Una pausa pasquale è d’obbligo,
anche per quel comandamento di Dio che ricorda di santificare le feste. Ce la
concediamo, ma non senza qualche utile riflessione sul nostro essere cittadini,
credenti, a prescindere dalla fede religiosa di ciascuno, nella bontà della
Chiesa e dello Stato. In tempi assai difficili per l’una e per l’altro.
Ho appena finito di leggere un
libretto di Vittorio Messori, fresco fresco di stampa “La Chiesa di Francesco”,
ovvero la Chiesa
che il papa argentino ha ereditato e quella verso la quale egli vuole andare. I
credenti sono in calo un po’ dappertutto nel mondo. In Europa si è passati dal
45 % agli inizi del Novecento al 35 % della fine. Perfino nelle Americhe la Chiesa è erosa da numerose
sette tra il superstizioso e il folkloristico. Messori è fiducioso nella
ripresa, ripone molte speranze nel nuovo Papa, che, senza togliere nulla ai
suoi due predecessori, di grande carisma e valore, ha impresso una sterzata,
per ora coi suoi gesti e coi suoi comportamenti.
Non ci vuole molto a rendersi
conto che qualcosa si vuole cambiare. Sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI
hanno interpretato la missione di Cristo sulla terra in maniera tradizionale,
come fino al Novecento era intesa.
Di quel modo sicuramente il primo
e maggiore interprete è stato Pio XII, solenne e ieratico. Quando apriva le
braccia sembrava toccare i due poli della Terra. Un Papa anche molto criticato
per certi suoi silenzi, per certe sue simpatie, per un certo modo aristocratico
e distaccato di intendere la figura del pontefice. Giovanni XXIII, suo
successore, volle proporsi in discontinuità. Lo aiutava la sua immagine di uomo
più schiacciato sulla Terra, mentre Pio XII sembrava proiettato, con la sua
figura alta e slanciata, verso il cielo. Un papa alla buona Angelo Roncalli,
parlava un linguaggio poetico, ma sapeva essere anche diretto. Seppe uscire
fuori da San Pietro e soprattutto
concepire una svolta col Concilio Vaticano II. Ma una svolta in buona sostanza
fallita, dopo il tentativo di darle concretezza di Paolo VI, a cui passò per la
testa perfino di dimettersi. Sua la norma nel diritto canonico delle dimissioni
papali.
Oggi si tende a limitare
l’importanza di Giovanni Paolo II alla caduta del comunismo, di considerarlo un
pontificato di scopo. Quanto a Benedetto XVI, si può dire che è stato un grande
teologo, un Innocenzo III dei nostri tempi, ma per certi altri aspetti una
sorta di Celestino VI. E’ proprio vero che la frase che si pronuncia alla morte
di un papa, “sic transit gloria mundi”, vale anche per la fama che essi si
lasciano dietro. Grandi papi ai loro tempi, si sono come dissolti nella
posterità. Un piccolo e quasi insignificante eremita, come Pietro dal Morrone,
è rimasto nell’immaginario collettivo come un “povero cristiano”, come ebbe a
definirlo il suo conterraneo Ignazio Silone, ma anche un papa che compì un
gesto storico.
Questo nuovo papa, che abbiamo
visto il giovedì santo lavare e baciare i piedi ad alcuni giovani detenuti, è
capace di trasmettere messaggi importanti. La sua è una scommessa e una sfida.
E’ un papa che porta con sé il crisma del continente da dove è venuto, che non
è quello dell’Europa, ma neppure quello dell’Africa o dell’Asia. Il rischio che
si perda l’universalità del messaggio cristiano, che deve saper giungere a
tutti gli uomini della Terra, in qualunque condizione essi vivano, c’è tutto.
Potrebbe Francesco I inaugurare i pontificati geopolitici, oggi l’America del
Sud, domani la Cina. Messori
li prevede come in serie: oggi un papa latino-americano, domani un papa cinese.
Personalmente sono rimasto
colpito dal gesto papale “dei piedi”, ma non ho saputo trattenere un moto di
indignata incomprensione di fronte a tanti, pur sfortunati giovani, che si son
lasciati lavare i piedi da un uomo di quasi ottant’anni. E’ un gesto che
incomincia a non essere più compreso qui in Europa. Non erano malati quei
giovani. Non erano impossibilitati di lavarsi da sé. Il gesto è simbolico,
d’accordo, ma anche il simbolo deve avere un fondamento di concretezza. Ogni
cambiamento passa da fatti e non solo da gesti simbolici, peraltro non più
comprensibili come una volta.
Napolitano ha formulato a
Francesco I gli auguri pasquali senza nascondere il grave momento politico
dell’Italia, al bivio di grandi cambiamenti nella nostra democrazia. Quasi
abbia voluto gemellare il nostro Paese alla Chiesa, nella comune congiuntura,
Napolitano è uscito dalla convenzionalità augurale e ha trasformato un gesto di
cortesia in un messaggio estremamente significativo.
Pare che agli irresponsabili
politici, che non sanno trovare la quadra di un governo, abbia minacciato le
dimissioni. Se lo ha fatto, vuol dire che è proprio stanco più degli uomini che
delle cose. Ha ragione, ma non a tutti gli uomini è consentito avere ragione.
La ragione è banale.
Figure diverse, il Capo dello
Stato e il Capo della Chiesa, ma in questa congiuntura si trovano entrambi a
sperare davvero che i loro popoli sappiano recuperare la condizione per
iniziare un nuovo cammino. In entrata o in uscita dal mondo, “navigare necesse est”. Buona Pasqua a
tutti.