Al Mondiale di Calcio è finita
come doveva finire. Espulsi per non aver giocato. Giocare al calcio significa
correre con la rabbia in corpo per buttare il pallone dentro la porta
avversaria. Che lo butti dentro un nero o un bianco non conta nulla,
l’importante è fare goal. Anche i più digiuni di calcio lo hanno capito dopo
aver visto tante altre squadre nazionali giocare. Noi no; noi in campo
passeggiavamo, camminavamo, incerti come chi, smarrito in una grande città, non
sapesse orientarsi per trovare la strada di casa.
Ma la miserrima fine degli
Azzurri ha marcato l’ennesima débâcle
nazionale, voglio dire dell’intera nazione. “Fuori dai Mondiali. Un caso
nazionale” ha titolato in prima pagina il “Corriere della Sera” di mercoledì,
25 giugno, tradendo un retropensiero. Attraverso il calcio volevamo fare altro,
probabilmente, con l’operazione Balotelli, esibire la nostra politica di
integrazione. Di questo si è trattato. E’ inutile girarla: siamo rimasti
vittime delle nostre storiche ipocrisie, della nostra incapacità di essere
seri, moderatamente e criticamente aperti, senza spalancamenti o abbattimenti
di porte.
Il simbolo di quest’ultima
furbata andata a male s’incentra sul calciatore di colore più discusso della
storia del calcio italiano. Doveva essere lui a far trionfare gli Azzurri; è
stato lui a farci perdere la faccia: lui, la rappresentazione plastica
dell’Italia multirazziale, multietnica, del Paese migliore del mondo in fatto
di accoglienza.
La commistione calcio-politica
era già prima. Nelle sigle della Rai create per i Mondiali i ragazzi e le
ragazze che palleggiavano, piroettando, erano quasi tutti di colore, tutti con
la maglia azzurra; sembrava che in Italia non ci fossero più bambini e ragazzi
bianchi. Si dirà: nell’ideazione non erano italiani, erano brasiliani, come il
Cristo Redentore in maglia azzurra dall’alto del Corcovado. Ma il messaggio era
un altro: coi Mondiali di Calcio l’Italia voleva far passare l’immagine di
un’Italia nuova, aperta al mondo, chiusa alla storia e alla tradizione
nazionali. L’ostinatezza di puntare su un giocatore come Balotelli da parte del
Commissario Tecnico Prandelli, in ciò sostenuto dalla grancassa mediatica, è la
prova che non sempre veniva mandato in campo per ragioni tecniche. E’ stato
riconosciuto dallo stesso Prandelli. Il quale dovrebbe dire a questo punto
quali altri condizionamenti e quali altre pressioni ha subito e da chi per
mettere in campo una squadra da marcia della pace o da escursione di boy-scout
piuttosto che da calciatori degni di quattro titoli mondiali, di un titolo
olimpico e di un titolo europeo. “Il fatto è – ha detto in una breve
dichiarazione dopo la sconfitta col Costa Rica – che certe squadre quando giocano
lo fanno con lo spirito nazionalista, che a noi è estraneo”. Questo ha detto il
tecnico che non ha impiegato poi nemmeno un’ora a dimettersi dopo la figuraccia
rimediata sul campo con l’Uruguay.
Ma scaricare tutte le colpe su
Balotelli, esibirlo a testa all’ingiù nel suo Piazzale Loreto, è ancor più
indegno di ogni altra cosa detta e pensata. Non si può incolpare una persona
per quello che è. Balotelli ha dimostrato di essere un talento calcistico
autentico ma anche un soggetto labile, con grossi problemi di inserimento e di
adattamento. Una persona del genere andava lasciata ai fatti suoi. Una squadra
di calcio, a qualsiasi livello, non può essere un’équipe di assistenti sociali.
A Balotelli si è chiesto quello che lui non poteva dare. Nemo dat quod non habet, dicevano i latini. Già, ma noi dobbiamo
dimenticare anche i latini se veramente vogliamo diventare il Paese più aperto
del mondo.
Cacciati dal Mondiale, tutti si
sono scagliati contro questo giocatore che non ha lesinato, a sua volta, accuse
all’Italia e agli Italiani. “Gli Africani – ha detto – stanno più avanti di voi
Italiani veri. In Africa non si tradisce un fratello”. Non gli si può dare
torto. L’orgoglio di appartenenza, come la classe, non è acqua. Almeno in
questo bisogna dargli atto di una maturità invidiabile.
Ma in Italia è così e non è detto
che per saperlo occorra conoscere la storia. Bastano episodi come una sconfitta
al calcio perché certe verità emergano in tutta la loro bruttezza e crudezza.
Non si era tutti entusiasti fascisti durante il fascismo; tutti ostinatamente
antifascisti dopo? E non è accaduta la stessa cosa con comunisti e
anticomunisti, democristiani e antidemocristiani, socialisti e antisocialisti,
berlusconiani e antiberlusconiani? E non accadrà così con renzismo e antirenzismo?
Aspettiamo, aspettiamo; e
vedremo! Già tanti che erano ostili a Renzi, anche del suo stesso partito, ora
gli stanno accanto, lo difendono, lo lodano, lo esaltano. Per cui le cose che
dicono e che fanno non sono criticamente meditate, ma rispondono a pulsioni
emotive di comodo immediato. Proprio come Prandelli, che in quattro anni non si
è mai sognato di dire: signori, una squadra si fa per vincere, con criteri
tecnici; ogni altro criterio deve rimanere fuori, se non mi consentite di fare
il mio lavoro come ritengo giusto, tanti saluti e grazie. No, non l’ha mai
detto, perché, tutto sommato, il modo conventuale di fare le cose in Italia
finisce per deresponsabilizzare, per lavarsi le mani al momento opportuno.
Ha detto: il mio progetto tecnico
è fallito. Sicuri che era un progetto tecnico? Quattro anni di conduzione della
Nazionale hanno dimostrato che non ai risultati si mirava ma a qualcosa di più
politico e sociale, di più pedagogico e moraleggiante. Se è così, allora, meno
male che è fallito. Perché almeno così il calcio può tornare ad essere uno
sport con tutta la sua fisicità e la sua eticità, ma soprattutto con la sua più
immediata finalità, che è gareggiare con onore, nella consapevolezza che si può
vincere o perdere, ma senza mai perdere la faccia o perdere per ragioni, anche
nobili se vogliamo, ma estranee allo sport.