martedì 17 marzo 2020

I giorni del Coronavirus 1




Domenica, 23 febbraio. A Milano da qualche giorno è arrivata un’epidemia dalla Cina, si tratta di un nuovo coronavirus, dello stesso ceppo della Sars (2002-03) e della Mers (2013).

Un tale, due giorni fa, sentendosi male con gravi difficoltà respiratorie, si è presentato al Pronto Soccorso di un ospedale milanese: ne era infetto senza saperlo.

In Italia due coniugi cinesi anziani, in visita nel nostro Paese per turismo, sono da giorni in terapia intensiva nella clinica dell’Istituto Spallanzani di Roma, infetti dal coronavirus, rischiano di morire.

Questo virus imperversa in Cina da qualche settimana o forse da mesi nella provincia dell’Hubei, che ha per capitale Wuhan, la città da dove l’epidemia è partita, ora tutta in quarantena coi suoi circa sessanta milioni di abitanti.
Si dice che il virus sia passato dal pipistrello al serpente, che in Cina è pasto abituale come da noi il pollo, e dal serpente all’uomo. Il virologo italiano Roberto Burioni dell’Università San Raffaele di Milano ne è certo. Ma c’è chi sospetta altro, per esempio che il virus sia stato “liberato” apposta o per errore in un qualche laboratorio di ricerca. Roba da film. 
E’ stato chiamato dall’OMS Covid-19 (Co per corona, vi  per virus, d per disease ‘malattia’ e 19 perché essa è emersa nel 2019).
Figurarsi da quanto tempo il virus era in circolazione e per le autorità cinesi era come se non esistesse! Oppure, come qualcuno sospetta, se ne sono state zitte, pensando di poterlo gestire senza molto clamore. Non c’è dubbio che se la malattia è nata nel 2019, i cinesi hanno dato l’allarme in forte colpevole ritardo.

Il 2 febbraio scorso l’Istituto Spallanzani di Roma poteva far sapere all’Italia e al mondo di aver isolato il virus. Quarti, noi italiani,  dopo cinesi, francesi e australiani.

Il governo italiano aveva già bloccato i viaggi per e dalla Cina alla fine di gennaio. A quanto pare il malcapitato nostro connazionale, detto “paziente uno”, si sarebbe incontrato con un amico che era stato in Cina e avrebbe contagiato quanti ne ha incontrati nei giorni successivi al suo rientro a Milano. Subito il contagio si è diffuso.

Le autorità consigliano di non frequentare luoghi affollati, di lavarsi spesso le mani e di non portarsele agli occhi, al naso e alla bocca.

Ma noi meridionali c’entriamo col coronavirus? Ci sentiamo sempre un’altra Italia, noi del Sud, nel bene e nel male.

Sabato, 29 febbraio. I contagi crescono e anche i morti. Dicono che muoiono soprattutto gli anziani che hanno patologie gravi pregresse; non morirebbero per il coronavirus ma col coronavirus. Siamo i soliti giocolieri di parole, esperti in “trufferie”, come le chiamava Manzoni. Autore, questo, che, insieme a Boccaccio, è citatissimo in questi giorni per via della peste, così ben narrata nei loro libri immortali. Le autorità evidentemente sdrammatizzano per non gettare il paese nel panico.

Intanto qui da noi, nel Salento, è come se nulla fosse. Le autorità dicono che non dobbiamo frequentare luoghi affollati, che dobbiamo stare ad una distanza di un metro l’uno dall’altro, ma intanto al bar ogni giorno siamo in cinque-sei intorno ad un tavolo a stretto contatto di gomito. Ci irroriamo reciprocamente di goccioline, sperando che non siano coronavirali o coronaviresche. Qui al Sud, la cosa, non la stiamo prendendo sul serio. 

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