sabato 13 dicembre 2025

Chi comanda censura

Sono sempre più convinto che i tanti fascisti che c’erano durante il fascismo, in piena dittatura, fossero solo persone che amavano il quieto vivere, la sicurezza, l’ordine, il lavoro, che il regime garantiva con le buone e con le cattive. Metodi, peraltro, che l’autorità non doveva usare con eccessivo impegno e rigore dato che la stragrande maggioranza dei cittadini, in ogni ordine e grado della società, del regime era contenta se non entusiasta. Attacca l’asino dove vuole il padrone, vivi e lascia vivere. C’erano anche gli antifascisti, certo, convinti e militanti, come potevano esserlo in un regime che aveva i mezzi per tenere sotto controllo il Paese. Di essi i più tacevano per prudenza e per convenienza; gli altri, i meno, conoscevano le patrie galere. La gente pensava a farsi i fatti suoi, ben attenta a non farsi coinvolgere. Se qualcuno esprimeva giudizi contro il regime veniva isolato perfino dai parenti. Se impiegato, poteva perdere il posto. A nessuno piaceva rischiare. Essere antifascisti durante il fascismo era come avere una patente di untore. Chi più scansava il reprobo per non compromettersi, anche se gli si riconosceva probità e valore. Gli antifascisti eroici, quelli che sfidavano il regime, dovevano guardarsi da tutti potendo essere denunciati. Si sapeva che dappertutto c’erano spie e informatori. Così il professore antifascista stava attento al bidello, l’impiegato vedeva in ogni usciere un possibile nemico, il medico non si fidava di infermieri e portantini. Questo lo apprendiamo sia dai libri di storia sia dalla narrativa, dai tanti romanzi scritti sia durante che dopo il fascismo, e dai film ambientati negli anni tra le due guerre mondiali. Straordinario il film “Una giornata particolare” con Marcello Mastroianni e Sofia Loren. Gli italiani di oggi sono esattamente quelli di ieri, né più né meno. Fino all’altro ieri fascisti, ieri antifascisti e oggi di nuovo “fascisti”. Mi si consenta la provocazione, dato che essi fascisti non sono se non per capirci. Se così non fosse, mai si sarebbe potuto verificare che il nemico principale, se non l’unico, inserito perfino nella Costituzione, previsto in più leggi dello Stato, ovvero il fascismo o tale considerato, conquistasse democraticamente il potere. I nuovi “fascisti” non hanno avuto bisogno di grandi sforzi, hanno cambiato come si cambia modo di vestirsi ad ogni cambio di stagione. Basta vedere l’affluenza di personaggi di ogni settore della vita pubblica presenti alla festa di Atreju, la kermesse annuale di Fratelli d’Italia. Ovviamente mi riferisco a quelli che agli ex missini si sono accodati successivamente. Come è comprensibile, non tutti gli antifascisti “veri” stanno zitti, alcuni protestano, sottoscrivono, denunciano, si indignano per quello che accade. Alla mostra romana “Più libri più liberi” c’è stata una levata di scudi che ha fatto parlare i giornali per giorni e giorni per la presenza in fiera dell’editore “Passaggio nel bosco” considerato neonazista, che mi pare ancora più grave di fascista. Il risultato di tanto rumore è stato che dall’anno venturo ci saranno dei criteri di ammissione alla fiera, ovvero ci sarà una commissione che deciderà in anticipo quali editori accogliere e quali respingere, la censura in parole povere. La censura in una democrazia? E come? Qui davvero il mondo va alla rovescia, senza nemmeno scomodare Vannacci. “Più libri più liberi” non significa solo quantità, ma anche qualità, diversità. E se si istituisce la censura si limita la categoria dell’arricchimento, si impoverisce la libertà. Bisognerebbe cambiare il titolo “Meno libri meno liberi”, giacché non si può dire “Meno libri più liberi”, è una contraddizione in termini. È un bel guaio, in cui i difensori della democrazia si ritroveranno di qui a un anno. La censura, infatti, è quanto di meno democratico si possa immaginare. Intendiamoci, è stata sempre esercitata durante la Prima Repubblica, anche se con attente coperture, che passavano perché le atmosfere dominanti lo favorivano. Il Msi era regolarmente inquisito da una certa magistratura quando alle elezioni conseguiva qualche piccolo successo, come accadde agli inizi degli anni Settanta, che quasi sempre avveniva a danno della Democrazia cristiana. La differenza tra una dittatura e una democrazia è che la prima se dissenti ti sbatte dentro, la seconda ti sbatte fuori. Non stiamo qui a dire se è meglio l’una o l’altra soluzione, in entrambi i casi c’è sempre qualcuno che viene sbattuto.

domenica 7 dicembre 2025

L'Europa tra Scilla e Cariddi

Chi è Scilla per l’Europa e chi Cariddi, i due mostri marini che giravano sottosopra le navi che passavano dallo Stretto per poi ingoiarsele? Il mito non dice quale dei due fosse più pericoloso e noi, per mettere i piedi per terra, fuor da ogni metafora, diciamo che per il pericolo che sta correndo l’Europa uno vale l’altro: Putin che invade l’Ucraina e minaccia l’Europa, Trump che espone l’Europa a rischi ben maggiori. Il disegno di Putin è chiaro. Lo è da sempre. Vuole ricomporre la Russia degli zar o l’Urss dei comunisti. L’una e l’altra prevedono l’annessione come minimo, oltre che dell’Ucraina, delle repubbliche baltiche, di parte della Polonia e di altri territori confinanti. Quel che dice Putin per rassicurare non vale niente. È uno spergiuro da delinquente politico, che della parola mancata fa una sorta di valore, di cui si gloria. Quel che dice Trump è ancora peggio: l’Europa non è in grado di avere una politica sua, sta rinunciando alla sua civiltà, d’ora in poi se la deve cavare da sola coi mille problemi che ha; gli Usa hanno altro a cui pensare. Questo significa che l’Europa deve attrezzarsi per fare a meno degli Usa e per scoraggiare ulteriori avventure russe ai nostri danni. Questo significa che dobbiamo armarci non tanto per prepararci alla guerra, che deve essere scongiurata, quanto proprio per scongiurarla. I pacifisti italiani, che stanno un po’ dappertutto sono contrari. Tutti papalini sulla pace disarmata e disarmante. Si sentono tutti Leone I che ferma Attila. Il voltafaccia americano è quello che fa più male, perché è giunto da un momento all’altro, all’improvviso. Nessuno alla vigilia dell’elezione di Trump pensava che gli Usa avrebbero recuperato la dottrina del Monroe, l’America agli americani. Un secolo circa di politica e due guerre mondiali, che convincevano di un’unione inseparabile tra Europa e America, sono stati spazzati via con un colpo di spugna. L’Europa rischia di frantumarsi, parte dei paesi affascinata dalle sirene di Putin e parte da quelle di Trump. Finora la situazione è rimasta inalterata, formalmente tiene, anche se amici di Putin e di Trump ci sono in ogni paese europeo e addirittura in ogni schieramento politico. In Italia leghisti e grillini, i primi in centrodestra, i secondi in centrosinistra, continuano ad avere simpatia per Putin anche se la mascherano con la pace, che, a loro dire, sarebbe più concretizzabile avendo Putin per amico. Allo stesso modo cresce in tutta Europa il numero di chi ritiene che in questo momento sia più conveniente avere governi autocratici che democratici old style. In Italia Giorgia Meloni incomincia a faticare per convincere che Trump non vuole rompere con l’Europa. Il pensiero di Trump, più volte esplicitato in questi ultimi tempi, invece non dimostra amicizia per il vecchio continente. Questo, nonostante i cambiamenti ai suoi lati, non dimostra di volersi adeguare ma insiste e persiste a mantenere pigramente la sua vecchia politica, come se nulla fosse cambiato, come se negli Usa ci fosse ancora Reagan e nella Russia ancora Gorbaciov. Facile dire che i soldi invece di spenderli in armi vanno spesi per aumentare i salari, gli stipendi, le pensioni, migliorare la salute e la sicurezza, come fanno i partiti di centrosinistra. Certo, si può vivere anche bene da paesi satelliti di questa o quella potenza straniera, da servi, purché lo si dica apertamente. I grillini sfondano porte aperte quando dicono che è meglio spendere in welfare che in armi; ma poi? Come risponde il nostro Paese ai nuovi imperi? Come risponde l’Europa di cui siamo parte fondante? Chiediamo alla Quarta Roma un trattamento di favore? Chi non vuole che l’Europa si armi per fronteggiare il nemico deve dire anche come la vede debole ed esposta alle prepotenze degli altri. Non si tratta di questioni astratte, ma concrete e brucianti. Quali sarebbero le nostre condizioni di vita in un mondo dominato dalla Russia o dall’America o da entrambe, noi essendo in una posizione subalterna? Finora l’Europa, pur con molti problemi, ha garantito una crescita importante, un tenore di vita per i suoi popoli quale non era stato mai conosciuto prima. Questo non può essere scisso dalla sua capacità di conservare la libertà. In questo momento ci sono paesi dell’Europa minacciati da una potenza straniera che gioca coi popoli come il lupo con l’agnello. È la Russia di Putin. La risposta che dobbiamo dare, forte e credibile, è che non siamo affatto disposti a cedere il bene della libertà e della crescita in cambio di una pace fasulla, che pace non è ma sottomissione e povertà.

sabato 6 dicembre 2025

Taurisano, 8 dicembre 1905: Immacolata di sangue

L’8 dicembre 1905, or sono centoventi anni, è ricordato a Taurisano come l’Immacolata di sangue, per i tragici fatti che si verificarono in quel giorno. La festività, tradizionalmente sentita e rispettata da una popolazione per lo più di contadini e agricoltori, favorì la manifestazione contro il governo, allora presieduto dal giolittiano Alessandro Fortis. Questi, l’8 novembre 1905, aveva concluso con la Spagna il trattato commerciale detto “Modus vivendi”, con cui l’Italia esportava manufatti dell’industria del Nord e importava vini a dazi di favore (40%). Ne usciva penalizzata l’agricoltura del Sud, che già malamente viveva di prodotti agricoli. La solita politica giolittiana di quegli anni, carota al Nord, bastone al Sud, che tanti incidenti provocò in tutto il Mezzogiorno, con decine di morti e feriti. L’8 settembre 1902 a Candela (Foggia) cinque morti e dieci feriti; il 5 agosto 1903 a Cassano Murge (Bari) un morto e quattro feriti; il 18 agosto 1905 a Grammichele (Catania) quattordici morti e sessantotto feriti. Tutte manifestazioni politiche represse dalla forza pubblica, più o meno con le stesse modalità. All’epoca il potere politico a Taurisano se lo contendevano i membri della famiglia ducale Lopez y Royo. Sindaco, in quella circostanza, era Filippo Lopez y Royo di tendenza democratica. Questi aveva fatto approvare dal Consiglio comunale per quel trattato commerciale una dura delibera di condanna nei confronti del governo. Parole che non potevano essere approvate dalle istituzioni governative. Vi si legge: “Il Consiglio considerato che il Modus vivendi commerciale stipulato con la Spagna, nel mentre pregiudica gravemente e solamente gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, dimostra ancora una volta la politica regionalista e partiggiana [sic] imperante nel Regno di sfruttamento delle regioni del Sud a vantaggio delle Provincie Settentrionali, per acclamazione Deplora il provvedimento subdolo e partiggiano [sic] preso dal governo proprio quando più gridava di voler fare i nostri interessi – Delibera di persistere nell’agitazione, e invitare il Deputato del Collegio ad associarsi agli altri rappresentanti del Sud finchè l’improvvido provvedimento non sarà rigettato […]”. La Sottoprefettura di Gallipoli sospese la delibera (2 dicembre) e la Prefettura di Lecce la annullò (4 dicembre). Era quanto bastava per far esplodere la situazione. La mattina dell’8 dicembre, approfittando della festività, si formò un lungo corteo che un banditore, con un tamburo di latta, annunciava per le vie del paese. Giunto nella piazza fu inscenata una simbolica manifestazione, furono sversate per terra delle botti di vino mentre i partecipanti, arrabbiati ed ebbri, gridavano frasi minacciose contro il governo, come erano stati imbeccati dai loro padroni nei giorni precedenti: per colpa del governo, ora che dobbiamo fare col nostro vino, lavarci i piedi? La mattinata, tuttavia, era trascorsa senza incidenti. I militari, arrivati per prevenire disordini, si erano accasermati, parte nel palazzo del Sindaco e parte nel Municipio, che erano attigui. Avevano ricevuto l’ordine di non uscire per evitare provocazioni. Fu inutile, verso sera, secondo le testimonianze, si radunarono nei pressi del Municipio alcune decine di persone che ripresero a vociare contro il governo e i militari. Nella folla che s’ingrossava c’erano dei ragazzi, che si misero a gridare insulti e a buttare pietre contro il portone del Municipio. Fu allora che uscirono dei militari e si misero a sparare all’impazzata ad altezza d’uomo, non sapendo da dove provenisse la sassaiola. Si vedono ancora le scheggiature dei proiettili sui muri delle case di via Roma. La folla spaventata si disperse in pochi minuti per le vie adiacenti, lasciando per terra esanime il contadino Michele Manco e alcuni feriti. Seguì il terremoto politico. Il tragico evento ebbe un’eco nazionale. Ne parlarono tutti i giornali. Il “Secolo Illustrato della Domenica” del 17 dicembre gli dedicò la copertina. Alla Camera ne discussero con toni accesi i principali politici del tempo, specialmente di sinistra, e i deputati del Collegio. La battaglia fu vinta dagli oppositori del “Modus vivendi”, che fu bocciato il 17 dicembre successivo. Lo stesso Fortis si dimise il giorno dopo per riavere l’incarico a fare un nuovo governo il 24; ma il 2 febbraio 1906 dovette dimettersi definitivamente. Anche Giolitti preferì per il momento mettersi da parte e lasciare l’iniziativa ad un governo di destra, presieduto da Sidney Sonnino. Che, a sua volta, durò qualche mese.

sabato 29 novembre 2025

Un voto dopo l'altro

I risultati delle elezioni regionali, in Veneto, Campania e Puglia, hanno confermato quanto le previsioni e i sondaggi dicevano da tempo, hanno offerto la prova di quel che già si sapeva. Questo dovrebbe indurre la classe dirigente a cercare nuove forme di partecipazione popolare, dato che la consultazione elettorale è superata. Le tecniche dei sondaggisti sono tali da rendere “superflue” le vecchie urne, i cosiddetti ludi cartacei. Tuttavia il voto del 23-24 novembre non è stato inutile. Ha confermato, col suo tre a tre, una situazione di parità tra Centrodestra e Centrosinistra + Movimento 5 Stelle. Eppure nel Centrodestra si vive un’aria di sconfitta, mentre nel Centrosinistra si ostenta euforia. I politici interessati, vinti e vincitori, minimizzano ed enfatizzano, secondo costume. Gli uni e gli altri rimandano la partita decisiva al Referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati del giugno 2026, quando è possibile una resa dei conti, in prossimità delle elezioni nazionali del 2027. Il gioco comincia a farsi sempre più duro in una partita a più tempi, al termine della quale sapremo se il Paese resterà nelle mani del Centrodestra o se tornerà in quelle del Centrosinistra per i successivi cinque anni. Il sistema elettorale, a questo punto, è determinante. Il dato, però, che va sottolineato è che gli elettori, dai quali dovrebbero dipendere gli esiti, non vogliono più “eleggere”, si astengono sempre più dal loro compito istituzionale. Nelle ultime elezioni regionali sia il Centrosinistra nel Veneto che il Centrodestra in Campania e Puglia speravano, pur dando per acquisito l’esito, di non perdere in maniera disastrosa, in modo da mettere sul piano della bilancia un recupero consolatorio. Invece i risultati sono andati oltre quel che si temeva: i vincitori hanno doppiato gli sconfitti in tutte e tre le piazze elettorali. È evidente che il voto organizzato, quello di diretta provenienza partitica, regge ancora; mentre il voto d’opinione è sempre più sfuggente. Va detto che nelle elezioni locali, come sono le regionali, conta molto il fattore personale del candidato a discapito del voto d’opinione. Accade quando la fiducia nella persona prevale sull’appartenenza politica. Io sarò pure juventino – per fare un esempio calcistico – ma se mi devo esprimere su due calciatori, quale dei due è di maggior valore, non mi lascio certo distrarre dal tifo e scelgo quello che a me sembra il più bravo, perfino un interista. È importante vedere nei prossimi sondaggi come stanno le cose, in che direzione si stanno muovendo o se invece segnano il passo. Certo è che i tempi stringono e nei quasi due anni della legislatura rimasti è inevitabile pensare alla rendicontazione finale. Il governo Meloni ha fatto tutto e niente. Al momento, dei suoi punti qualificanti ci sono solo cose cominciate: premierato, autonomia differenziata, sicurezza, riforma della giustizia, Ponte sullo Stretto, abbassamento delle tasse. Ma c’è di più e peggio. Se il governo dovesse perdere il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, prova di indubbia valenza politica, può darsi pure che non si dimetterà, come Meloni e alleati assicurano, ma subirebbe la più bruciante e grave delle sconfitte, con conseguenze sul voto del 2027. La Meloni può vantare una indubbia affermazione in campo internazionale, non tanto per il Piano Mattei e per le varie iniziative africane, quanto per la simpatia che il mondo politico mondiale le ha riservato. I conti, inoltre, li tiene in ordine e le agenzie di rating glielo riconoscono. Ma basta a vincere il confronto con gli avversari? L’Italia in campo internazionale conta quello che conta, ossia poco o nulla. Quando si tratta, infatti, di prendere decisioni importanti, che richiedono compromissioni serie, in Europa non si va oltre Francia, Germania e Inghilterra. Ecco allora che il voto regionale di questo 2025 è un campanello d’allarme per le Politiche del 2027. Il Centrodestra potrebbe arrivare scarico all’appuntamento. Molto dipenderà, allora, anche dalla capacità del Centrosinistra di proporsi come una coalizione forte e coesa. Che non è cosa da niente, come potrebbe sembrare. Finora i centrosinistri hanno bersagliato il governo di centrodestra perfino sulle cose più banali, dimostrando solo unità d’intenti; ma, quando gli stessi si guarderanno al loro interno, potrebbero accorgersi di non essere così pronti e compatti come si erano creduti e come avrebbero voluto.

sabato 22 novembre 2025

Educazione sessuale a scuola? Ni

Qualche giorno fa (16.11.2025), sul “Corriere della Sera”, Paolo di Stefano si chiedeva chi sarebbe potuto essere l’educatore affettivo o sentimentale o sessuale a scuola e da quale insegnamento esistente si potesse sottrarre il tempo per la nuova disciplina. E dava un suggerimento: «Chiunque lo faccia, dovrà essere accompagnato da un bravo insegnante di letteratura, di quelli e di quelle che sanno leggere e appassionare». E citava i personaggi immortali creati da Hemingway, Eco, Moravia, Garcia Marquez, Vargas Llosa, fino a Elena Ferrante, autori di storie d’affetto e d’amore esemplari. Probabilmente l’ipotetico insegnante di letteratura, che a scuola peraltro esiste già, è il docente di Italiano, dovrebbe aggiungersi non so a chi altri per rendere più congruo l’insegnamento sessuale, come qualche anno fa funzionava, ma meglio dire non funzionava, la compresenza. E già questo complicherebbe la situazione, di per sé problematica. E perché non utilizzare gli autori curricolari per l’educazione sentimentale? Si pensi ai personaggi danteschi di Paolo e Francesca, ad Angelica dell’Orlando furioso dell’Ariosto, a Erminia della Gerusalemme liberata del Tasso, a Lucia dei Promessi sposi del Manzoni. Basterebbe far capire ai ragazzi, non sarebbe difficile, che Paolo, Francesca, Angelica, Erminia e Lucia sono persone che vivono ancora oggi e vivranno sempre, perché rappresentano l’elemento umano nella sua universalità. Le loro vicende sono oggi e sempre esemplari. Lezioni sui sentimenti umani fanno parte da sempre dell’insegnamento della letteratura. Nessun insegnante di Italiano si limita alla parafrasi del testo, senza l’inevitabile analisi critica e il commento attualizzante. Il suggerimento di Di Stefano era una mezza bocciatura dell’educazione sessuale a scuola, tanto più che nei propositi del legislatore questa novità pedagogica dovrebbe portare all’eliminazione o comunque alla riduzione dei femminicidi, forse il più grave problema del nostro tempo. Ci permettiamo di dire che l’educazione sessuale a scuola nulla ha a che fare col gravissimo crimine del femminicidio. Chi uccide la propria compagna o la propria fidanzata sa benissimo di commettere un crimine, ma nel momento in cui lo fa è fuori di sé, ovvero fuori dell’educazione maturata. Il femminicidio in quanto tale è sempre esistito ma in passato non era rubricabile nel suo specifico perché si trattava di casi sporadici. Oggi che il caso è un fenomeno bisogna cercare le cause col coraggio di guardare la realtà per quella che è, senza ideologie fuorvianti. Esso si lega all’emancipazione delle donne, frutto di lotte politiche e sociali a partire dall’Ottocento. Un processo lungo, lento e accidentato, giunto fino ai giorni nostri. Al centro di questo processo vi è la libertà della donna, che si realizza in molteplicità di situazioni, in alcuni casi confliggendo con altri beni. Se questi altri beni, come la famiglia e i figli, non sono riconosciuti, allora è perfino parlarne. L’uomo che uccide la propria donna, nel momento in cui lo fa, è talmente esasperato che non vede altra soluzione alla crisi in cui a torto o a ragione si trova. Basterebbe aprirgli una porta, dargli una soluzione che non fosse la fine di tutto per evitare l’irreparabile. Una porta che apparisse non la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di diverso. È sbagliato pensare che l’uomo, per essere un uomo, abbia torto o debba cedere in partenza. Ma altrettanto sbagliato è fargli credere che se uccide se la può cavare con qualche anno di carcere, come a volte accade. C’è poi a scuola una questione di tempo per l’educazione sessuale. Per trovarlo bisognerebbe necessariamente sottrarlo ad altre discipline. Ma, a quali? Oggi la scuola, fra assemblee di classe e di istituto, giornate particolari da celebrare e immancabili scioperi e manifestazioni, non ha più il tempo di una volta per lo svolgimento del programma, che è parte centrale della programmazione approvata agli inizi dell’anno. Senza contare il fatto, molto spesso è accaduto – per esempio con l’educazione stradale – che, nonostante l’insegnamento ricevuto a scuola, i ragazzi, nei loro comportamenti extrascolastici, dimostrano incuranza quando non addirittura maleducazione. Un’ultima osservazione. In Parlamento è scoppiata la bagarre quando il Ministro Valditara ha aperto alla possibilità che le famiglie siano libere di far frequentare o meno ai figli le lezioni sull’educazione sessuale. Le sinistre si sono puntigliosamente opposte, dimostrando di non avere fiducia nelle famiglie. Le quali, per vivere in un Paese libero e democratico, chiedono a ragione di occuparsi da sé dell’educazione sessuale dei propri figli e figlie.

giovedì 20 novembre 2025

Caso Garofani. A pensar male...

Il consigliere alla difesa della Presidenza della Repubblica Francesco Saverio Garofani, già parlamentare Pd per diverse legislature, si è abbandonato, nel corso di una conversazione conviviale in un locale pubblico, ad esprimere giudizi negativi sul governo Meloni e a sperare in uno scossone che la facesse cadere alle Politiche del 2027, circostanziandolo pure. Una grande lista civica nazionale, un listone, guidata dall’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini. A svelarlo è stato un articolo apparso il 18 novembre su “La Verità” di Maurizio Belpietro, il quale pubblicava le parole del consigliere Garofani e ipotizzava che dietro quelle parole ci fosse il Presidente della Repubblica. Di fronte al gravissimo episodio, il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, ha chiesto al Quirinale che smentisse le parole del suo incauto consigliere. Ma, come nella battaglia di Maclodio, “s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”, così da sinistra sospettano che dietro le parole di Bignami ci sia la Meloni. Questi i fatti in successione. In un mondo politico normale, in seguito al su citato articolo, il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto chiamare il suo Consigliere e chiedergli ragione delle sue gravi esternazioni ed eventualmente “licenziarlo” su due piedi ove quello avesse ammesso di aver detto le frasi attribuitegli, come poi ha fatto. Invece il Presidente Mattarella ha rassicurato il suo Consigliere – lo ha detto questi – e sull’articolo de “La Verità”, ha espresso in un comunicato: «stupore per la dichiarazione del capogruppo alla Camera del partito di maggioranza relativa che sembra dar credito a un ennesimo attacco alla Presidenza della Repubblica, costruito sconfinando nel ridicolo». Ora in Italia siamo cani scottati e perciò temiamo l’acqua calda, come dice un noto proverbio. Abbiamo avuto i precedenti di Scalfaro e di Napolitano contro Berlusconi. Non c’è due senza tre. A pensarla male – diceva Andreotti – si fa peccato ma il più delle volte si indovina. Ora, per cercare di evitare uno scontro istituzionale, che sarebbe gravissimo, tutti gli attori dell’ennesima commedia all’italiana si sono messi a minimizzare e a giustificarsi col “volevo dire”. Ognuno voleva dire quello che non ha detto, dicendo altro. Ma sono tutti così scarsi in Italia nella comunicazione? Gli sprovveduti non erano solo quelli di destra? Così ha fatto lo sprovveduto Garofani: «Le mie erano soltanto chiacchiere tra amici». Così il puntiglioso Bignardi: «non mi riferivo al Presidente della Repubblica ma al suo consigliere». Non così, però, Maurizio Belpietro, il quale ha ribadito la giustezza della sua posizione e ha concluso che «è ridicolo chi silenzia». Gli altri, tutti ad avere massima fiducia nel Capo dello Stato. L’incontro tra il Presidente della Repubblica Mattarella e il Presidente del Consiglio Meloni, tenuto il 19 novembre al Quirinale, sembra aver chiarito, al di là di ciò che ognuno voleva dire, che tra le due massime istituzioni c’è intesa. Se è pace o soltanto tregua lo vedremo nei prossimi mesi. Certo è che un consigliere del Presidente della Repubblica non può chiacchierare con gli amici su questioni così delicate e importanti. Garofani deve rispondere di quanto ha detto. Si può discutere sull’entità della giusta punizione, ma la questione non può finire con un nulla di fatto. Torniamo all’incidente. Delle due l’una: o le parole indiziate sono scappate involontariamente o sono state dette di proposito. Per trarre quale “utile” nel secondo caso? Complotti a parte, fatto sta che oggi gli italiani sanno da che parte sta il Quirinale, se mai ci fosse stato bisogno di un’ulteriore conferma. Non è cosa da niente. È un incoraggiamento a tutte le opposizioni e all’elettorato antimeloniano a confidare nella prossima battaglia elettorale. È una squilla, una mobilitazione generale. Essa non cade a sproposito, stante la vigilia delle elezioni in tre importanti regioni italiane, il Veneto, la Puglia e la Campania. Proprio dai risultati che usciranno da quelle urne si possono trarre gli auspici per il non lontanissimo referendum sulla riforma della magistratura, che può determinare a sua volta e nell’immediato un principio di sconquasso in vista delle Politiche del 2027. Ecco perché l’uscita apparentemente sconsiderata di Garofani, l’attacco al Presidente della Repubblica di Belpietro e l’intervento di Bignami sono da intendersi giocate di una partita già iniziata. Il tressette italiano è arrivato alle ultime carte, quando tutti sanno che cosa ha ciascuno in mano.

sabato 15 novembre 2025

Ricchi, poveri e il mantello di San Martino

La Legge di Bilancio 2026, di cui si dibatte in questi giorni, ha creato un confronto di idee e proposte non solo tra governo e opposizioni ma anche all’interno del governo stesso. Le esigue risorse disponibili, che rendono estremamente povera la Finanziaria di quest’anno, manovra di 18 mld di Euro, hanno fatto gridare ad un certo punto le opposizioni, le quali hanno invocato una patrimoniale per i redditi più alti e altissimi e hanno accusato il governo di aver favorito i ceti più abbienti. Infelice la risposta di vari esponenti della maggioranza governativa, che hanno ammesso di aver favorito i ceti medi, ma che non può considerarsi ricco uno che ha un reddito di due-tre mila euro al mese. Come si saranno sentiti i circa sei milioni di poveri assoluti che stanno in Italia, lascio immaginare. Io credo che perfino per un terzo di quel reddito sarebbero disposti a farsi a piedi per intero la via francigena, andata e ritorno. Obiettivamente la situazione finanziaria italiana è preoccupante. Gli extraprofitti delle banche e una patrimoniale avrebbero potuto rimpinguare le casse dello Stato e consentire una più equa spartizione delle risorse. Ma il governo non solo non ha fatto ricorso a simili strumenti, lo ha fatto solo in parte per gli extraprofitti bancari, ma si è perfino vantato di non aver fatto ricorso alla patrimoniale. Tajani, capo della componente moderata della coalizione governativa, se n’è perfino gloriato: mai patrimoniale finché ci siamo noi al governo. In sostanza anche i partner governativi, FdI e Lega, si sono detti d’accordo, contravvenendo a loro precedenti posizioni. Soprattutto FdI, erede del Msi, la cosiddetta destra sociale, avrebbe dovuto pensarla diversamente. Non è stato detto sempre da quelle parti che la proprietà deve avere una funzione sociale? Che essa deve andare in soccorso dei ceti in difficoltà? Che la destra economica deve concedere qualcosa ai ceti meno abbienti? Non era mai successo prima che importanti esponenti del governo dichiarassero apertamente di aver favorito una classe piuttosto che un’altra, ma sempre si era cercato di avvalorare una politica di equa distribuzione della ricchezza, se non altro a parole. Si ha il sospetto che in Italia ci si stia convincendo che a votare vadano solo i benestanti, le categorie che possono considerarsi abbienti al punto da ricevere al momento giusto la “riconoscenza” dal governo. E che, viceversa, i poveri e i bisognosi si sono talmente scoraggiati da preferire di starsene a casa anziché andare a votare, mettendosi da soli fuorigioco. Una finanziaria insomma pensata per il cinquanta per cento della popolazione, quella che vota. Anche la Lega ha perso, strada facendo, la sua vocazione popolare, finendo per essere né carne né pesce. Il ministro leghista Giorgetti ha dimostrato di essere un buon ministro, ma solo tecnicamente, bravo a far quadrare i conti, che altri avrebbero fatto. Se così stanno le cose, basterebbe che gli attuali diseredati, che da qualche tempo non votano, riconoscessero in una parte politica chi li può veramente rappresentare e li votassero e alle prossime elezioni se ne vedrebbero delle belle. Io credo che l’astensione dal voto sia stata finora sottovalutata. Divaricare il Paese tra quelli che votano e quelli che non votano, per giungere a considerare i primi in maggioranza di centrodestra e i secondi in maggioranza di centrosinistra, e perciò i primi da privilegiare e i secondi da trascurare, è un errore, che può avere in futuro ricadute elettorali importanti. Non a caso da anni si denuncia l’astensione crescente dal voto degli elettori italiani, senza tuttavia studiare il caso per prendere gli adeguati provvedimenti. Vedremo alle prossime regionali, il 23-24 novembre, quale sarà la risposta dell’elettorato. Si voterà in tre regioni importanti anche dal punto di vista demografico, Veneto, Campania e Puglia. Gli esiti potrebbero dare elementi di valutazione significativi. Per intanto sarebbe bastato pensare ad una ricorrenza di questi giorni, che in Italia, pur senza essere festività nazionale, ha la sua importanza popolare, la festa di San Martino, per trarre auspici. Martino di Tours, cavaliere imperiale, incontrò sulla sua strada un mendicante e non avendo altro da dargli si tolse il mantello dalle spalle e con la spada lo divise in due dandogliene metà. Si può obiettare dicendo che per l’eccezionalità del gesto fu fatto santo. Oggi, invece, viviamo in un mondo in cui i cavalieri imperiali potrebbero pure fermarsi davanti al mendicante ma solo per vedere meglio se fosse in possesso di qualcos’altro da sottrargli.