sabato 2 novembre 2024

La voce della "pozzanghera"

Io quell’Alessandro Giuli, ministro della cultura, lo “conosco” da molti anni. Le virgolette sono d’obbligo perché di persona non l’ho mai visto, mentre il divario di età e di luogo scoraggia dal cercare improbabili circostanze d’incontro. Agli inizi degli anni Zero del secolo nuovo ci trovammo insieme in una rivista “L’Officina”, che usciva a Roma. Chiaramente di destra, aveva come sottotitolo “Le ragioni nazionalpopolari”. Stare in uno stesso luogo culturale è come convivere in una stessa casa e ti viene spontaneo cercare di conoscere gli altri con-viventi. Mi misi a leggere i suoi interventi, come del resto quelli degli altri. Fui colpito dal fatto che di qualunque cosa trattasse non si capiva niente. La sua prosa era come una ragnatela, il significato sfuggente come polvere. Sarà perché io ho la mentalità dello storico – mi dissi – e dunque privilegio i fatti il più chiaramente possibile esposti! Dimostrava comunque una propensione per la filosofia, per la religione, per l’esoterismo. Un po’ di anni fa un amico mi regalò due suoi libri, una raccolta di poesie e un romanzo. Idem con patate. Non si capiva niente. Non so più dove siano andati a finire quei due volumetti, per cercare di rileggerli oggi e vedere se a distanza di anni capisco qualcosa che l’impazienza non mi consentì di farlo quando m’approcciai la prima volta. Il Giuli, però, ha dimostrato negli ultimi anni di possedere buone doti scrittorie. È capibilissimo, pur con quella ricercatezza lessicale che qualche volta lo fa scivolare fuori pista. Non sarebbe diventato un collaboratore del “Foglio” e poi addirittura condirettore se non si fosse in qualche modo piegato all’esposizione facile e diretta, tipica del giornalista. I suoi libri, ne ho letti due, “Il passo delle oche” e “Gramsci è vivo”, li ho trovati divertente il primo, con molto humour, e un po’ irritante il secondo per le genuflessioni continue all’altare di Madonna Costituzione. Essa è da rispettare, ma non da venerare. La venerazione insospettisce e fa pensare ad altre cose, che il buon Andreotti chiamava “male”. Infatti Giuli è stato eccessivo quando, commentando alcune scene di camerati che salutavano romanamente e cantavano inni fascisti così solo per divertirsi e per il gusto di trasgredire, ha usato la parola “pozzanghera”. Quei giovani, che sicuramente avevano votato Fratelli d’Italia e contribuito a farlo diventare Presidente del Maxxi prima e Ministro della Cultura dopo, non meritavano di essere scaraventati in una sorta di bolgia dantesca, dove Giuli condanna i peccatori irriducibili. Non so lui, ma io in quella “pozzanghera” ci sono stato e forse perfino la Meloni nei suoi anni più giovanili c’è stata; non dico che lì dentro si è fatto il bagno, ma insomma i piedi credo se li sia bagnati qualche volta, perché in quella pozzanghera c’è l’humus della cultura nazionalpopolare. Giuli non è più per simili cose, forse non lo è mai stato. E neppure la Meloni lo è più. Ma mi piace pensare che lei tra una vasca piena di latte di asina e una pozzanghera, tutto in senso figurato s’intende, di cui Giuli è maestro, piuttosto che fare la Poppea, un pensierino per la pozzanghera lo avrebbe fatto. Non ha più l’età e la condizione sociale per sguazzare liberamente tra girini e ranocchi; ma non credo che lei per quell’ambiente abbia lo stesso giudizio di Giuli. Nel 1977 Marco Tarchi, allora giovane dissidente del Msi, fondò una rivista satirica, “La Voce della Fogna”. Fu un successo che, però, gli costò l’espulsione dal partito. La “pozzanghera” di Giuli è imparagonabile alla “fogna” di Tarchi. Nella prima c’è disprezzo, nella seconda c’è tanta autoironia e nobile difesa di una condizione. Quando “La Voce della Fogna” fu fondata, sui muri delle città italiane i comunisti scrivevano “fascisti carogne tornate nelle fogne” e rischiavi all’Università o per strada di rimediare qualche sprangata in testa. Oggi i fascisti-missini o quel che di loro resta vivono nei salotti della politica e forse alcuni di loro occupano spazi patinati ai quali non sono affatto adeguati. Il partito non ha meglio da offrire o se pure ce l’ha preferisce i “fidati”. Meloni non sbaglia, ma prima o poi sarà costretta a rischiare di affidarsi a qualcuno che al potere non arriva perché non c’è di meglio, ma perché ha più spiccate e comprovate doti. La vicenda del Ministero della Cultura, da Sangiuliano a Giuli, è emblematica. Ma, onestamente, tra il modesto Sangiuliano e l’esoterico Giuli era da preferire il primo. Per Sangiuliano non c’era niente di meglio, per Giuli non c’era niente di peggio.

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