sabato 29 novembre 2025

Un voto dopo l'altro

I risultati delle elezioni regionali, in Veneto, Campania e Puglia, hanno confermato quanto le previsioni e i sondaggi dicevano da tempo, hanno offerto la prova di quel che già si sapeva. Questo dovrebbe indurre la classe dirigente a cercare nuove forme di partecipazione popolare, dato che la consultazione elettorale è superata. Le tecniche dei sondaggisti sono tali da rendere “superflue” le vecchie urne, i cosiddetti ludi cartacei. Tuttavia il voto del 23-24 novembre non è stato inutile. Ha confermato, col suo tre a tre, una situazione di parità tra Centrodestra e Centrosinistra + Movimento 5 Stelle. Eppure nel Centrodestra si vive un’aria di sconfitta, mentre nel Centrosinistra si ostenta euforia. I politici interessati, vinti e vincitori, minimizzano ed enfatizzano, secondo costume. Gli uni e gli altri rimandano la partita decisiva al Referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati del giugno 2026, quando è possibile una resa dei conti, in prossimità delle elezioni nazionali del 2027. Il gioco comincia a farsi sempre più duro in una partita a più tempi, al termine della quale sapremo se il Paese resterà nelle mani del Centrodestra o se tornerà in quelle del Centrosinistra per i successivi cinque anni. Il sistema elettorale, a questo punto, è determinante. Il dato, però, che va sottolineato è che gli elettori, dai quali dovrebbero dipendere gli esiti, non vogliono più “eleggere”, si astengono sempre più dal loro compito istituzionale. Nelle ultime elezioni regionali sia il Centrosinistra nel Veneto che il Centrodestra in Campania e Puglia speravano, pur dando per acquisito l’esito, di non perdere in maniera disastrosa, in modo da mettere sul piano della bilancia un recupero consolatorio. Invece i risultati sono andati oltre quel che si temeva: i vincitori hanno doppiato gli sconfitti in tutte e tre le piazze elettorali. È evidente che il voto organizzato, quello di diretta provenienza partitica, regge ancora; mentre il voto d’opinione è sempre più sfuggente. Va detto che nelle elezioni locali, come sono le regionali, conta molto il fattore personale del candidato a discapito del voto d’opinione. Accade quando la fiducia nella persona prevale sull’appartenenza politica. Io sarò pure juventino – per fare un esempio calcistico – ma se mi devo esprimere su due calciatori, quale dei due è di maggior valore, non mi lascio certo distrarre dal tifo e scelgo quello che a me sembra il più bravo, perfino un interista. È importante vedere nei prossimi sondaggi come stanno le cose, in che direzione si stanno muovendo o se invece segnano il passo. Certo è che i tempi stringono e nei quasi due anni della legislatura rimasti è inevitabile pensare alla rendicontazione finale. Il governo Meloni ha fatto tutto e niente. Al momento, dei suoi punti qualificanti ci sono solo cose cominciate: premierato, autonomia differenziata, sicurezza, riforma della giustizia, Ponte sullo Stretto, abbassamento delle tasse. Ma c’è di più e peggio. Se il governo dovesse perdere il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, prova di indubbia valenza politica, può darsi pure che non si dimetterà, come Meloni e alleati assicurano, ma subirebbe la più bruciante e grave delle sconfitte, con conseguenze sul voto del 2027. La Meloni può vantare una indubbia affermazione in campo internazionale, non tanto per il Piano Mattei e per le varie iniziative africane, quanto per la simpatia che il mondo politico mondiale le ha riservato. I conti, inoltre, li tiene in ordine e le agenzie di rating glielo riconoscono. Ma basta a vincere il confronto con gli avversari? L’Italia in campo internazionale conta quello che conta, ossia poco o nulla. Quando si tratta, infatti, di prendere decisioni importanti, che richiedono compromissioni serie, in Europa non si va oltre Francia, Germania e Inghilterra. Ecco allora che il voto regionale di questo 2025 è un campanello d’allarme per le Politiche del 2027. Il Centrodestra potrebbe arrivare scarico all’appuntamento. Molto dipenderà, allora, anche dalla capacità del Centrosinistra di proporsi come una coalizione forte e coesa. Che non è cosa da niente, come potrebbe sembrare. Finora i centrosinistri hanno bersagliato il governo di centrodestra perfino sulle cose più banali, dimostrando solo unità d’intenti; ma, quando gli stessi si guarderanno al loro interno, potrebbero accorgersi di non essere così pronti e compatti come si erano creduti e come avrebbero voluto.

sabato 22 novembre 2025

Educazione sessuale a scuola? Ni

Qualche giorno fa (16.11.2025), sul “Corriere della Sera”, Paolo di Stefano si chiedeva chi sarebbe potuto essere l’educatore affettivo o sentimentale o sessuale a scuola e da quale insegnamento esistente si potesse sottrarre il tempo per la nuova disciplina. E dava un suggerimento: «Chiunque lo faccia, dovrà essere accompagnato da un bravo insegnante di letteratura, di quelli e di quelle che sanno leggere e appassionare». E citava i personaggi immortali creati da Hemingway, Eco, Moravia, Garcia Marquez, Vargas Llosa, fino a Elena Ferrante, autori di storie d’affetto e d’amore esemplari. Probabilmente l’ipotetico insegnante di letteratura, che a scuola peraltro esiste già, è il docente di Italiano, dovrebbe aggiungersi non so a chi altri per rendere più congruo l’insegnamento sessuale, come qualche anno fa funzionava, ma meglio dire non funzionava, la compresenza. E già questo complicherebbe la situazione, di per sé problematica. E perché non utilizzare gli autori curricolari per l’educazione sentimentale? Si pensi ai personaggi danteschi di Paolo e Francesca, ad Angelica dell’Orlando furioso dell’Ariosto, a Erminia della Gerusalemme liberata del Tasso, a Lucia dei Promessi sposi del Manzoni. Basterebbe far capire ai ragazzi, non sarebbe difficile, che Paolo, Francesca, Angelica, Erminia e Lucia sono persone che vivono ancora oggi e vivranno sempre, perché rappresentano l’elemento umano nella sua universalità. Le loro vicende sono oggi e sempre esemplari. Lezioni sui sentimenti umani fanno parte da sempre dell’insegnamento della letteratura. Nessun insegnante di Italiano si limita alla parafrasi del testo, senza l’inevitabile analisi critica e il commento attualizzante. Il suggerimento di Di Stefano era una mezza bocciatura dell’educazione sessuale a scuola, tanto più che nei propositi del legislatore questa novità pedagogica dovrebbe portare all’eliminazione o comunque alla riduzione dei femminicidi, forse il più grave problema del nostro tempo. Ci permettiamo di dire che l’educazione sessuale a scuola nulla ha a che fare col gravissimo crimine del femminicidio. Chi uccide la propria compagna o la propria fidanzata sa benissimo di commettere un crimine, ma nel momento in cui lo fa è fuori di sé, ovvero fuori dell’educazione maturata. Il femminicidio in quanto tale è sempre esistito ma in passato non era rubricabile nel suo specifico perché si trattava di casi sporadici. Oggi che il caso è un fenomeno bisogna cercare le cause col coraggio di guardare la realtà per quella che è, senza ideologie fuorvianti. Esso si lega all’emancipazione delle donne, frutto di lotte politiche e sociali a partire dall’Ottocento. Un processo lungo, lento e accidentato, giunto fino ai giorni nostri. Al centro di questo processo vi è la libertà della donna, che si realizza in molteplicità di situazioni, in alcuni casi confliggendo con altri beni. Se questi altri beni, come la famiglia e i figli, non sono riconosciuti, allora è perfino parlarne. L’uomo che uccide la propria donna, nel momento in cui lo fa, è talmente esasperato che non vede altra soluzione alla crisi in cui a torto o a ragione si trova. Basterebbe aprirgli una porta, dargli una soluzione che non fosse la fine di tutto per evitare l’irreparabile. Una porta che apparisse non la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di diverso. È sbagliato pensare che l’uomo, per essere un uomo, abbia torto o debba cedere in partenza. Ma altrettanto sbagliato è fargli credere che se uccide se la può cavare con qualche anno di carcere, come a volte accade. C’è poi a scuola una questione di tempo per l’educazione sessuale. Per trovarlo bisognerebbe necessariamente sottrarlo ad altre discipline. Ma, a quali? Oggi la scuola, fra assemblee di classe e di istituto, giornate particolari da celebrare e immancabili scioperi e manifestazioni, non ha più il tempo di una volta per lo svolgimento del programma, che è parte centrale della programmazione approvata agli inizi dell’anno. Senza contare il fatto, molto spesso è accaduto – per esempio con l’educazione stradale – che, nonostante l’insegnamento ricevuto a scuola, i ragazzi, nei loro comportamenti extrascolastici, dimostrano incuranza quando non addirittura maleducazione. Un’ultima osservazione. In Parlamento è scoppiata la bagarre quando il Ministro Valditara ha aperto alla possibilità che le famiglie siano libere di far frequentare o meno ai figli le lezioni sull’educazione sessuale. Le sinistre si sono puntigliosamente opposte, dimostrando di non avere fiducia nelle famiglie. Le quali, per vivere in un Paese libero e democratico, chiedono a ragione di occuparsi da sé dell’educazione sessuale dei propri figli e figlie.

giovedì 20 novembre 2025

Caso Garofani. A pensar male...

Il consigliere alla difesa della Presidenza della Repubblica Francesco Saverio Garofani, già parlamentare Pd per diverse legislature, si è abbandonato, nel corso di una conversazione conviviale in un locale pubblico, ad esprimere giudizi negativi sul governo Meloni e a sperare in uno scossone che la facesse cadere alle Politiche del 2027, circostanziandolo pure. Una grande lista civica nazionale, un listone, guidata dall’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini. A svelarlo è stato un articolo apparso il 18 novembre su “La Verità” di Maurizio Belpietro, il quale pubblicava le parole del consigliere Garofani e ipotizzava che dietro quelle parole ci fosse il Presidente della Repubblica. Di fronte al gravissimo episodio, il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, ha chiesto al Quirinale che smentisse le parole del suo incauto consigliere. Ma, come nella battaglia di Maclodio, “s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”, così da sinistra sospettano che dietro le parole di Bignami ci sia la Meloni. Questi i fatti in successione. In un mondo politico normale, in seguito al su citato articolo, il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto chiamare il suo Consigliere e chiedergli ragione delle sue gravi esternazioni ed eventualmente “licenziarlo” su due piedi ove quello avesse ammesso di aver detto le frasi attribuitegli, come poi ha fatto. Invece il Presidente Mattarella ha rassicurato il suo Consigliere – lo ha detto questi – e sull’articolo de “La Verità”, ha espresso in un comunicato: «stupore per la dichiarazione del capogruppo alla Camera del partito di maggioranza relativa che sembra dar credito a un ennesimo attacco alla Presidenza della Repubblica, costruito sconfinando nel ridicolo». Ora in Italia siamo cani scottati e perciò temiamo l’acqua calda, come dice un noto proverbio. Abbiamo avuto i precedenti di Scalfaro e di Napolitano contro Berlusconi. Non c’è due senza tre. A pensarla male – diceva Andreotti – si fa peccato ma il più delle volte si indovina. Ora, per cercare di evitare uno scontro istituzionale, che sarebbe gravissimo, tutti gli attori dell’ennesima commedia all’italiana si sono messi a minimizzare e a giustificarsi col “volevo dire”. Ognuno voleva dire quello che non ha detto, dicendo altro. Ma sono tutti così scarsi in Italia nella comunicazione? Gli sprovveduti non erano solo quelli di destra? Così ha fatto lo sprovveduto Garofani: «Le mie erano soltanto chiacchiere tra amici». Così il puntiglioso Bignardi: «non mi riferivo al Presidente della Repubblica ma al suo consigliere». Non così, però, Maurizio Belpietro, il quale ha ribadito la giustezza della sua posizione e ha concluso che «è ridicolo chi silenzia». Gli altri, tutti ad avere massima fiducia nel Capo dello Stato. L’incontro tra il Presidente della Repubblica Mattarella e il Presidente del Consiglio Meloni, tenuto il 19 novembre al Quirinale, sembra aver chiarito, al di là di ciò che ognuno voleva dire, che tra le due massime istituzioni c’è intesa. Se è pace o soltanto tregua lo vedremo nei prossimi mesi. Certo è che un consigliere del Presidente della Repubblica non può chiacchierare con gli amici su questioni così delicate e importanti. Garofani deve rispondere di quanto ha detto. Si può discutere sull’entità della giusta punizione, ma la questione non può finire con un nulla di fatto. Torniamo all’incidente. Delle due l’una: o le parole indiziate sono scappate involontariamente o sono state dette di proposito. Per trarre quale “utile” nel secondo caso? Complotti a parte, fatto sta che oggi gli italiani sanno da che parte sta il Quirinale, se mai ci fosse stato bisogno di un’ulteriore conferma. Non è cosa da niente. È un incoraggiamento a tutte le opposizioni e all’elettorato antimeloniano a confidare nella prossima battaglia elettorale. È una squilla, una mobilitazione generale. Essa non cade a sproposito, stante la vigilia delle elezioni in tre importanti regioni italiane, il Veneto, la Puglia e la Campania. Proprio dai risultati che usciranno da quelle urne si possono trarre gli auspici per il non lontanissimo referendum sulla riforma della magistratura, che può determinare a sua volta e nell’immediato un principio di sconquasso in vista delle Politiche del 2027. Ecco perché l’uscita apparentemente sconsiderata di Garofani, l’attacco al Presidente della Repubblica di Belpietro e l’intervento di Bignami sono da intendersi giocate di una partita già iniziata. Il tressette italiano è arrivato alle ultime carte, quando tutti sanno che cosa ha ciascuno in mano.

sabato 15 novembre 2025

Ricchi, poveri e il mantello di San Martino

La Legge di Bilancio 2026, di cui si dibatte in questi giorni, ha creato un confronto di idee e proposte non solo tra governo e opposizioni ma anche all’interno del governo stesso. Le esigue risorse disponibili, che rendono estremamente povera la Finanziaria di quest’anno, manovra di 18 mld di Euro, hanno fatto gridare ad un certo punto le opposizioni, le quali hanno invocato una patrimoniale per i redditi più alti e altissimi e hanno accusato il governo di aver favorito i ceti più abbienti. Infelice la risposta di vari esponenti della maggioranza governativa, che hanno ammesso di aver favorito i ceti medi, ma che non può considerarsi ricco uno che ha un reddito di due-tre mila euro al mese. Come si saranno sentiti i circa sei milioni di poveri assoluti che stanno in Italia, lascio immaginare. Io credo che perfino per un terzo di quel reddito sarebbero disposti a farsi a piedi per intero la via francigena, andata e ritorno. Obiettivamente la situazione finanziaria italiana è preoccupante. Gli extraprofitti delle banche e una patrimoniale avrebbero potuto rimpinguare le casse dello Stato e consentire una più equa spartizione delle risorse. Ma il governo non solo non ha fatto ricorso a simili strumenti, lo ha fatto solo in parte per gli extraprofitti bancari, ma si è perfino vantato di non aver fatto ricorso alla patrimoniale. Tajani, capo della componente moderata della coalizione governativa, se n’è perfino gloriato: mai patrimoniale finché ci siamo noi al governo. In sostanza anche i partner governativi, FdI e Lega, si sono detti d’accordo, contravvenendo a loro precedenti posizioni. Soprattutto FdI, erede del Msi, la cosiddetta destra sociale, avrebbe dovuto pensarla diversamente. Non è stato detto sempre da quelle parti che la proprietà deve avere una funzione sociale? Che essa deve andare in soccorso dei ceti in difficoltà? Che la destra economica deve concedere qualcosa ai ceti meno abbienti? Non era mai successo prima che importanti esponenti del governo dichiarassero apertamente di aver favorito una classe piuttosto che un’altra, ma sempre si era cercato di avvalorare una politica di equa distribuzione della ricchezza, se non altro a parole. Si ha il sospetto che in Italia ci si stia convincendo che a votare vadano solo i benestanti, le categorie che possono considerarsi abbienti al punto da ricevere al momento giusto la “riconoscenza” dal governo. E che, viceversa, i poveri e i bisognosi si sono talmente scoraggiati da preferire di starsene a casa anziché andare a votare, mettendosi da soli fuorigioco. Una finanziaria insomma pensata per il cinquanta per cento della popolazione, quella che vota. Anche la Lega ha perso, strada facendo, la sua vocazione popolare, finendo per essere né carne né pesce. Il ministro leghista Giorgetti ha dimostrato di essere un buon ministro, ma solo tecnicamente, bravo a far quadrare i conti, che altri avrebbero fatto. Se così stanno le cose, basterebbe che gli attuali diseredati, che da qualche tempo non votano, riconoscessero in una parte politica chi li può veramente rappresentare e li votassero e alle prossime elezioni se ne vedrebbero delle belle. Io credo che l’astensione dal voto sia stata finora sottovalutata. Divaricare il Paese tra quelli che votano e quelli che non votano, per giungere a considerare i primi in maggioranza di centrodestra e i secondi in maggioranza di centrosinistra, e perciò i primi da privilegiare e i secondi da trascurare, è un errore, che può avere in futuro ricadute elettorali importanti. Non a caso da anni si denuncia l’astensione crescente dal voto degli elettori italiani, senza tuttavia studiare il caso per prendere gli adeguati provvedimenti. Vedremo alle prossime regionali, il 23-24 novembre, quale sarà la risposta dell’elettorato. Si voterà in tre regioni importanti anche dal punto di vista demografico, Veneto, Campania e Puglia. Gli esiti potrebbero dare elementi di valutazione significativi. Per intanto sarebbe bastato pensare ad una ricorrenza di questi giorni, che in Italia, pur senza essere festività nazionale, ha la sua importanza popolare, la festa di San Martino, per trarre auspici. Martino di Tours, cavaliere imperiale, incontrò sulla sua strada un mendicante e non avendo altro da dargli si tolse il mantello dalle spalle e con la spada lo divise in due dandogliene metà. Si può obiettare dicendo che per l’eccezionalità del gesto fu fatto santo. Oggi, invece, viviamo in un mondo in cui i cavalieri imperiali potrebbero pure fermarsi davanti al mendicante ma solo per vedere meglio se fosse in possesso di qualcos’altro da sottrargli.

sabato 8 novembre 2025

Inneggiare al fascismo è solo un dispetto da ragazzi

L’on. Guido Crosetto, Ministro della Difesa nel governo Meloni, è tra le personalità più stimabili e rispettabili. Conferisce alla formazione governativa non solo competenza tecnica, ma anche credibilità politica e compostezza formale. Sicché, quando alcuni giorni fa è esploso in un anatema contro alcuni ragazzi di Gioventù Nazionale, l’organizzazione giovanile di FdI, rei di aver cantato inni fascisti in ricorrenza della Marcia su Roma, mi sono meravigliato per l’esagerazione. Vanno presi a calci – ha detto arrabbiatissimo – vanno cioè espulsi, allontanati dal partito perché certe manifestazioni di nostalgia fascista non sono più tollerabili. A mio avviso il Ministro è stato ingeneroso nei confronti di quei giovani. Se per una ragazzata tiri fuori i calci, non rendi un buon servigio al tuo partito, che di linfa giovanile ha bisogno. Non mi sembra che le sezioni politiche pullulino di giovani che vogliono interessarsi di politica. Laddove ci sono, sono preziosi, anche quando esagerano, che è tipico della loro età. Un proverbio salentino dice “carne ca crisce ci no ùjica bberminisce” (la gioventù se non ribolle imputridisce). Semmai, allora, i giovani vanno educati alla moderazione e alla cultura, non presi a calci, nella consapevolezza che i giovani non possono comportarsi come gli anziani e che i giovani di FdI sono diversi da quelli dell’ex Democrazia cristiana, partito a cui apparteneva Crosetto. I giovani, pur con le loro stravaganze, sono il futuro di ogni partito, di ogni impresa, della Nazione. Senza di loro, il conteggio si può fare solo alla rovescia. Ha dimostrato Crosetto di essere prono agli avversari di sinistra, autentici campioni nella guerra delle parole. Essi, infatti, hanno criminalizzato ogni riferimento al fascismo, che si tratti di studio approfondito o di innocente ragazzata poco conta; e fanno dell’ironia persino sulle “cose buone” che fece il fascismo. Cose che, ad ottant’anni dalla sua fine, tutti possono vedere ancora ad occhio nudo andando a spasso nelle città italiane. Per dei ragazzi che danno sfogo alla propria giovinezza, tra il piacere della trasgressione e l’euforia dell’età, le sinistre, sempre incazzatissime, se la prendono con Giorgia Meloni e con Fratelli d’Italia e chiedono subito soddisfazione come persone offese nei sentimenti democratici, spaventate per l’imminente perdita della libertà. L’on. Crosetto sa bene che non è in pericolo un bel niente, caso mai l’intelligenza di questi fascistofobi, ma si presta al gioco degli avversari, i quali lo sanno meglio di lui che altri sono i problemi dell’Italia. Tanti che oggi sono al governo, ai loro dì, hanno cantato a squarciagola chissà quante volte inni fascisti. Lo si chieda a Ignazio La Russa, attuale Presidente del Senato, e alla stessa Giorgia Meloni. Questi non si sono mai sognati di realizzare i propositi del “pugnal tra i denti e bombe a mano” e gridando “Duce Duce” non pensavano affatto ad un ritorno alla dittatura. In Italia ci saranno sempre nostalgici di Mussolini e del fascismo come in Francia di Napoleone Bonaparte e dell’impero. Ricordo che nel corso delle campagne elettorali degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta i grammofani delle sezioni missine, con gli altoparlanti rivolti verso l’esterno, suonavano Giovinezza, Faccetta nera, Battaglioni del Duce, l’Inno dei giovani fascisti. Nessun carabiniere o vigile urbano interveniva per farli spegnere. A quei tempi il Msi raggiungeva percentuali bassissime, non impensieriva nessuno. “Ragliate, ragliate” dicevano i suoi avversari, con evidente disprezzo. Ora che gli eredi di quel partito sono democraticamente al governo si grida al pericolo. Ma non è soltanto ipocrisia dei partiti cosiddetti antifascisti. Nell’Occidente tutto si è succubi del politicamente corretto per cui al posto dei vecchi tabu, dei quali la civiltà occidentale si è liberata, ci sono i nuovi, che – guai! – a tentare di nominare. Così del fascismo, della Nazione, della Patria, del patriarcato, della famiglia conviene non dire niente, chinare il capo e tacere. Sta accadendo ciò che accadde a Roma, quando conquistò la Grecia con le armi ma da quella si fece conquistare con la cultura. Le destre hanno sconfitto le sinistre con le loro stesse armi, ovvero in libere votazioni, ma si stanno facendo conquistare dalle loro parole di rancore e di odio. Per cui inneggiare, anche per scherzo goliardico, al fascismo, diventa un fatto così grave che un ex democristiano diventato ministro anche coi voti degli eredi del Msi, vuole prendere a calci ed espellere dei ragazzi che per fare i dispettosi si sono messi a cantare degli inni sapendo, appunto, di fare solo un dispetto.

sabato 1 novembre 2025

La sinistra vuole la guerra civile

Quando Elly Schlein, leader del Pd e della coalizione di centrosinistra detta “Campo largo”, dice che la democrazia è a rischio se a governare il Paese è una formazione della destra estrema “sa” quello che dice. Altro che! Ovviamente eccede in iperboli per rendere più impressionante il concetto. La “poveretta” è stata massacrata perfino dai suoi per l’esagerazione della sua affermazione, considerando che oggettivamente al governo in Italia non c’è l’estrema destra e la democrazia non è affatto in pericolo. Ma gridare “Al lupo! Al lupo! giova e lo si vede. In tutto il Paese ormai c’è una guerriglia quotidiana con estremisti di sinistra all’attacco, i quali ormai dicono apertamente che sono “in armi” non solo per la Palestina ma anche e soprattutto per far cadere il governo Meloni. Landini, segretario generale della Cgil, incalza, minaccia scioperi generali, parla di rivolta sociale e si auspica pure lui il peggioramento di quanto sta accadendo. Gli studenti di sinistra occupano le università e le scuole, impedendo agli altri qualsiasi iniziativa, perfino di entrare, come è accaduto all’ex deputato Emanuele Fiano, espulso dall’Università Ca’ Foscari di Venezia perché ebreo e sionista. Episodi di violenza si susseguono ogni giorno. Piazza e sindacato di sinistra sembrano in servizio permanente effettivo per “provocare” il governo, sperando che prima o poi perda la pazienza e intervenga come sperano i “difensori della democrazia”. Se poi nel frattempo in uno dei tanti scontri con le Forze dell’Ordine si fa male qualcuno, ben venga, sarà accolto come una manna dal cielo. Grideranno Schlein e compagni: avete visto? Il governo reprime, la democrazia è in pericolo. Schlein “sa” quel che dice! Stiamo assistendo da più di un mese ad un film già visto. Era il ’68, studenti e operai in rivolta in tutte le scuole e le piazze; poi gli stessi divennero terroristi, “Brigate Rosse”, “Potere operaio” e tante altre sigle, che diedero l’assalto allo Stato, alle sue istituzioni, ai suoi uomini. Fino al culmine, nel 1978, col rapimento di Aldo Moro, Presidente della Dc. Dieci anni di guerra civile, una guerra a bassa intensità, ha detto Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione Stragi. Non furono i governi di quegli anni a mettere in moto la reazione, almeno non gli uomini più rappresentativi, ma soggetti che si servirono di pezzi dello Stato per mettere in atto una strategia di lotta, provocata dall’attacco della sinistra extraparlamentare, rivoluzionaria e combattente. Dall’altra parte, infatti, si reagì come in genere accade quando lo squilibrio fra le parti in lotta è vistosamente a favore di una delle due: con la violenza fantasma, con lo stragismo. Questa è storia: bombe nelle banche, sui treni, nelle stazioni, nelle piazze, esecuzioni individuali. Ancora oggi non tutto è chiaro di quegli anni; ma da quel che si vede c’è una parte politica, il centrosinistra, che da incosciente fa di tutto per ricreare nel Paese le condizioni per uno scontro di quel livello. È questo che la Schlein vuole dire quando afferma che con la destra estrema al governo la democrazia è in pericolo. La verità è che oggi, in Italia, sono quelli di sinistra i veri “reazionari”. Sono contrari a tutto, alle riforme come alla costruzione di importanti opere strategiche come il ponte sullo Stretto. Essi si stanno rendendo conto che il governo in carica sta realizzando le promesse che la maggioranza di centrodestra aveva fatto agli italiani. Essi assistono da tre anni ad un susseguirsi di successi del governo Meloni, che senza essere straordinario non si può dire neppure che sia uno scatafascio. I sondaggi, nonostante gli scompigli della sinistra, che denuncia un fallimento che non c’è, danno ragione al governo Meloni. E, allora, che fare? Il ragionamento è semplice: abbatterlo con la violenza, dopo aver creato nel Paese un clima di scontro continuo e sperare che prima o poi la situazione precipiti. Ma se per disgrazia degli italiani un governo liberamente eletto dagli elettori dovesse cadere per il clima di ingestibilità del Paese, provocato dalle sinistre, le conseguenze sarebbero estremamente gravi, in questo caso sì per la democrazia. Perché vorrebbe dire che il sistema democratico non è più in grado di garantire il rispetto del voto; sarebbe una sorta di golpe, mascherato da eccessi democratici, come la guerriglia urbana e le sceneggiate parlamentari, che la sinistra si ostina a chiamare normale protesta democratica. La parola d’ordine pertanto per la maggioranza di governo è mantenere i nervi saldi, non prestarsi alle provocazioni, sperando che la situazione non vada oltre il sopportabile, come sperano le sinistre, guidate dalla stretega Elly Schlein. Che quando parla, sa quel che dice e perché lo dice!

sabato 25 ottobre 2025

Meloni bene, a parte Trump

Alla domanda su Meloni e Schlein il giurista Sabino Cassese, intervistato da Roberto Gressi del “Corriere della Sera”, ha dato questa risposta: «Non c’è possibilità di paragone. Meloni studia, è la migliore allieva di Togliatti, come lui è realista. E ha capito, come prima di lei De Gasperi, che il modo migliore di fare la politica interna è fare la politica estera. Sull’altro fronte vedo il vuoto politico, solo slogan che inseguono l’ultima notizia dei giornali. Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia» (CdS, 21.10.2025). Giudizio di un uomo di assoluta insospettabilità e di profonda dottrina. Basterebbero i due nomi citati da Cassese per tenere la Meloni a livelli altissimi, essendo stati Togliatti e De Gasperi due protagonisti in assoluto dell’Italia repubblicana ai suoi inizi, due leader insuperati. Avvertiamo, tuttavia, la necessità di evidenziare ciò che della Meloni in questo momento appare preoccupante e che più in là potrebbe essere causa di una sua crisi. In questa sede nessun paragone con la Schlein o con altri. Riteniamo, però, che le critiche, quando esse hanno un fondamento, vadano fatte non quando tutto va male, quando è facile farle, ma prima, quando tutto sembra arridere. Qualche evidenza. In occasione delle manifestazioni in tutta Italia in favore della Palestina, che hanno caratterizzato il mese di ottobre, Meloni ha dimostrato di non essere in sintonia col Paese ed ha assunto atteggiamenti di incomprensione se non di conflittualità con esso. A manifestare, infatti, c’era un arco di rappresentanze che andava dagli antagonisti a cittadini moderati e perfino elettori di destra. Recentemente Landini, segretario generale della Cgil, ha tirato le somme definendola “cortigiana di Trump”. Espressione, questa, di una gravità enorme, tanto più che Landini non ha inteso neppure chiederle scusa, confermando di aver voluto dire proprio quello che aveva detto, cioè la Meloni persona che fa parte della corte di Trump. Bando a qualsiasi altra interpretazione, sbagliata oltre che volgare, l’accusa è precisa: la Meloni è troppo appiattita sulle posizioni di Trump. Così appare, anche se così non è. Lei è ferma su posizioni filooccidentali mentre Trump è piuttosto ondivago e per certi aspetti irricevibile. La politica della Meloni è chiara e coerente nei limiti della realtà che cambia e si evolve: europeista e filoamericana, favorevole al riconoscimento di una Palestina moderata e rispettosa di Israele nell’ambito della formula “due popoli due stati”, in favore di una pace giusta in Ucraina. Questi sono i punti fondamentali della sua politica estera, al di là di ogni intento delle opposizioni di denigrarla o di irriderla. Gli elogi pubblici di Trump, di un uomo noto ormai per le sue stravaganze verbali e comportamentali, le fanno più danno che utile. All’infelice sortita di Landini si è aggiunta più recentemente quella della grillina Alessandra Maiorino, che l’ha definita cheerleader (ragazza pon pon). Il termine cortigiana, femminile di cortigiano, uomo di corte, rimanda al nostro Rinascimento quando nelle corti italiane tutti pendevano dalle labbra del signore e tutti cercavano di non contraddirlo: «Pazzo chi al suo signor contradir vole, / se ben dicesse c’ha veduto il giorno / pieno di stelle e a mezzanotte il sole» (Ariosto, Satire, I). Ora Trump non perde tempo a punire tutti i suoi avversari e a prodursi in trovate vomitevoli come quella prodotta dall’Intelligenza Artificiale, che lo vede in aereo che bombarda col suo sterco i manifestanti che lo contestano per i suoi atteggiamenti da sovrano. Una scena che nessun sovrano vero si sognerebbe mai di immaginare: prendere a merdate i propri sudditi perché dissentono. Ma lo può fare Trump in democrazia, e questo è davvero un problema per gli americani. Sicché quando vediamo la Meloni essere associata a Trump non crediamo che le venga fatta una cortesia. Per questo i leader dei più importanti paesi europei hanno assunto un atteggiamento di prudenza nei confronti del Presidente americano, preferendo molto spesso il silenzio, che non è condanna ma nemmeno consenso. La Meloni perciò dovrebbe stare attenta a non farsi legare troppo ad un politico di tal fatta e a ritagliarsi una sua autonomia, che è poi l’autonomia dell’Italia, dato che lei è a capo del governo italiano; che è l’autonomia dell’Europa. Trump cambia molto spesso parere, ha comportamenti autoritari, da principe capriccioso o da sovrano dispotico. Nessuno può dire quello che lui effettivamente pensa su un determinato problema. A seguirlo nelle sue scorribande, si rischia di fare la fine che prima o poi farà lui.