sabato 25 maggio 2024

Brescia 1974: terroristi, fascisti e missini

Lunedì, 20 maggio, al Liceo Giulietta Banzi Bazoli di Lecce c’è stata una cerimonia di ricordo della strage di Brescia del 28 maggio 1974, a cinquant’anni dall’accaduto. Ero lì, invitato, ad ascoltare i vari interventi in un’Aula Magna, dove mancavano solo bandiere e sciarpe rosse, per connotarla politicamente. C’era il figlio dell’intitolataria Alfredo Bazoli, Senatore del Pd, il Sen. Giovanni Pellegrino del Pd, Benedetta Tobagi figlia di Walter vittima del terrorismo rosso, il direttore di “Quotidiano” Rosario Tornesello. Di questi ultimi due non so il colore politico, ma non credo di sbagliarmi se lo riconduco a qualche varietà di rosso, acceso o spento. Comunque sia, andiamo avanti. Giulietta Banzi Bazoli era un’insegnante di francese, morta nell’esplosione della bomba. Era chiamata “la rossa” perché salutava col pugno chiuso entrando in classe. Meriti pubblici? Nessuno di rilievo, all’infuori dell’essere morta in un attentato terroristico fatto da fascisti. “Giusta di glorie dispensiera è morte” diceva il Foscolo. Fate voi. Mentre ascoltavo i vari interventi mi veniva di pensare all’egemonia culturale, di cui per anni si sono vantati i comunisti e di cui oggi i postmissini al governo vorrebbero vantarsi se mai giungessero a conseguirla. Con tutto il rispetto e il dispiacere personale non credo che ci riescano. Non sono i calepini di Giubilei e Giuli, che insieme non fanno un libro, a cambiare il vento della cultura. Intitolare un istituto così grande come il liceo scientifico di Lecce ad un personaggio che riporta immediatamente ad una parte è un investimento politico di eccezionale valore, che solamente chi dominava il mondo della cultura politica poteva ottenere. Tanto per capirci: c’era il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini del Pd, candidato alla riconferma alle imminenti elezioni, non c’era la sua antagonista Adriana Poli Bortone che raccoglie tutte le destre leccesi. Era una festa del Pd organizzata da un liceo pubblico, una struttura dello Stato. Tutto questo per loro, i di sinistra, è normale; l’anormalità per loro inizia dopo di loro. Chiedo scusa per l’abuso di loro, di lorsignori. La mente mi riportò a quegli anni, terribili. Noi giovani missini eravamo sconcertati, arrabbiati. Lo sconcerto nasceva dal fatto che alcuni accusati di strage erano di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, che con noi missini legalitari non c’entravano per nulla. Ci sentivamo accusati ingiustamente, anche perché delle bombe e di chi veramente le ideava e le faceva scoppiare nulla si sapeva, nulla di quel che poi si sarebbe saputo. Che cosa? Che a pianificarle erano personaggi dei poteri occulti, che ad eseguirle erano pezzi dello Stato che si servivano di giovani di destra fanatici che poi gli stessi proteggevano depistando. Nulla si sapeva della “guerra” che una parte della nazione faceva contro un’altra per far sì che l’Italia non scivolasse nell’orbita comunista, come Moro e compagni perseguivano. Certi attentati, come quello di Peteano, dove morirono tre carabinieri, fu opera dei terroristi di destra. Ma come? Ci chiedevamo. Com’era possibile che dei giovani di destra se la prendessero coi carabinieri e perché? Ci erano del tutto inimmagginabili i rapporti che c’erano tra alcuni terroristi di destra e rappresentanti dei servizi segreti e dei carabinieri, ora di collaborazione ora di scontro. Le stragi che si susseguirono dal 1969 (Banca dell’Agricoltura a Milano) al 1980 (Stazione di Bologna) venivano attribuite senza dubbio alcuno ai fascisti, senza meglio specificarli. Ma gli unici fascisti che si potevano riconoscere pubblicamente erano i missini, che con le stragi non c’entravano. I dirigenti del partito proibivano perfino di usare il linguaggio della violenza, di pronunziare le parole bombe e stragi. Una sera a Lecce l’On. Sponziello si arrabbiò come lui non era abituato, per il suo noto aplomb, perché si discuteva sulla Federazione tra noi giovani di questi episodi. Si è andati avanti così finché non è venuta fuori, poco per volta, la verità. E cioè che a compiere le stragi allo scopo di destabilizzare il paese e creare le condizioni di un governo autoritario per frenare la deriva di sinistra era lo stesso Stato, almeno una parte di esso, quella più legata all’Occidente e alla Nato. Mi ha colpito tra i tanti l’intervento di Benedetta Tobagi, la quale a momenti dava l’impressione che avrebbe preferito che ad ucciderle il padre fossero stati i neri e non i rossi, il cui ruolo nel terrorismo globale sembrava voler ridimensionare, affermando che il terrorismo rosso fu secondo a quello nero, dimenticando o non sapendo che quello rosso non era mai finito dalla Resistenza in poi.

sabato 18 maggio 2024

La destra postmissina tra vittimismo e rancore

I tasti sui quali insistono gli avversari politici della destra postmissina sono tanti da superare quelli di un pianoforte. Soffermiamoci su due in particolare, sui quali battono i vari Travaglio, Scanzi, Giannini, Montinari, Formigli, Gruber, Floris, Saviano, Scurati, Bersani, Padellaro, quando non anche gli Augias e i Canfora. Ammettiamo in limine che se queste accuse sono fatte vuol dire che hanno un fondamento di verità. Ogni “si dice” un minimo di verità ce l’ha sempre. Esse sono l’una dipendente dall’altra. Immitis quia toleravi dicevano i latini. Vittimismo. Come si fa a negare che i missini sono stati sistematicamente esclusi per cinquant’anni, sdoganati solo agli inizi degli anni Novanta da Silvio Berlusconi, secondo la vulgata corrente? È una verità che brucia in chi si è reso responsabile, direttamente o indirettamente dell’apartheid in cui sono stati tenuti i missini per cinquant’anni. Quando gli esponenti del mondo antifascista e arcocostituzionale sono stati messi con le spalle al muro hanno dovuto ammettere che sì i missini, in quanto ritenuti fascisti, sono stati sempre esclusi. Non sono chiacchiere da bar. Marco Tarchi, da giovane missino della corrente rautiana e poi della Nuova Destra, da adulto scienziato della politica, ha scritto molto sull’argomento. E il politologo Piero Ignazi sull’argomento ha scritto “Il polo escluso” (1989). Analisi scientifiche, che si possono discutere ma non inficiare. Così molti altri politologi italiani e stranieri. La risposta del “regime” è sempre stata, quando non ha potuto negare, che la parte da dove venivano i missini era quella sbagliata. In tutto il cinquantennio di esclusione i missini sono stati derubati di ogni possibilità di carriera politica e professionale. Quando un giovane democristiano, comunista, socialista, liberale faceva il suo esordio in politica davanti a lui si aprivano ipotesi di carriere importanti, che andavano da consigliere comunale, a sindaco, a presidente della provincia o della regione e via in crescendo sempre più in alto. Al missino non si prospettava, nel migliore dei casi, che il seggio di consigliere, per non contare niente. Così gli intellettuali. Un conto era essere dell’arco costituzionale, un altro essere un missino, sopravvissuto in territorio nemico. I primi avevano a disposizione televisioni, giornali, case editrici, cattedre universitarie; i missini si dovevano accontentare delle briciole, quando cadevano dalla tavola dei ricchi epuloni partitocratici. Così in tutte le articolazioni del pubblico potere. In quegli anni gli esclusi si sono nutriti di rancore. Certe cose intender non le può chi non le prova, diceva il Poeta. Insperabilmente essi sono giunti al potere portati dal popolo e hanno potuto ricordare il centenario della Marcia su Roma (ottobre 1922) con la conquista di Palazzo Chigi (ottobre 2022). Chi se l’aspettava? Un adagio popolare dice che il diavolo non ha latte e vende siero. Il diavolo è la storia nelle sue espressioni umane. Quando meno te l’aspetti, ecco che arriva! Come hanno reagito e reagiscono gli sconfitti, che credevano di avere nella formula dell’antifascismo il loro abracadabra? Malissimo. Basta vedere la bile che trasuda dai loro volti quando vomitano improperi contro i considerati schiavi per nascita diventati padroni per elezione. E che cosa si aspettavano gli sconfitti, genuflessioni dai vincitori? Politicamente parlando è sbagliato conservare rancore in politica come in ogni altra circostanza della vita, ma umanamente è comprensibile, inevitabile. Semmai i postmissini non devono avere nessun rispetto reverenziale nei confronti di nessuno, non devono avvertire complessi di sorta nel dirsi eredi dei fascisti e dei missini, devono percorrere la loro strada cercando di dimostrare che in fondo erano persone normali costrette a stare per cinquant’anni nella fogna, dove oggi qualcuno vorrebbe riportarli. I postmissini al potere stanno dimostrando di saper fare quello che forse avevano incominciato a disperare di poter o di saper fare. Gli avversari li attaccano, li ingiuriano, cercano di ridicolizzarli, ma se ne devono fare una ragione. I postmissini devono andare diritti per la loro strada. Quel che devono evitare è di farsi accusare di malversazione, di corruzione, di attività nefaste per lo Stato e la Nazione. I mal-destri, cioè gli uomini di destra che dovessero intrallazzare, devono essere buttati fuori dai loro stessi, dai ben-destri, prima ancora che se ne occupi la magistratura. Solo chi non ha freni è portato a lasciar correre!

mercoledì 15 maggio 2024

Taurisano, l'avventura dei poveri cristiani

Taurisano, 15 maggio 2024. Qui il riferimento a Celestino V e a Ignazio Silone è puramente casuale. I poveri cristiani siamo noi, uomini, donne, vecchi, bambini, quando andiamo a piedi e cerchiamo di raggiungere Piazza Castello da Corso Vanini o da Corso Umberto I o di risalire verso Piazza Fontana. Vie strette e trafficate, con fondo stradale sconnesso, con auto parcheggiate che lasciano a quelle in transito appena appena lo spazio per passare. E i poveri cristiani? Cioè i pedoni? Rischiano di ricevere in faccia o sulla nuca un colpo di specchietto retrovisore dai giganteschi suv di passaggio o di lasciare qualche piede o qualche gamba sotto le loro ruote. Non c’è verso che si possa risolvere il problema. Si potrebbe impedire alle auto di parcheggiare e lasciare l’intera strada alle auto e ai pedoni in transito. Vorrebbe dire creare un centro, un’isola pedonale. Ma il problema non è affatto risolto. Nella stessa condizione di Corso Vanini e di Corso Umberto sono tutte le vie del paese, quale più quale meno. Ci sono punti critici, nelle vicinanze di esercizi commerciali, dove si formano ingorghi che per districarli passano decine e decine di minuti. Per i poveri cristiani non c’è pietà, non c’è soluzione. Qualche anno fa un’anziana signora, nei pressi di un supermercato, fu investita da un camion in retromarcia e uccisa. La soluzione, sia pure parziale, potrebbe essere l’abbandono delle auto per i piccoli tragitti urbani e fare ricorso alla bicicletta o a qualche mezzo meno ingombrante. È incredibile che in un paese di dodicimila abitanti nessuno usi più la bicicletta per muoversi, neppure una motorella, uno scooter tipo Ciao di una volta, un Vespino. Per strada ci sono automobilisti e pedoni, basta. Poi i soliti ragazzi, che coi loro rumorosissimi scooter sfrecciano senza rispetto di niente e di nessuno. È una questione di costume e di educazione. Siamo un paese di parvenus. Andare in bicicletta ci sembra una retrocessione a cinquanta-sessanta anni fa, quando non c’era altro mezzo per muoversi da un luogo ad un altro. Nei paesi più evoluti d’Europa ci sono masse di persone che usano la bicicletta, noi no; noi pensiamo di tornare poveri se usiamo un mezzo che si usava nel passato. Che fessi che siamo! La liberazione delle strade dalle auto renderebbe più sicuro il traffico, più pulita l’aria che respiriamo, offrirebbe opportunità di movimento fisico che è salute per il corpo. La ripresa di biciclette e motorette creerebbe posti di lavoro, per biciclettai e meccanici, che una volta riuscivano a vivere da cristiani ed oggi perfino meglio. Se poi le amministrazioni comunali dotassero le vie di marciapiedi sarebbe veramente il massimo. Si moltiplicherebbero i pedoni, che in sicurezza potrebbero andare in farmacia o al fornaio, al fruttivendolo o all’edicola, alla posta o in banca. Mi capita spesso di vedere per strada, anche lontano da dove abita, la figura minuta di un’anziana signora novantenne con la sua borsetta al braccio, che, parite-parite, raggiunge i suoi punti spesa, fa le sue compere e fa ritorno a casa. Il Signore volesse che nessuno mai la importunasse e che vivesse il tempo che merita chi è di buon esempio agli altri.

lunedì 13 maggio 2024

Pagine di storia locale: a Taurisano il '68 iniziò così

Taurisano, 13 maggio 2024. Il 10 maggio scorso è morto a Piedimonte, in provincia di Frosinone, dove viveva da molti anni con la famiglia, Stefanino Botrugno. Aveva 93 anni. Era figlio ta nunna Nina Farretta, che gestiva un’osteria in Piazza Fontana, dove adesso c’è un’oreficeria; ed era più giovane di Pino, il più noto dei fratelli. Aveva un negozio di elettrodomestici nei locali oggi dell’avv. Viva, all’epoca di Filippo Leuzzi, accanto, da una parte, aveva l’autofficina di Tonino Galati e dall’altra il laboratorio di falegnameria di maestro Ernesto Barba. Erano tutti missini. Tonino Galati e Stefanino Botrugno erano consiglieri comunali. Si era alla fine del 1967. Da qualche tempo si avvertiva a Taurisano una sorta di insofferenza politica per due importanti personaggi, che condizionavano la politica del paese: Napoleone Di Seclì, già sindaco dal 1947 al 1956, e Oreste Caroli, sindaco in carica, entrambi democristiani “arrivati”. Ci fu una crisi amministrativa. Una componente della Dc, guidata da Ugo Baglivo, si staccò dal resto del partito, in disaccordo su come sistemare la faccenda Cremonini, l’Agenzia del dazio. Se ne discuteva in ogni sezione di partito. C’era la possibilità che mettendosi tutti insieme (dissidenti democristiani, comunisti, socialisti e missini) facessero cadere l’Amministrazione Caroli. Nel Msi io ero stato segretario della Giovane Italia ed ero dirigente del Fuan leccese, organizzazioni studentesche parallele al Msi, ma avevo qualche influenza per via che a me toccava ogni compito di scrittura, lettere, manifesti ed altro. Io ero contrario e lo dissi. Per me la nuova giunta anticaroliana era una macedonia indigesta, stante l’incompatibilità di stare insieme di comunisti, socialisti e missini. Ma quelli, pur di buttar giù il Caroli, erano disposti a fare di tutto e di più. Fui accusato dal solito maestro Ernesto Barba di essere contrario per la mia amicizia con Mimmo Caroli, figlio dell’avv. Oreste. Maestro Ernesto era il dietrologo della compagnia, quello che sospettava sempre. Per lui non esistevano ragioni politiche, ma sempre motivi personali. Trovandomi a parlare con Stefanino Botrugno a tu per tu, gli esposi il mio punto di vista, che lui già conosceva. E quello candidamente mi rispose: il popolo ha eletto me e Tonino e vuol dire che quello che facciamo noi due è ben fatto. E noi abbiamo deciso di far parte dell’impresa. Bella “lezione” di realpolitik. Poi fecero finta di mettersi d’accordo, i dissidenti democristiani con gli altri del partito. Si fecero anche una bella mangiata in un ristorante di Leuca per la ritrovata concordia, ma in Consiglio comunale venne fuori, con rabbiosa sorpresa del Caroli e dei suoi, la maggioranza macedonia con sindaco Ugo Baglivo. Seguirono scene tragicomiche. La giunta Baglivo s’insediò il 30 gennaio del 1968 e durò fino alle elezioni del 1970.

sabato 11 maggio 2024

Colpevoli? No, sereni

C’è da trasecolare. Un cittadino perbene, rappresentante delle più alte istituzioni e di enti pubblici, viene dall’oggi al domani arrestato con accuse pesantissime, corroborate da intercettazioni inequivocabili, e come se ne esce? Sono sereno, confido nella magistratura. Come se a farlo arrestare non fosse stata la magistratura ma una banda di sequestratori. Ma come si fa? Se un tale è davvero innocente ma viene arrestato, come minimo si dispera, si macera dentro, invoca il Padreterno e tutti i santi del paradiso, minaccia di uccidersi, se gli riesce lo fa. Come può essere sereno? Non si chiede perché? Non cerca di fare un esame del suo passato per vedere se ha commesso qualcosa di illecito, magari non volendo? No, la prima cosa che dice è che lui è sereno. Ormai è un ritornello. Salvo poi ad avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice. Nel corso di Tangentopoli ci furono suicidi. Alcuni eccellenti. Non so se erano colpevoli o innocenti. Bruciava il fatto che se avevano preso soldi lo avevano fatto per il partito e si sentivano fottere che a pagare fossero soltanto loro, mentre altri, non meno colpevoli, continuavano ad essere insospettabili. Il cruccio di Craxi e compagni fu proprio quello. E il senso del suo storico discorso alla Camera sulla correità resta il testo più importante di tutta la vicenda di Tangentopoli. Alcuni si suicidarono perché avevano ancora il senso della vergogna. Io non dico che ogni arrestato per malversazione sia, ipso facto, colpevole, ma non capisco neppure perché si sente sereno. Forse perché ha saputo fare le “cose” così bene da sentirsi in una botte di ferro. Sa che non risulta da nessuna parte che è colpevole. Non ci sono prove. Come se dei ladri avessero rubato senza lasciare impronte digitali perché avevano indossato prima dei guanti di lattice. E i soldi che se li ritrovano sui loro conti come sono arrivati e perché? E che significa: mi devi dare una mano, c’è la campagna elettorale; dobbiamo ritrovarci per festeggiare l’avvenuto favore? Questi, a differenza dei mafiosi, che hanno tutto un loro modo di comunicare e hanno un lessico colorito, chiamano le cose col loro nome, non hanno la fantasia dei ladri del popolo. Ormai si rivendica perfino la tracotanza come forma di resistenza alla giustizia. A Genova come a Bari, in Piemonte come in Campania. Qui l’autonomia differenziata non attacca, qui sono tutti uguali come chiodi. A Genova, al netto di ogni speculazione politica, sono state arrestate figure pubbliche importanti. I loro amici di partito o di coalizione fanno il tifo per loro: tenete duro. Non si può dimettere ogni indagato. Così si ferma il Paese. C’è da non credere. Una posizione del genere significa che coi tempi della giustizia italiana gli arrestati possono fare sonni tranquilli. Chissà quando arriveranno le sentenze! Nel frattempo i “sereni” tornano a fare le cose che hanno sempre fatto; al limite saranno i loro stessi amici politici a farli fuori prima ancora delle sentenze. Il capo della Lega Salvini, che dirige un partito nato contro “Roma ladrona” e contro tutte le ruberie, oggi è contrario a che un indagato si dimetta. E che dire di Gasparri, che viene dal partito di Almirante, anche se trasbordato in Forza Italia, e che oggi è sulla linea di Salvini? Sono diventati tutti garantisti, impiccatori pentiti. Hanno dimenticato di aver agitato il cappio in Parlamento, di aver fatto grandinare monetine sulla testa di un Craxi incredulo e spaventato. E lasciamo stare quelli di Forza Italia, che si dicono garantisti da sempre: nascono dal Serenissimo. Il popolo, chiamato a breve a votare, è sconcertato, non sa più che fare, non sa più a chi rivolgersi, è tentato di non votare. Ma che risolve? Tanto gli eletti, o hanno avuto mille voti o diecimila, sempre eletti sono e continuano a comportarsi allo stesso modo. Si dovrebbe fare una rivoluzione. Ma non si può, non ci sono le condizioni, non c’è la volontà. Le rivoluzioni non si fanno, sorgono quando è il momento. Allora non resta che votare, insistere a votare sempre per le persone che in quel momento ti sembrano più credibili, anche se sai, per esperienze pregresse, che posti nelle condizioni di poter rubare anche questi rubano come tutti gli altri, come sempre. L’appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fatto insieme agli omologhi Frank-Walter Steinmeier (Germania) e Alexander Van der Bellen (Austria), è importante. La democrazia è un sistema politico che si basa sul voto. Disattenderlo è darla vinta a tutti i “sereni”, siano o meno colpevoli.

sabato 4 maggio 2024

Giorgia Meloni oltre le votazioni

Per tutte le cose che sono accadute e che stanno accadendo – dico tutte, ma proprio tutte – il primo governo Meloni deve porsi una scadenza, che è dopo le elezioni, quali che saranno gli esiti, che comunque non potranno essere che di cambiamento dei rapporti di forza all’interno delle coalizioni. La candidatura di Vannacci nella Lega, che è parte fondativa e costitutiva del centrodestra, è uno sgarbo alla Meloni e un insulto a tutto il popolo del centrodestra. O davvero pensa Salvini di sottrarre voti alla sinistra col suo generalone? Se così è vuol dire che i mojiti ancora se li fa, ma di nascosto. Che cosa ha a che fare con la destra un generale dell’esercito, che con la divisa indosso si mette a sparare granate micidiali contro parti del popolo, sia pure minoritarie e culturalmente e politicamente discutibili? Nulla. Anzi è segno che quel generale, che si propone come un’icona, si comporta in maniera sleale e vorrei aggiungere illegale. E chi sa che il senso dell’onore e della lealtà tradizionalmente sta a destra non può non considerarsi offeso e irritato. Salvini, che lo ha voluto, mentre lui si nasconde, in funzione anti alleati, pagherà per questo tradimento. Mai, come in queste elezioni europee, il Paese ha dimostrato tanto cialtronismo. Vecchie erose cariatidi del vecchio establishment, che spiccano per decadenza anche fisica, si stanno presentando alle elezioni per un posto in Europa, dove, a parte la riscossione del lauto stipendio, non faranno un cazzo, quando cazzo ha il significato di nulla. Altri, una volta fieri del proprio nome e cognome, hanno scelto di proporsi con un nome fittizio preceduto da un “detto” che meglio sarebbe dire “cosiddetto”. Tanto per imitare Giorgia Meloni, che meglio avrebbe fatto a proporsi col suo nome e cognome anagrafico. Così abbiamo il “detto generale” per Vannacci, il “detto pavone” per Cecchi Paone, altra colonna portante del cenotafio nazionale degli illustri curiosi. E chissà quanti altri ancora si stanno presentando con “detto” davanti a ipocoristici, diminutivi e appositivi, nel trionfo dell’italica creatività. Altri ancora, i big che si sono candidati, sanno perfettamente che una volta eletti non andranno neppure un giorno a Strasburgo, perché incompatibili sono i tempi di lavoro delle varie assemblee. Tutto questo ed altro fanno vedere la classe politica sempre più staccarsi dai canoni di serietà e di impegno che una volta aveva o forse solo si ipotizzava, ma mai così scaduta come oggi. Ci sono delle straordinarie immagini che da sole dicono chiaramente che questa classe politica è fatta di sbandati, di perdigiorno. Basta vederli nel corso dei telegiornali: a gruppetti avvicinarsi a Montecitorio o a Palazzo Madama mentre danno l’impressione di essere usciti o stanno per entrare in qualche pizzeria. Neppure si preoccupano di apparire più presentabili, meno sciatti e vagabondi. Fateci caso. Dove vanno Lupi e il suo seguito? E quel Magi? Sempre allo stesso modo, sempre sulla stessa piazza, sempre le stesse persone e soprattutto sempre lo stesso bighellonaggio. A cui, a volte, dà un senso l’incontro dell’inviato di “Striscia la notizia”, con una bella presa per il culo finale. Ma intanto sono apparsi e questo conta. Poi c’è la questione seria del Ministro Santanchè. Le accuse, formalizzate e poste alla base del suo rinvio a giudizio, non possono più essere eluse, come se fossero ancora allo stadio di dicerie dei giornali dell’opposizione. Il governo deve liberarsi dei soggetti impresentabili e dannosi, ne va della sua salute, della sua durata, del consenso popolare, che nel nostro Paese ha dimostrato negli ultimi anni di cambiare come per la donna dice l’aria del Rigoletto. Questo non significa dare in pasto all’opposizione un ministro per tacitarla, ma dimostrare di sapersi difendere bene come dalle minacce esterne così da quelle interne. Se Giorgia Meloni vuole davvero durare fino alla scadenza naturale della legislatura deve comportarsi come fa un allenatore di calcio, che, nel corso della partita sostituisce chi in campo batte la fiacca, chi maltratta gli avversari e rischia di essere espulso, chi non risponde più alla tattica di gioco. Da quando è stato varato questo governo ha dovuto sostituire due sottosegretari (Montaruli e Sgarbi), e non è successo niente, anzi la gente ha apprezzato. Qualcuno, che non ha dimostrato di essere all’altezza, al netto delle vocianti opposizioni, può essere benissimo essere sostituito. Ne gioverà il governo, ma anche il Paese. Si ricordi, poi, la Meloni che molti governi incominciano a scricchiolare quando non funzionano i servizi pubblici. Quelli italiani sono allo stremo.