sabato 26 dicembre 2015

L'Italia: un paese sospeso


L’incarico di Renzi a formare il governo, frutto di una serie di circostanze di derivazione elettorale e politica, ma voluto dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, fece pensare di primo acchito ad una sospensione della democrazia. Per quanto tutto fosse stato fatto in ossequio alla Costituzione – non è scritto in nessuna parte che il Presidente del Consiglio incaricato deve essere un eletto dal popolo – si avvertì un deficit di dibattito e di confronto, in considerazione che la nostra è una repubblica parlamentare e una democrazia rappresentativa. Parlamentare perché il ruolo del Parlamento è centrale; esso elabora soluzioni politiche al suo interno e non si limita a ratificare scelte fatte fuori. Rappresentativa di che? Di quelle forze politiche elette dal popolo in regolari elezioni. Esse poi pensano e decidono coi loro uomini più rappresentativi, coi loro leader, in maniera collegiale. Ora, quella di Napolitano fu una scelta singola, di cui egli si è assunto la responsabilità di fronte al paese e alla storia, nel bene e nel male. Duo non faciunt collegium dicevano i latini, figurarsi uno!
L’interventismo di Napolitano parte dall’estate del 2011, come ormai è acclarato da testimonianze mai smentite, con le dimissioni “indotte” di Berlusconi, già politicamente esautorato e moralmente screditato, con l’incarico a Mario Monti, col tentativo Bersani, con l’incarico a Letta e infine con l’investitura di Renzi. Dopo le elezioni politiche ci fu l’intermezzo della rielezione di Napolitano al Quirinale. Apparve subito pertanto che si trattava di un’operazione di vertice, gestita in più fasi, una volta si sarebbe detto “congiura di palazzo”, garantita dalla continuità istituzionale e politica di Napolitano. E di golpe strisciante si parlò all’epoca dei fatti. Se non fu un golpe sotto il profilo tecnico, lo fu sotto il profilo politico.
Dopo circa due anni di governo Renzi, appare di tutta evidenza che non solo la democrazia è sospesa, ma anche la politica in senso più ampio; e quando la politica è sospesa è come un motore che si spegne e la macchina non va né avanti né indietro. Ecco, l’Italia è un paese sospeso. Lo è politicamente, economicamente, culturalmente, eticamente. Il dibattito politico è congelato, lo zero virgola della crescita è insignificante, la classe dirigente non ha idee precise sulla sua identità culturale, la caduta di tensione nell’etica del ruolo, specialmente per certe professioni, è segno di spaesamento diffuso e crescente.
Non sono tanto le esibizioni di Renzi, parodisticamente mussoliniane e berlusconiane, che confermano questa percezione. Ora Renzi si mette anche a parlare di potenza dell’Italia, di prestigio nel mondo, di puntualità nel portare a compimento le opere pubbliche, come faceva Mussolini quando dal balcone di una nuova città appena inaugurata prometteva la data dell’inaugurazione della successiva; e attacca la Merkel in maniera solo meno pacchiana e volgare di Berlusconi.
Lo stato di incertezza e confusione lo si evince soprattutto dai commentatori politici che non sanno che pesci pigliare e dalla stampa tutta che li segue in una condizione di sostanziale autocensura, ormai conclamata. I più onesti non fanno proclami, ma lo dicono; e se non lo dicono, lo ammettono.
E’ una cosa molto grave la condizione in cui operano i giornalisti. Molti di essi, fior di firme, sono stati prepensionati e vivono in uno stato di “disoccupazione mentale”, nel senso che la loro intelligenza critica non trova gli spazi adeguati per esprimersi e incidere nella formazione dell’opinione pubblica. Ché quello è il ruolo di un intellettuale, di un commentatore critico. Vediamo l’affollamento di firme celebri nel “Fatto Quotidiano”, autentica area di parcheggio di menti rottamate. Altri, se non vogliono fare la stessa fine, si guardano bene dal criticare il potere e vivacchiano dicendo e non dicendo. Autocensurandosi, evitano al potere politico di mostrare la sua vera faccia, che è quella della repressione sia pure morbida; e salvano il posto di lavoro. I due maggiori quotidiani italiani la dicono lunga con la sostituzione di Ferruccio de Bortoli al “Corriere della Sera” e con quella, annunciata, di Ezio Mauro alla “Repubblica”. I due direttori sostituiti non erano renziani, sia pure per motivi diversi; Fontana e Calabresi lo sono. Ogni cosa ha il suo posto, ogni posto ha la sua cosa, si diceva saggiamente una volta nella bottega di un artigiano. De Bortoli e Mauro erano ormai al posto sbagliato.
L’aspetto più grave è il messaggio che passa da simili operazioni: si va verso un renzismo più sistematico e organico, si va verso il partito della nazione, che – facciamoci caso – ricorda tanto il partito nazionale fascista. Non contano i dettagli e i modi con cui l’uno si fece strada nel dopoguerra e l’altro si sta facendo strada nel dopocrisi – ma è davvero dopocrisi? – conta che oggi come allora si avverte la necessità di un partito che impedisca la dialettica politica e abbracci in un solo organismo tutta la nazione. Basta con le chiacchiere e chi non ha fiducia nel governo è un gufo. Non è un caso che il gufismo di Renzi si sta affermando come metodica, che travalica la battuta polemica e s’impone come cifra di comunicazione e di lotta politica. I gufi, nella visio di Renzi, sono gli avversari, malvagi perché sperano che le iniziative del governo falliscano a danno dell’intera nazione pur di dimostrare di essere loro i più adeguati a governare. Come fatto non è nuovo, un po’ è fisiologico in una democrazia; ma solo con lui o da lui in poi è diventato un’arma propagandistico-mediatica.
Nessun grido di allarme, nessun “al lupo, al lupo!”. Il partito della nazione non potrà mai calcare le orme del partito nazionale fascista; ma risponde come quello ad una volontà di creare in Italia un sistema politico a democrazia ridotta, in modo che chi lo rappresenta al massimo livello possa prendere i provvedimenti che occorrono in tempi brevi e rispondere all’Unione Europea senza tante incertezze e lacerazioni interne.

La domanda che è lecito porsi è: ma il renzismo è una fase del processo d’uscita dalla crisi politica, cui ne seguiranno altre fino al ritrovamento di un nuovo assetto politico-istituzionale, o è la risposta finale alla crisi? A ragionar politico, verrebbe di dire che è la risposta finale. A ragionare storico si ha qualche legittimo dubbio.

1 commento:

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