domenica 26 aprile 2020

I giorni del Coronavirus 16



Venerdì, 27 marzo. La situazione: 80.539 casi totali (+ 11.363), 62.013 positivi (+ 7.983), 10.361 guariti (+ 999), 8.165 deceduti (+ 662). Puglia: 1.095 casi positivi (+ 72), 22 guariti (=), 65 deceduti (+ 17). S’impenna la curva dei casi totali e dei positivi. Aumenta in Puglia il numero dei positivi, stagna quello delle guarigioni, aumenta quello dei decessi.

Più giorni passano e più mi convinco che il governo non ha saputo prendere i giusti provvedimenti al momento giusto e ha assunto un comportamento schizofrenico nei confronti della popolazione, mentre il sistema fa acqua da tutte le parti. Molti medici sono morti, finora 44, perché mandati allo sbaraglio senza difese e con poche attrezzature. Manca tutto. Si è andati avanti con decreti prima annunciati e poi fatti, con insistenze sulle stesse materie, vedi modello di autocertificazione, arrivato alla quinta modifica in pochi giorni. Sono state messe tante di quelle condizioni ostative che il cittadino non può mettere il naso fuori di casa. Non è riuscito il governo a fare la cosa più semplice di questo mondo agli inizi, e cioè chiudere la zona rossa, come i cinesi avevano fatto con la loro. Invece hanno lasciato che decine e decine di migliaia di meridionali lasciassero il Nord per tornarsene al Sud, portando il virus e contagiando i famigliari. Qui, purtroppo, non siamo né in Lombardia né nel Veneto o nell’Emilia Romagna, dove il numero dei guariti supera quello dei morti; se in Puglia, Campania e Calabria dovesse impennarsi la curva dei contagiati sarà un’ecatombe. Mentre cresce il numero dei positivi e dei ricoverati, in Puglia non cresce il numero dei guariti e cresce invece quello dei morti. Stiamo andando incontro alla catastrofe. 

La clausura intanto è sempre più pesante da sopportare. Non ci resta che leggere e scrivere, vista e testa permettendo. L’aforista americano Mason Cooley osservava che “la lettura ci offre luoghi dove andare, quando siamo costretti a restare dove stiamo”, un po’ quello che diceva qualche giorno fa Dacia Maraini: leggere è come uscire dalla finestra, non potendo uscire dalla porta. E questo è vero. La ragione di questo diario non è solo di passare del tempo a scivere dopo aver letto, ma anche di dare ad altri la possibilità di leggere, in aggiunta a quello che hanno di loro. Ci bbusca e ddà – dice – un proverbio dialettale salentino – a mparatisu và. In tempi di epidemia da virus noi alimentiamo l’epidemia della parola e della conoscenza.

Leggo dall’editoriale di “7 Corriere della Sera” di Barbara Stefanelli che “In Giappone, da secoli, esiste una tecnica chiamata Kintsugi. Consiste nel riparare gli oggetti in ceramica che sono finiti in cocci dopo una caduta, un urto, un colpo imparabile. È un’arte, delicata ed estrema, che mette insieme i frammenti con un collante forte e una polvere d’oro. Niente sarà più come prima, il vaso in frantumi non sembrerà come nuovo. Al contrario: le nervature mostreranno il trauma, saranno la mappa rivelatrice di una storia unica e irripetibile. Ogni pezzo rammendato esce dalla produzione in serie e diventa soltanto sé stesso, impreziosito dal metallo e dalla cura”.
Perché la citazione? Non tanto per quello che ha voluto dire l’autrice e cioè che noi dopo il coronavirus non saremo più quelli che eravamo prima, perché rotti e racconciati come vasi in pezzi, ma perché mi porta ad alcuni anni fa, mi ricorda mia madre che i vasi rotti li riparava lei mettendo insieme i cocci, cucendoli e stuccandoli con la calce. La vedo ancora fare i punti col pizzo delle forbici, infilare i punti di ferro filato (e ponte) nei fori e stringere battendoli all’interno leggermente con un martello. Erano anni in cui ancora vigeva la civiltà del bisogno, quando non si buttava niente e tutto veniva riparato o riciclato. Allora riparare i recipienti di terracotta era un mestiere, si chiamava del conzalìmmere (aggiusta limbi), che quasi sempre era svolto dagli zingari del paese, che avevano un curioso rudimentale trapano come una trottola. I limbi erano vaschette di terracotta smaltata che servivano per il bucato o per lavarsi.
Quanto agli effetti metamorfizzanti di questa terribile epidemia, non sono d’accordo che produrranno trasformazioni di sostanza. Cambieranno un po’ di abitudini e per un po’ di tempo, per lasciare tutto a come prima e a come è sempre stato da Adamo ed Eva ai giorni nostri.

I russi hanno preso cappello per un articolo apparso su “La Stampa” a firma di Jacopo Jacoboni, in cui si intravedeva nell’invio di militari in Italia per aiutare gli italiani nella lotta contro il coronavirus un interesse politico. Gli ha risposto ieri, 26 marzo, l’Ambasciatore russo in Italia Sergey Razov con una lettera al direttore Maurizio Molinari. Dopo aver respinto tutte le malignità dell’articolista, l’Ambasciatore conclude: “offriamo ai lettori l’opportunità di giudicare da soli chi e come viene in aiuto al popolo italiano nei momenti difficili. In Russia c’è un detto: «Gli amici si vedono nel bisogno»”. A parte il fatto che questo detto è universale, citato nella circostanza assume una certa ambiguità che, per certi versi, accredita in parte le malignità di Jacoboni. Il quale ha subito risposto nell’edizione digital de “La Stampa” di oggi, ma con argomentazioni banali, molto banali. Il problema, l’ennesimo creato da quell’incompetente di Conte, resta. I russi se proprio volevano aiutarci avrebbero dovuto avere rispetto della dignità del popolo italiano, evitando un’operazione che di certo limpida non è.

Leggo che l’amuchina, la tanto famosa o famigerata amuchina, simbolo di questa epidemia, fu un composto trovato nel 1922 da un ingegnere elettronico di Altamura, Oronzio De Nora. Fu lui che la chiamò Amuchina e ne depositò il brevetto in Germania; poi lo cedette. Si tratta di un composto di ipoclorito di sodio diluito in acqua, che si rivelò per un potente antibatterico.

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