Mercoledì, 25 marzo. La situazione: in Italia fino a
ieri, 24 marzo, i casi totali sono 69.176 (+ 5.249), i positivi 54.030 (+
3.612), i guariti 8.326 (+ 894), i deceduti 6.820 (+ 743). In Puglia: 940 casi
(+ 78), 21 guariti (+ 14), 44 deceduti (+ 7).
Doveva scadere oggi la clausura,
e invece è stata prorogata e inasprita, come del resto era prevedibile. Si
parla del 31 luglio come termine per ricominciare una vita normale, coronavirus
permettendo.
Una fissa in testa mi si fa
sempre più chiodo solare. Stiamo toccando con mano quanto agli italiani sia
facile appioppare una bella dittatura. In buona sostanza il capo del governo
Conte sta facendo tutto da solo. Non voglio dire che è un dittatore, ma che il
gradimento del popolo nei suoi confronti è del 51% rispetto agli altri politici
e 7 italiani su 10 convengono sul suo operato al governo. In un momento di
congiuntura e di enormi difficoltà forse conviene a tutti che ci sia un “fesso”
a caricarsi il Paese sulle spalle, anche a quelli dell’opposizione, che fanno
finta di rivendicare un ruolo partecipativo ai provvedimenti. Sentire saccenti
e protestatari incalliti, come Marco Travaglio e Gianrico Carofiglio, difendere
il governo, trasformarsi in laudatores,
mentre non la smettono di fare battute velenose e fuori posto su Salvini e la
Meloni, fa pensare che il fascismo non solo non fu imposto agli italiani ma da
loro fu richiesto e rafforzato. Quel Conte, se non ci fosse stato, lo si
sarebbe dovuto inventare. Gli italiani tutti in mascherina e guanti e tutti a
casa non sono tanto diversi dagli italiani in camicia nera. E non sembri
un’esagerazione! Ogni tempo ha i suoi Duce
e i suoi scherani.
La mia preoccupazione trova il
conforto in un appello che eminenti personalità dell’Italia democratica ha
fatto, in cui si legge che il “Tutti a casa” è salutare per i medici ma è un
“veleno per le istituzioni. La pandemia non può mettere in quarantena la
democrazia”; e conclude che “Se ci si rassegna oggi, si perde la libertà
domani”. Una preoccupazione eccessiva: gli italiani sono propensi a perderla in
allegria la libertà, a prescindere.
Il professor Andrea Crisanti,
chiamato dal Governatore del Veneto Luca Zaia a studiare un piano per
combattere il coronavirus, ha detto al termine di un’intervista che in
Lombardia ci sono stati tanti morti perché “c’erano industrie attive con
migliaia di dipendenti…soprattutto a Bergamo, per produrre beni peraltro non
necessari. Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di
fronte alla morte”. Accusa dura ma fondata.
Ma, come dice il proverbio,
siediti storto e giudica diritto, che cosa si può fare in un momento di
gravissima emergenza come questa che stiamo vivendo senza danneggiare o
sacrificare qualcosa? Le restrizioni sono incostituzionali, d’accordo, ma in
una situazione normale! In una situazione eccezionale si fa quello che conviene
di più. E non dicevano i latini primum
vivere deinde philosophari? Mi accorgo che è assai difficile perfino
mantenere un’opinione per più di mezza giornata. Confusione e incertezza
regnano sovrane.
Marco Tarchi mi fa visita
ogni tanto con le sue mail. L’ultima è una sua intervista. Prendo l’ultima
domanda che gli è stata posta e, ovvio, la sua risposta.
In che Italia ci troveremo a vivere fra un anno? – gli chiede
l’intervistatore –. E lui: “Mi guardo bene dall’azzardare previsioni, anche se,
al momento, non posso nascondere una sensazione di preoccupazione molto forte
su tutti i piani: medico, economico, ma anche più largamente sociale. Non sono
fra coloro che si entusiasmano per la presunta riscoperta del patriottismo che
si esprimerebbe nei canti alla finestra o negli striscioni appesi ai balconi;
temo che dietro ci sia nella maggior parte dei casi soprattutto, quando non
solo, la voglia di aggrapparsi alla dimensione collettiva del dramma per
alleviare un disagio strettamente individuale o familiare. Il che è
assolutamente comprensibile, ma mi impedisce di dare per scontato che “andrà
tutto bene” o che impareremo da questi eventi la lezione di una solidarietà
profonda. Quando la disattivazione del sistema produttivo e il crollo di
settori che impiegheranno anni, forse molti, per riprendersi produrranno
un’enorme quantità di disoccupati e il livello di ricchezza sarà nettamente
decresciuto, mi chiedo se non si rischierà piuttosto una fase di forte e
disgregante conflittualità interna. Mi auguro, ovviamente, che questi timori
siano infondati, ma sarei ipocrita se li nascondessi”.
Io credo che nessuno possa dire
che cosa accadrà domani o dopodomani, figurarsi fra un anno, ma non sono molto
lontano da Tarchi quando dice e/o teme “una fase di forte e disgregante
conflittualità interna”. Sicuramente avremo molti problemi. Vedo, inoltre, che
i rapporti umani si stanno inasprendo. Questo essere esposti a vigili e a
poliziotti che ti minacciano o ti multano perché non hai la mascherina, a
gestori di negozi che ti rimproverano aspramente, mentre pochi giorni prima ti
riverivano, perché sei entrato in negozio quando già ce n’erano altri due
dentro, è una spia dell’esacerbarsi degli animi, dell’incattivirsi delle
persone.
In questa atmosfera di clausura
si è oggi celebrata l’istituzione della Giornata Nazionale per Dante Alighieri,
il cosiddetto Dantedì, come è stato
proposto di chiamarla da Paolo Di Stefano e dal Prof. Francesco Sabatini, in
occasione del 700° anniversario della morte di Dante che cadrà l’anno venturo,
nel 2021. Si ritiene convenzionalmente che il 25 marzo Dante avesse iniziato il
suo viaggio nei tre regni dell’oltretomba. Con l’aria di morte che aleggia sul
paese e sul mondo non ci poteva essere una più degna cornice.
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