domenica 5 luglio 2015

L'Europa e la Grecia; qualcuno finge di non capire


La crisi greca ha sbattuto in faccia a tutti, italiani compresi, una verità tanto concreta quanto difficile da riconoscere e da accettare: in Europa – nella tanto decantata Unione Europea dei popoli liberi e sovrani – i Paesi membri hanno perso progressivamente la loro sovranità nazionale. Beninteso, essi sono liberi di darsi il governo che vogliono, ma questo o si riconosce nel supergoverno europeo o deve mettersi da parte pena la cacciata del suo Paese dall’Unione attraverso la porta economico-finanziaria. Non è imperialismo nella forma, lo è nella sostanza. Come ogni impero che si rispetti l’Europa non può tollerare che nessuna sua “provincia” abbia politiche contrarie agli interessi generali o, per essere più realistici, agli interessi del paese egemone, nel nostro caso la Germania. Il IV Reich non è solo la battuta di un giornalista brillante (Vittorio Feltri, 2014); è qualcosa di più.
Nell’autunno del 2011 toccò a Berlusconi mettersi da parte perché il suo Paese era travolto da una strana crisi finanziaria, per il tramite di uno spread  artatamente provocato dai mercati, come ormai è stato ben dimostrato (Alan Friedman, 2014). Perché Berlusconi fu preso di mira? Per le sue mattane, che avevano irritato perfino la regina Elisabetta,  e per le sue puttane che avevano irritato i vertici della chiesa cattolica? Diciamo che questo bastava e avanzava per dirgli: amico, così non ci si comporta quando si è a capo del governo di un paese importante come l’Italia. Ma la verità politica è un’altra. La verità è che l’Europa, l’America, la Nato non potevano tollerare un capo di governo occidentale così stretto amico del dittatore libico Gheddafi, con cui faceva buoni affari per il proprio paese, e del quasi dittatore russo Putin, con cui addirittura c’era affinità elettive nel pubblico e nel privato. “Berlusconi deve essere distrutto”, dissero i nuovi Catone europei, ripetendo il mantra anticartaginese “Carthago delenda est” del senatore romano Marco Porcio Catone. E così fu. Vi provvide Napolitano, il saggio comunista convertito alla liberaldemocrazia, che incominciò a manovrare fin dall’estate del 2011 con quel grande commis europeo che è Mario Monti e con altri dello Stato sgheo. Ed è una.
Ci siamo mai data una risposta all’ignobile figuraccia che facemmo nei confronti di Romano Prodi, quando, candidato alla presidenza della repubblica nell’entusiasmo generale di una consistente maggioranza, fu poi dalla stessa miseramente impallinato nella votazione? E quando si fermano a raccontarcelo i grandi pensatori politici italiani, i politologi, gli scienziati della politica, che sull’argomento scivolano come abili pattinatori sul ghiaccio?
Prodi non era accetto all’Europa né all’America né alla Nato dopo le continue e serrate e brillantemente spiegate critiche fatte alla guerra in Libia e alla cacciata di Gheddafi; e non solo a questo. Prodi presidente della repubblica italiana era un rischio che l’Europa non poteva correre. Era necessario che Napolitano, l’abile manovratore pro domo europea, rimanesse al suo posto per garantire la continuità europeistica. E così fece il “grande vecchio”. Rieletto – caso unico nella storia repubblicana del nostro paese – chiamò al governo prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi, entrambi graditi a Bruxelles. Matteo Renzi soprattutto faceva al caso: giovane, chiacchierino, senza un trascorso politico, né democristiano né comunista né partitocratico in senso lato, inefficacemente critico a parole, obbediente nei fatti.   
Il Movimento 5 Stelle non è nel torto quando rivendica, dopo le elezioni politiche del 2013, quel ruolo che Napolitano gli negò, preferendogli il Pd, che vincente con la lista era perdente come partito; per non dire della legge elettorale, il Porcellum, dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Il povero Letta, che tanto ce l’ha con Renzi, dovrebbe prendersela con Napolitano e coi suoi referenti europei. Il suo governo in verità non ebbe né meriti né demeriti, era un espediente e serviva a rendere meno traumatico l’incarico a Matteo Renzi, uno che non era stato neppure eletto parlamentare della repubblica; uno che non aveva neppure un numero di matricola politico pur che fosse. Grillo al governo avrebbe riproposto in Europa lo stesso problema di Berlusconi, un governo cioè disorganico agli interessi europei. Il Movimento 5 Stelle non aveva nascosto i suoi propositi antieuropeistici, gridati tra vaffanculo e minacce di processi sommari in piazza.
Dati questi precedenti, il caso greco del governo Tsipras conferma la politica europea di intolleranza nei confronti di chi non si riconosce negli interessi superiori dell’Unione, ovverossia del paese egemone. Non è un caso che l’anti Grecia non è l’Europa, è la Germania. E ciò indipendentemente dal merito della questione.
Va da sé che la Grecia ha delle responsabilità sue proprie per la crisi che sta vivendo. Egemonia germanica o imperialismo europeo a parte – non che non contino, come si è detto – si capisce che in una qualsiasi società non si può tollerare che un suo associato pretenda di vivere al di sopra delle sue possibilità puntando sul lavoro e il sacrificio degli altri associati. I governi precedenti a Tsipras questo lo avevano capito e avevano iniziato un percorso di riabilitazione delle finanze adottando misure tali da garantire nel volgere di alcuni anni di sacrifici la ripresa e nello stesso tempo onorando i debiti che la Grecia aveva contratto con gli altri membri europei. Le misure di rigore adottate, per certi aspetti proibitive per il popolo greco – questo va riconosciuto! – hanno fatto perdere le elezioni ai governi di centrodestra a vantaggio del partito neocomunista di Tsipras, che ha promesso orgoglio nazionale e allegria sociale. Pensava evidentemente, Tsipras, di avere a che fare con fessi; non avendo capito quello che ormai tutti sanno in Europa, e cioè che la sovranità di ogni paese membro è limitata e condizionata.  

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