sabato 9 novembre 2024

Politicamente scorretti non significa essere maleducati

Ogni tanto a bordo strada incontri qualche signora che non ci metti molto a capire che si tratta di una prestatrice d’opera. Se ti fermi e a lei ti rivolgi chiamandola per l’attività svolta, quella, che pure sta lì apposta, ti può querelare o spaccarti la faccia. E avrebbe ragione nell’uno come nell’altro caso. Il politicamente scorretto non può essere mai maleducazione. La parola “politicamente” lo preserva in un preciso contesto che è quello della politica. Fuori da quel contesto è violenza verbale, variamente punibile. Di recente Elon Musk, il presidente della Tesla, l’uomo più ricco del mondo, che progetta di andare e venire da Marte, sostenitore di Trump nella campagna presidenziale vincente negli Usa, ha chiamato Olaf Scholz, il cancelliere della Germania, «scemo». In altri tempi la cosa poteva risolversi come minimo con un duello. Oggi, semplicemente non si risolve, la si lascia sospesa. E meno male, perché Musk sarebbe capace di infilzare il povero Scholz al primo assalto, data la differenza d’età e di indole. Scholz, probabilmente, aspetterà l’occasione per servirgli la risposta. C’è oggi in Italia un deciso attestarsi sul politicamente corretto, che, per dirla con un termine immediato e diretto, potremmo chiamare ipocrisia. In politica l’ipocrisia non è un difetto, è un pregio perché tende a sdrammatizzare e a far passare una cosa brutta per qualcosa che non ha niente a che fare né col bello né col brutto. Purché non si usi l’ironia, perché in questo caso salterebbe subito all’occhio la scorrettezza. La frase con cui Berlusconi si rivolse a Rosy Bindi, «lei, signora, è più bella che intelligente» fu doppiamente scorretta. L’avesse detta ad una bella donna, l’offesa sarebbe stata semplice; ma lo disse ad un’anziana signora che certo non brillava per bellezza, dunque se non brillava per bellezza meno ancora brillava per intelligenza. Purtroppo il politicamente corretto ha invaso ogni campo in maniera anche esagerata, contravvenendo alle più elementari regole della comunicazione, che impongono di essere rapidi, essenziali e sintetici, usare il minor numero di parole possibile. In nome del politicamente corretto c’è un sovvertimento generale nella comunicazione. I portatori di handicap, ciechi muti sordi disabili in genere, premesso che a loro non ci si rivolge con questi termini, perché si sarebbe maleducati. Essi diventano non vedenti, non parlanti, non udenti, diversamente abili; e va da sé che a loro non ci si rivolge direttamente neppure in quest’altra forma. Il discorso vale nel discorso indiretto, dove non si offende nessuno in specifico e l’una forma vale l’altra. Dire cieco o dire non vedente è la stessa cosa, solo nella seconda forma si impiegano due parole invece di una. Ma non è solo questione di quantità di parole. Ci sono proverbi, “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, per esempio, che vengono privati della loro forza semantica se riproposti in politicamente corretto. Se dici “chi va con un diversamente abile impara ad essere un diversamente abile”. Così “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” perderebbe trasformandolo in “non c’è peggior non udente di chi non vuol non udire”. Oppure “il figlio muto la mamma lo capisce” trasformato per il politicamente corretto “Il figlio non parlante la mamma lo capisce”. La buona educazione vuole che in presenza di un portatore di difetto non si citi quel difetto. Comunque nel corso dei secoli le cose sono mutate. Pensiamo ai romani, i quali conferivano i tria nomina (tre nomi: prenomen, nomen, cognomen) alle persone importanti. Il cognomen era il soprannome, un privilegio. Cicerone (Marco Tullio) era così chiamato perché aveva un grosso porro in faccia a forma di cece. Il poeta Orazio (Quinto Orazio Flacco) aveva per cognome Flaccus (molliccio) perché era basso, grosso e flaccido. L’imperatore Claudio fu così detto perché era zoppo (da claudico). In realtà il politicamente corretto ha impoverito la nostra lingua, ha burocratizzato la comunicazione e non risolto minimimente il problema, giacchè è parimenti offensivo rivolgersi direttamente ad un sordo chiamandolo non udente. Ad una persona, quale che sia la sua condizione, ci si rivolge con educazione senza nessuna intitolazione né in positivo né in negativo. La nostra era si sta caratterizzando sempre più per una sorta di diffuso pietismo. Niente a che fare col Pietismus, corrente culturale-religiosa in Germania tra Sei-Settecento, ma tendenza a smussare, addolcire, eliminare tutto ciò che appare duro, avvicinare gli esseri umani verso un punto condiviso che non segni differenze. Tutto questo è positivo purché non si esageri e impoverisca il lessico, in una fase in cui peraltro la nostra lingua viene sempre più mortificata e perfino greco e latino vengono letti all’inglese. È uno sproposito sentire conduttori e conduttrici in televisione pronunciare il grecissimo «bio» bai e il latinissimo «plus» plas. Che onomatopeicamente fa pensare ad un tonfo rovinoso.

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