianna Meloni sfrutti la sua condizione per chissà quali vantaggi personali. L’espressione poi di traffico di influenze, non facilmente comprensibile dal comune cittadino, crea atmosfere torbide di familismo. Altro è sostenere che il triangolo Giorgia-Arianna-Lollobrigida è di per sé discutibile. Non c’è una legge che vieti la parentela tra soggetti di un partito o di un governo, ma sarebbe opportuno non crearle certe situazioni per non esasperare le opposizioni, per non scandalizzare i cittadini, per non esporsi al sospetto. Il fatto è che nel nostro Paese tutto fa brodo. Non è importante la verità, ma il dubbio e il sospetto. Basta questo per alimentare lo scontro politico, i conflitti tra i vari poteri dello Stato. E, infatti, subito si è acceso ancora una volta il fuoco dello scontro coi giudici, i quali dicono di sentirsi minacciati da un esecutivo esuberante. In questo “dalli e dalli”, tutti contro tutti, non si sottraggono i giornalisti televisivi, che sono autentici “agenti”, solo apparentemente in incognito. Le loro prestazioni sono suasorie, recitazioni tra il comico e il farsesco, tese a persuadere la gente di tutto il negativo di cui possa essere portatore il governo. C’è da fare un’ultima considerazione, che non pare tanto peregrina. A pensar male…diceva Andreotti! Non è che stiano incominciando a battere sul traffico di influenze per fargli fare la fine che ha fatto l’abuso d’ufficio? Se così dovesse essere sarebbe grave, perché un reato in politica non danneggia mai una sola persona, ma inquina l’ambiente e colpisce l’intera società. Un reato non dovrebbe mai essere abolito, semmai perfezionato nei suoi aspetti procedurali in tutti i suoi passaggi. Abolito l’abuso d’ufficio il cittadino è più esposto alle angherie del potere; abolire il traffico di influenze significherebbe legittimare un vizio già ampiamente diffuso in questo paese, quello della raccomandazione.

sabato 17 agosto 2024

L'incagnata

Che spettacolo è quello del cosiddetto conduttore o conduttrice e di tre-quattro ospiti che chiacchierano su tutto e cercano di sovrapporsi l’uno all’altro come a Gallipoli nell’asta del pesce? In genere viene sempre in prima serata, dopo i telegiornali, che sono discutibili quanto si vuole, ma in fondo ti informano con rappresentazioni della realtà e brevi commenti didascalici, e l’intervento dei protagonisti dei fatti. Lì, sì, che capisci qualcosa. Ma nelle baruffe neochiozzotte della televisione oggi che si capisce? Ogni rete ne ha tre o quattro. Li chiamano all’inglese talk show. Una volta per imbrogliare la gente c’era il latinorum, oggi c’è l’inglesorum. A seguirli tutti non ce la fai sia per la simultaneità e sia perché verresti assalito da crampi al cervello, non più capace di prendere il telecomando e spegnere il maledetto arnese torturatore. Un po’ rappresentano la politica, un po’ la condizionano. Dicono di essere quasi tutti giornalisti, i partecipanti, ma assai diversi dagli altri. Magari scrivono pure, hanno delle rubriche sui loro giornali. Se ti ci imbatti e non ti piacciono, ad incominciare dalla faccia, passi avanti e li mandi affanculo. (La nobiltà della parolaccia dipende da chi la dice. Aristofane insegna!) Ma con la televisione che fai, come fai? Cambi canale! Macchè non cambi un cazzo (come sopra!), giri e giri e ti trovi sempre con un altro conduttore o conduttrice, con altri ospiti e le stesse gridate. “Sto parlando io”, “Io non ti ho interrotto”. “Lasciatemi finire il concetto”. “Tu obbedisci a chi ti paga”. “Perché, tu no?”. “No, io sono libero”. “Ma va là!”. E, invece, stanno tutti lì per il gettone di qualche spicciolo di Euro. Poi ci sono i più maleducati e insofferenti, che sono gli esperti, non ci stanno ad aspettare il loro turno e si sovrappongono agli altri con la boria di essere più “saputi”. In genere interviene il conduttore, che cerca di portare la calma senza riuscirci. Meglio riescono le conduttrici, che minacciano di spegnere i microfoni. Tolgono la parola a chi vogliono e a chi vogliono la danno. Cose da manicomi, che oggi non ci sono più e forse per questo i protagonisti di simili scempi non si rendono conto, manca loro la pietra di paragone. Ci fosse ancora la commedia all’italiana, almeno! Macché, neppure quella! Ma la cosa che irrita di più è che a seconda della rete, può essere di destra o di sinistra, governativa o antigovernativa, è che lo spettacolo ti obbliga a veder fare strame della verità e del buon senso. Una volta la verità era il risultato di un processo maieutico (Socrate). Oggi dalla “verità” si parte per finire alle legnate. Una volta l’esagerazione era parlare del sesso degli angeli, oggi del sesso della pugile algerina Imane Khelif, che non si sa se è maschio di sotto e femmina di sopra o viceversa. (Anche la volgarità è nobile. Dipende dalla fonte). Nel momento in cui ti sintonizzi ad uno spettacolo simile sai che conduttore o conduttrice non cerca di ricavare dal gran casino un minimo di verità, che è la deontologia del giornalista, ma di dare quante più legnate possibile alla parte avversa. Cioè, sai in partenza che spettacolo ti aspetta. È come vedere un film giallo con la rivelazione dell’assassino in principio. “Signori, l’assissino è questo!”. Così se vai sull’una, sono botte da orbi al governo e alla destra e al povero fesso che fa lì da alibi di imparzialità, solo contro quattro e l’arbitro che gli va contro. E se vai sull’altra, succede esattamente la stessa cosa a legnate invertite. E il bello, si fa per dire, è che sono tutti molto permalosi, se poco poco dici al conduttore o alla conduttrice di essere di parte, Dio liberi, è capace, specialmente se donna, di rovesciarti il mondo sopra. Alla fine tra di loro sono solidali, d’amore e d’accordo, sono giornalisti! La pagnotta viene prima di tutto. Bene fece Berlusconi quando si alzò e con eleganza mandò affanculo la Lucia Annunziata, che pretendeva che il Cavaliere dicesse le cose che lei voleva sentirsi dire. Schifezze simili non si capisce come siano giunte a tanto in un paese che è noto nel mondo per la cultura, per l’arte, per la raffinatezza dei gusti. Questi spettacoli sono epidemici, purtroppo fanno scuola, creano tendenza, distorcono la verità per propagandare gli interessi dei loro “padroni”. Naturalmente, guai a parlare di padroni! Meglio parlare di corde in casa dell’impiccato. Dicono torvi e minacciosi di essere liberi, liberissimi. Questi cani arrabbiati, lasciati a digiuno ventiquattr’ore prima, per arrivare all’incagnata più affamati e più aggressivi! Una volta, quando si era più poveri, c’erano le tribune elettorali e i confronti dei leader con un conduttore, quello sì imparziale e professionale. Io sì me li ricordo i Jacobelli, i Vecchietti, gli Zatterin, spasso televisivo di Alighiero Noschese che li imitava. Ma forse la ricchezza, in cui siamo caduti, dico caduti, invece di migliorarci, ci ha peggiorati. Speriamo non irrimediabilmente.

sabato 10 agosto 2024

Anniversari. 8 agosto 1956: la tragedia di Marcinelle

All’anagrafe di Taurisano non sono pochi i Pasquale Stifani, tutti nipoti dell’unica vittima di Taurisano nella tragedia di Marcinelle: Stifani Pasquale, detto Ninu (1924-1956). In quell’inferno, che esplose a più di mille metri di profondità, morirono 262 minatori di 12 nazionalità diverse; gli italiani furono quelli che pagarono il prezzo più alto: 136 vittime. Perché tanti italiani in Belgio in quel periodo, ben 44mila? Già in precedenza, durante il fascismo, il governo belga aveva richiesto al governo italiano manodopera per le miniere di carbone. Mussolini, provocatoriamente, chiese se nelle miniere c’erano finestre e alla risposta scontata disse che gli italiani non lavorano dove non entra la luce del sole. Una mussolinata, perché gli italiani lavoravano, e come!, nelle miniere in Sardegna. Ma, evidentemente, per il Duce, lavorare in miniera per la patria è un conto, per capitalisti stranieri, un altro; la cosa gli provocava rigurgiti socialisti. L’Italia, all’indomani della sconfitta militare nella seconda guerra mondiale, aveva un’altra classe dirigente, più realista e più consapevole dei bisogni del Paese; e soprattutto aveva le ali più abbassate. Di quanto era accaduto nel mondo aveva la sua parte di responsabilità, di cui ora doveva farsi carico la nuova dirigenza. Così, il 23 giugno 1946, l’allora presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi rispose positivamente e firmò un accordo col governo belga. Il che andava incontro sia alle esigenze belghe sia all’Italia, che, in questo modo allentava la crisi occupazionale e nello stesso tempo aveva il carbone, di cui aveva necessità per riavviare l’industria italiana. L’accordo prevedeva che per ogni minatore italiano c’era un corrispettivo da 2,50 a 5,00 tonnellate di carbone. Posto così, il discorso sembra oltremodo immorale. Non si scambia la vita umana né con soldi né con altro. Perché, se è vero che non tutti i minatori sono morti giù in miniera in incidenti come quello di Marcinelle, è anche vero che tutti i minatori, dopo anni di miniera, hanno contratto malattie tipiche, come la silicosi, la pneucomoniosi, l’artride reumatoide, che hanno reso più penosa e più corta l’esistenza in vita. Si può dire che dopo una guerra ce ne fu un’altra, che colpiva però solo una parte della popolazione, mentre neppure essa si accorgeva delle ferite che quotidianamente subiva. Da questo punto di vista si può dire che le vittime di quella “guerra” non si contano. I paesi che hanno avuto vittime a Marcinelle hanno avuto modo di riflettere ancora di più su quella tragedia. Taurisano è uno di questi. Eravamo ragazzini nel 1956 e Antonio Stifani, figlio di Pasquale era nostro amico. Rimase orfano insieme alla sorella. I due ragazzi furono assistiti dalle istituzioni per l’interessamento di alcune personalità influenti di Taurisano, fra cui il dr. Luigi Lopez y Royo dei Duchi di Taurisano, all’epoca consigliere provinciale. Quei ragazzi furono tolti dal loro ambiente famigliare e paesano per tutto il periodo della scuola elementare e media. Noi, amici, fummo deprivati della loro compagnia. Grazie anche al fatto che Antonio è divenuto poi docente di materie letterarie, sindaco di Taurisano e più volte consigliere provinciale, di quella tragedia non ci siamo mai dimenticati, ben oltre quello che fa l’informazione pubblica ogni anno. Si consideri che all’epoca non erano molti i televisori a Taurisano. La Rai aveva iniziato le trasmissioni due anni prima, nel 1954. La tragedia, perciò, fu vissuta porta a porta. Alcuni anni fa, il Comune di Taurisano ha fatto gemellaggio col comune di Manoppello, in Abruzzo, che ebbe a Marcinelle ben 23 vittime, un paesino di qualche migliaio di abitanti. Perché tanti? Perché, come accade nel mondo degli emigranti, basta uno per aprire la strada agli altri, per lo più parenti e vicini di casa. Si formano così piccole colonie. A Taurisano rimase vittima solo lo Stifani, perché i tantissimi altri minatori taurisanesi o erano in altri bacini carboniferi o osservavano altri turni di lavoro. Quando la salma arrivò a Taurisano fu un evento, con larghissima partecipazione di gente comune e di autorità civili e militari. A Manoppello c’è un monumento che ricorda quelle vittime. Anche in altri comuni ve ne sono. A Casarano c’è il monumento al minatore, di cui si occupò l’ex minatore Lucio Parrotto. A Taurisano ancora niente. Ma non è detto che non si faccia. La miniera di Marcinelle è stata chiusa ed è diventata Patrimonio dell’Umanità Unesco, luogo dell’intelligenza universale. Un monumento al minatore o alla tragedia di Marcinelle ci consentirebbe di avere un contatto perenne.

sabato 3 agosto 2024

I dolori di Frau Ursula e le licenze della sora Giorgia

C’è un modo di dire da noi salentini che pressappoco suona così: «ogni mucchiu è nnu turchiu», cioè ogni mucchio di cose che ben non si distinguono è un turco. Ciò sottolinea la paura atavica di noi salentini per i turchi, per cui qualsiasi cosa che non si veda bene è scambiata per un turco. Dopo la devastante esperienza dei fascismi nel mondo, nel corso del XX secolo, i turchi sono stati sostituiti dai fascisti, ed ecco che ogni politico che parla di Dio, patria, famiglia, ordine, produttività, efficienza, onore, tradizione, non si capisce di che cosa parli e si grida “mamma, i fascisti!”. Ho avuto personalmente la fortuna o la sfortuna, a seconda dei punti di vista, di vivere a Berna per due dei miei anni più formativi, dai quindici ai diciassette; e colà ho avuto modo di apprezzare il “fascismo”. Sissignori, tutto ciò che specialmente in Italia passa per fascismo ed è aborrito, da quelle parti è normale ordinamento di vita. Colà la democrazia, il liberalismo, il socialismo, il rispetto della persona e dello Stato, delle leggi e delle costumanze, sono un consolidato modo di vivere, accettato senza tanti arzigogolii filosofici ed ideologici. Arrivo al dunque, sperando che l’aperitivo non sia andato di traverso a qualcuno. Sarà stato un caso ma appena si è profilata all’orizzonte la nave con le vele nere della Meloni, con lei stessa sulla prora e i capelli biondi sparsi al vento, che sembrava l’eroina del Titanic, c’è stato dalla Rai un fuggi fuggi, come i topi che appena sentono il primo giro di serratura la mattina presto in un vecchio negozio scappano da tutte le parti. Non sto qui ad elencarli tutti i sorci scappati dalla Rai. Alcuni erano bravi, altri di meno. Le opposizioni hanno subito colto la palla al balzo e hanno gridato a Tele Meloni, non sapendo che dire, ponendo un problema che non esiste. Che però è esistito quando la Rai era tripartita: Uno-Dc, Due-Psi, Tre-Pci. E gli altri? Non avevano diritto, erano fuori dall’unione matrimoniale, pardon, costituzionale. Ma di quelli, chi se ne frega? Ringrazino Iddio che non sono stati reclusi a vita. Comprensibile che Frau Ursula von der Layen si sia allarmata e nelle sue note sullo stato di diritto nell’Unione Europea abbia attenzionato l’Italia. Ahi, ahi, ahi, liebe Ghiorghia, che mi combini? Nota: il suono della g in tedesco è sempre gutturale. La Ghiorghia le ha inviato una lettera in cui si fa le sue ragioni, semplicemente dimostrando che in Italia non c’è nessuna limitazione all’informazione pubblica. Chi se n’è andato dalla Rai lo ha fatto per motivi suoi, comprensibilissimi, che con la politica hanno a che fare ma non nel senso che si vorrebbe accreditare. E, poi, diciamo la verità: alcuni erano ormai dei vecchi ottoni. Il problema della libertà di stampa in Italia ancora esiste, nel senso che, laddove i direttori di giornale o di rete, privati, possono, operano da autentici dittatori e fanno le discriminazioni che vogliono. Giornali in cui si danno il cambio cinque o sei esponenti di sinistra, sistematicamente, nella totale assenza di esponenti di destra. I motivi dell’esclusione sono tanti e possono essere variamente giustificati. Solo in un modo non possono essere giustificati ed è quello della discriminazione politica quando così la si chiama perché così è. Chi si riempie la bocca, ed ovviamente la pancia, di democrazia e di libertà di parola e di pensiero, neppure si accorge del gesto che compie con la mano sconnessa dal cervello quando clicca su un file e lo porta nel cestino. Se fossi il fascista che molti dicono che io sia, direi bravo, hai compiuto un bel gesto, amico; ti capisco. E poco importa che l’hai fatto contro di me! Chi non la pensa come te non ha diritto di parola. Ma io sono io, starei per continuare alla Sordi…ma mi accorgo che sono gli altri a poter usare quel linguaggio nei miei confronti. Perché a non essere un cazzo sono io. Ora, per non pagare le quattro grane, come si diceva al tempo dei Borbone, dico che sono il fascista di Berna e che qui, in Italia, non so più chi sono. Mi guarderei bene dal dirmi fascista e non perché un Giuli al Maxxi mi porrebbe in una pozzanghera, mentre lui siede su poltrone dal fondo soffice e dai fregi dorati, o per non dover subire i rigori della legge, ma per non offendere i miei tanti amici bernesi, i quali di essere fascisti non passa loro neppure dalla mente, sono solo dei cittadini, che non si sognerebbero mai di affibbiare epiteti al prossimo allo scopo di escluderlo. Du, ja, lieber Ghighi – mi direbbero – du bist ein richtige Italiener.