Il Presidente dell’Associazione
Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo ha dichiarato guerra all’universo mondo italiano della
politica e della corruzione. Procede come una pala meccanica. L’avevo già
sentito a “Otto e Mezzo” dalla Gruber su “La Sette” prima di leggere la sua
intervista sul “Corriere della Sera” di venerdì, 22 aprile.
Difficile dargli torto. Un buon
cittadino sta dalla sua parte, che è quella della giustizia impegnata contro la
corruzione di tutti, politici in primis. Direi che con lui sta l’uomo qualunque,
qualunque non in senso deleterio, ma il cittadino che lavora e vuole che le
cose funzionino e che i ladri, chiunque essi siano, vengano messi nella
condizione di non rubare. Come? Fate voi, dicono i cittadini agli operatori
della giustizia; siete voi gli esperti di delitti e castighi.
Senonché Davigo attacca anche i
magistrati e getta qualche sospetto perfino su Raffaele Cantone, il Presidente
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, nominato da Renzi nel marzo del 2014,
magistrato pure lui. Dice: “Lo capisco. E non aggiungo altro”, in relazione al
fatto che prima Cantone sosteneva che coi politici corrotti bisognerebbe fare “come
si fa coi trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i
poliziotti ad offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta”. L’allusione
di Davigo è agli amoreggiamenti politici di Cantone.
Cantone in Italia è invocato come
un santo taumaturgo. Ognuno lo vorrebbe al vertice di tutto; perfino della
chiesa se si potesse. Non c’è che lui. L’attacco di Davigo è suonato come una
bestemmia. All’ex dottor sottile del pool milanese di Mani Pulite evidentemente
non piacciono i magistrati che poi vanno a finire per fare i ministri o
addirittura i presidenti delle Camere, come Grasso che è l’attuale Presidente
del Senato. Un magistrato, che miri a fare il politico, difficilmente sa fare
il magistrato fino in fondo coi politici corrotti. L’ira funesta di Davigo
s’impernia proprio qui. Perché – a suo dire – mai come oggi imperversa la
corruzione; e c'è bisogno di magistrati-magistrati.
Per lui i politici “non hanno
smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza
quel che prima facevano di nascosto”. Se ciò è vero, è gravissimo. Saremmo di
fronte a vera e propria tracotanza.
Davigo è uno che ha buona
memoria. Ricorda perciò che prima che esplodesse il processo di Mani Pulite c’era
stato il tentativo da parte di alcuni ministri e grossi esponenti del Psi di
legalizzare le tangenti. Che è come legalizzare la camorra, dato che essa si riserva
una quota dei guadagni da ogni attività lavorativa sotto forma di protezione o
copertura.
Ma l’aspetto grave e gravissimo
della corruzione pubblica in Italia è che neppure se si arrivasse alla
legalizzazione della tangente, il fenomeno corruttivo cesserebbe. Abbiamo l’età
per ricordare come prima della legge del finanziamento pubblico dei partiti (Legge
Piccoli del 1974) si diceva esattamente che la corruzione dei politici nasceva
dal fatto che la politica costa denaro e che in difetto di una legge che ne
regolasse il finanziamento era giocoforza prenderlo dagli imprenditori. Fatta
la legge, si continuò a prendere soldi, in modo più o meno mafioso o camorristico.
Ti do l’appalto se mi dai il tot per cento. E così andarono per anni le
dazioni, fino a quando non diventarono ambientali; quando cioè non c’era più bisogno
neppure di chiederla la tangente; partiva da sola. La politica oggi in Italia è
la lupa dantesca che “mai non empie la
bramosa voglia, / e dopo il pasto ha
più fame che pria”.
A distanza di tanti anni – è
passato quasi un quarto di secolo – siamo perciò punto e daccapo. Anzi, stando
a quanto dice Davigo – e a quanto vediamo e sentiamo – le cose sono peggiorate;
stiamo a due punti e aperte virgolette. E’ come se un coniuge fedifrago, che
prima tradiva di nascosto, ad un certo punto pretenda di farlo coram populo, magari perfino davanti ai
figli, perché imparino come si fa.
Contro Davigo si è sollevato gran
parte del mondo giudiziario, perfino la stessa associazione di cui ha la
presidenza e che probabilmente dovrà lasciare. La partita è importante, si
gioca su due tavoli: uno è quello della corruzione, l’altro è quello dei
magistrati in politica.
Sul tavolo della corruzione fra Davigo
e Cantone chi ragiona più da magistrato è Davigo; chi ragiona più da politico è Cantone. Il quale sembra avviato a
finire tra qualche anno ad una altissima carica istituzionale, non si esclude la
presidenza della repubblica; già se ne parlava all’ultima elezione. Si esprime come
un politico di grande equilibrio e cerca di accattivarsi le simpatie dei
politici. “Non si risolve tutto con le manette” dice e riconosce che del marcio
anche nella magistratura.
Sul tavolo della politica Davigo
ha detto: “Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica”. Non così
Cantone, che, a stretto giro di stampa, gli ha replicato: “E’ sbagliata l’idea
che un magistrato non possa fare politica; è sbagliato semmai che dopo aver
fatto politica torni a fare il magistrato” (“Corriere della Sera” del 23
aprile). E se uno facendo il magistrato si costruisce l’esito politico, come la
mettiamo?
Sta di fatto che ora Cantone è in
una posizione ibrida. In quanto presidente dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione, fa il magistrato o fa il politico o fa entrambe le cose?
Formalmente, come magistrato è in aspettativa e ha dichiarato che al termine
del suo mandato, 2020, tornerà a fare il magistrato. La sua posizione non
sembra proprio molto comprensibile e lineare.
Ne sentiremo ancora tra questi due magistrati, che ce l’hanno con la
politica, uno per troppo disprezzarla, l’altro per troppo amarla.