La crisi greca ha sbattuto in
faccia a tutti, italiani compresi, una verità tanto concreta quanto difficile
da riconoscere e da accettare: in Europa – nella tanto decantata Unione Europea
dei popoli liberi e sovrani – i Paesi membri hanno perso progressivamente la
loro sovranità nazionale. Beninteso, essi sono liberi di darsi il governo che
vogliono, ma questo o si riconosce nel supergoverno europeo o deve mettersi da
parte pena la cacciata del suo Paese dall’Unione attraverso la porta
economico-finanziaria. Non è imperialismo nella forma, lo è nella sostanza.
Come ogni impero che si rispetti l’Europa non può tollerare che nessuna sua
“provincia” abbia politiche contrarie agli interessi generali o, per essere più
realistici, agli interessi del paese egemone, nel nostro caso la Germania. Il IV Reich non è solo la battuta di un giornalista brillante (Vittorio
Feltri, 2014); è qualcosa di più.
Nell’autunno del 2011 toccò a
Berlusconi mettersi da parte perché il suo Paese era travolto da una strana
crisi finanziaria, per il tramite di uno spread
artatamente provocato dai mercati, come ormai è stato ben dimostrato
(Alan Friedman, 2014). Perché Berlusconi fu preso di mira? Per le sue mattane,
che avevano irritato perfino la regina Elisabetta , e per le sue puttane che avevano irritato i
vertici della chiesa cattolica? Diciamo che questo bastava e avanzava per
dirgli: amico, così non ci si comporta quando si è a capo del governo di un
paese importante come l’Italia. Ma la verità politica è un’altra. La verità è
che l’Europa, l’America, la Nato non potevano tollerare un capo di governo
occidentale così stretto amico del dittatore libico Gheddafi, con cui faceva
buoni affari per il proprio paese, e del quasi dittatore russo Putin, con cui
addirittura c’era affinità elettive nel pubblico e nel privato. “Berlusconi
deve essere distrutto”, dissero i nuovi Catone europei, ripetendo il mantra
anticartaginese “Carthago delenda est” del senatore romano Marco Porcio Catone.
E così fu. Vi provvide Napolitano, il saggio comunista convertito alla
liberaldemocrazia, che incominciò a manovrare fin dall’estate del 2011 con quel
grande commis europeo che è Mario Monti e con altri dello Stato sgheo. Ed è
una.
Ci siamo mai data una risposta
all’ignobile figuraccia che facemmo nei confronti di Romano Prodi, quando,
candidato alla presidenza della repubblica nell’entusiasmo generale di una
consistente maggioranza, fu poi dalla stessa miseramente impallinato nella
votazione? E quando si fermano a raccontarcelo i grandi pensatori politici
italiani, i politologi, gli scienziati della politica, che sull’argomento
scivolano come abili pattinatori sul ghiaccio?
Prodi non era accetto all’Europa
né all’America né alla Nato dopo le continue e serrate e brillantemente
spiegate critiche fatte alla guerra in Libia e alla cacciata di Gheddafi; e non
solo a questo. Prodi presidente della repubblica italiana era un rischio che
l’Europa non poteva correre. Era necessario che Napolitano, l’abile manovratore
pro domo europea, rimanesse al suo
posto per garantire la continuità europeistica. E così fece il “grande vecchio”.
Rieletto – caso unico nella storia repubblicana del nostro paese – chiamò al
governo prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi, entrambi graditi a Bruxelles.
Matteo Renzi soprattutto faceva al caso: giovane, chiacchierino, senza un
trascorso politico, né democristiano né comunista né partitocratico in senso
lato, inefficacemente critico a parole, obbediente nei fatti.
Il Movimento 5 Stelle non è nel
torto quando rivendica, dopo le elezioni politiche del 2013, quel ruolo che
Napolitano gli negò, preferendogli il Pd, che vincente con la lista era
perdente come partito; per non dire della legge elettorale, il Porcellum, dichiarata incostituzionale
dalla Consulta. Il povero Letta, che tanto ce l’ha con Renzi, dovrebbe
prendersela con Napolitano e coi suoi referenti europei. Il suo governo in
verità non ebbe né meriti né demeriti, era un espediente e serviva a rendere
meno traumatico l’incarico a Matteo Renzi, uno che non era stato neppure eletto
parlamentare della repubblica; uno che non aveva neppure un numero di matricola
politico pur che fosse. Grillo al governo avrebbe riproposto in Europa lo
stesso problema di Berlusconi, un governo cioè disorganico agli interessi
europei. Il Movimento 5 Stelle non aveva nascosto i suoi propositi
antieuropeistici, gridati tra vaffanculo e minacce di processi sommari in
piazza.
Dati questi precedenti, il caso
greco del governo Tsipras conferma la politica europea di intolleranza nei
confronti di chi non si riconosce negli interessi superiori dell’Unione,
ovverossia del paese egemone. Non è un caso che l’anti Grecia non è l’Europa, è
la Germania. E
ciò indipendentemente dal merito della questione.
Va da sé che la Grecia ha delle responsabilità sue proprie per la crisi
che sta vivendo. Egemonia germanica o imperialismo europeo a parte – non che
non contino, come si è detto – si capisce che in una qualsiasi società non si
può tollerare che un suo associato pretenda di vivere al di sopra delle sue
possibilità puntando sul lavoro e il sacrificio degli altri associati. I
governi precedenti a Tsipras questo lo avevano capito e avevano iniziato un
percorso di riabilitazione delle finanze adottando misure tali da garantire nel
volgere di alcuni anni di sacrifici la ripresa e nello stesso tempo onorando i
debiti che la Grecia aveva contratto con gli altri membri europei. Le misure di
rigore adottate, per certi aspetti proibitive per il popolo greco – questo va
riconosciuto! – hanno fatto perdere le elezioni ai governi di centrodestra a
vantaggio del partito neocomunista di Tsipras, che ha promesso orgoglio
nazionale e allegria sociale. Pensava evidentemente, Tsipras, di avere a che
fare con fessi; non avendo capito quello che ormai tutti sanno in Europa, e
cioè che la sovranità di ogni paese membro è limitata e condizionata.
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