Domenica, 23 febbraio. A Milano da qualche giorno è arrivata
un’epidemia dalla Cina, si tratta di un nuovo coronavirus, dello stesso ceppo
della Sars (2002-03) e della Mers (2013).
Un tale, due giorni fa, sentendosi
male con gravi difficoltà respiratorie, si è presentato al Pronto Soccorso di
un ospedale milanese: ne era infetto senza saperlo.
In Italia due coniugi cinesi
anziani, in visita nel nostro Paese per turismo, sono da giorni in terapia
intensiva nella clinica dell’Istituto Spallanzani di Roma, infetti dal coronavirus,
rischiano di morire.
Questo virus imperversa in Cina
da qualche settimana o forse da mesi nella provincia dell’Hubei, che ha per
capitale Wuhan, la città da dove l’epidemia è partita, ora tutta in quarantena
coi suoi circa sessanta milioni di abitanti.
Si dice che il virus sia passato
dal pipistrello al serpente, che in Cina è pasto abituale come da noi il pollo,
e dal serpente all’uomo. Il virologo italiano Roberto Burioni dell’Università
San Raffaele di Milano ne è certo. Ma c’è chi sospetta altro, per esempio che
il virus sia stato “liberato” apposta o per errore in un qualche laboratorio di
ricerca. Roba da film.
E’ stato chiamato dall’OMS Covid-19
(Co per corona, vi per virus, d per disease ‘malattia’ e 19 perché essa è emersa nel 2019).
Figurarsi da quanto tempo il
virus era in circolazione e per le autorità cinesi era come se non esistesse! Oppure,
come qualcuno sospetta, se ne sono state zitte, pensando di poterlo gestire
senza molto clamore. Non c’è dubbio che se la malattia è nata nel 2019, i
cinesi hanno dato l’allarme in forte colpevole ritardo.
Il 2 febbraio scorso l’Istituto
Spallanzani di Roma poteva far sapere all’Italia e al mondo di aver isolato il
virus. Quarti, noi italiani, dopo cinesi,
francesi e australiani.
Il governo italiano aveva già
bloccato i viaggi per e dalla Cina alla fine di gennaio. A quanto pare il
malcapitato nostro connazionale, detto “paziente uno”, si sarebbe incontrato
con un amico che era stato in Cina e avrebbe contagiato quanti ne ha incontrati
nei giorni successivi al suo rientro a Milano. Subito il contagio si è diffuso.
Le autorità consigliano di non
frequentare luoghi affollati, di lavarsi spesso le mani e di non portarsele
agli occhi, al naso e alla bocca.
Ma noi meridionali c’entriamo col
coronavirus? Ci sentiamo sempre un’altra Italia, noi del Sud, nel bene e nel
male.
Sabato, 29 febbraio. I contagi crescono e anche i morti. Dicono che
muoiono soprattutto gli anziani che hanno patologie gravi pregresse; non
morirebbero per il coronavirus ma col coronavirus. Siamo i soliti giocolieri di
parole, esperti in “trufferie”, come le chiamava Manzoni. Autore, questo, che,
insieme a Boccaccio, è citatissimo in questi giorni per via della peste, così
ben narrata nei loro libri immortali. Le autorità evidentemente sdrammatizzano
per non gettare il paese nel panico.
Intanto qui da noi, nel Salento,
è come se nulla fosse. Le autorità dicono che non dobbiamo frequentare luoghi
affollati, che dobbiamo stare ad una distanza di un metro l’uno dall’altro, ma
intanto al bar ogni giorno siamo in cinque-sei intorno ad un tavolo a stretto
contatto di gomito. Ci irroriamo reciprocamente di goccioline, sperando che non
siano coronavirali o coronaviresche. Qui al Sud, la cosa, non la stiamo
prendendo sul serio.
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