Nel messaggio agli Italiani il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato nella prima parte – ma
assai lunga – una sorta di direttore di giornale che risponde alle lettere di
alcuni cittadini i quali gli avevano manifestato le loro doleances.
Cosa ha voluto dimostrare
Napolitano, che in Italia esiste una situazione sociale insostenibile? Ma è
bastato ascoltare il telegiornale di pochi minuti prima con la notizia
dell’impazzito di Collegno, una persona che, avendo perso il lavoro, ha ucciso
suocera, moglie e figlia e poi si è suicidato, per convincersene.
Napolitano si è profuso in una
autodifesa che francamente ha rafforzato negli Italiani la convinzione che la
situazione politico-istituzionale è gravissima. Ha ripetuto che lui,
sollecitato ad accettare la rielezione, non ha saputo sottrarsi all’assunzione
di responsabilità; che a votarlo sono stati più del 70 % dei grandi elettori;
che perciò è più che legittimato e non cederà agli insulti e alle minacce.
Ma la situazione in cui ci
troviamo è in non poca parte riconducibile a lui. Non si può essere
responsabili del bene e non responsabili del male se entrambi provengono dalla
stessa fonte. La sua excusatio circa
i suoi straripamenti politici non convince; conferma semmai la necessità di
avere comunque un alto punto di riferimento nella situazione in cui ci
troviamo.
Un discorso scontato, anche nella
chiusura, con la promessa finale che non starà al Quirinale un giorno in più
del tempo che le circostanze e la salute glielo consentiranno. Tempo
indeterminato!
Ha convinto, invece, quando ha
spronato ad avere coraggio. Sì, bisogna proprio avere coraggio. Il coraggio,
quanto meno, di avere ancora dei desideri politici, che oggi sono quanto mai
utopici. Tre, per l’esattezza, che certo non potrà portare la Befana , né di quest’anno né
dell’anno venturo né mai.
Il primo è di avere finalmente in Italia meccanismi
così efficienti ed efficaci che impediscano a chi si occupa della cosa pubblica
di rubare. Dato che ormai è acclarato: rubano tutti. La storia di oltre un
secolo ci ha insegnato che gli italiani rubano quale che sia l’appartenenza
politica; che, se pure alcuni di essi non rubano, non denunciano, come
dovrebbero, quelli che rubano e dunque ne sono complici. Aldo Moro ai tempi
dello scandalo Lockeed disse alla Camera: non ci faremo processare sulle
pubbliche piazze. Moro non aveva rubato, ma sapeva che altri del suo partito lo
avevano fatto e lui li protesse.
I socialisti predicavano onestà
dalla fine dell’Ottocento, giunti al potere nella prima metà degli anni
Sessanta del Novecento, sono diventati sinonimo di ladri. Tangentopoli dimostrò
che sono ladri i democristiani, i liberali, i repubblicani, i comunisti, come
nella canzonetta dei gobbi: gobbo il padre, gobba la madre, gobba la figlia
della sorella, era gobba pure quella, la famiglia dei gobbò. Ecco, in Italia l’alter hymnus!
Non diversamente i missini, altri
predicatori di onestà! Giunti al potere, si sono rivelati ladri al pari degli
altri. Le vicende della Regione Lazio sono solo il contorno di più diffuse
situazioni, non ultima quella di Gianfranco Fini e della casa di Montecarlo. Un
episodio squallido, sia per il valore in sé della casa, sia per la provenienza
della stessa, sia per il recinto famigliare in cui l’episodio ha assunto toni
incestuosi.
E Di Pietro? Ha fatto la fine dei
suoi inquisiti. E Bossi? Ladro pure lui e pidocchioso! Si è ristrutturata la
casa coi soldi pubblici, mentre il figlio, che non riusciva a prendersi la
maturità in Italia, si è comprato la laurea in Albania, coi soldi – sempre –
dello Stato. Roba da far piangere i comici. Ora ci sono i grillini. Faranno la
stessa fine. Non è una previsione, è una constatazione, un semplice piccolo
ragionamento; come vedere una palla su un piano inclinato.
Non è possibile che in Italia ci
sia un popolo di francescani e una classe politica di ladri. La verità è che
ogni francescano, posto nella condizione di rubare, ruba; ogni politico, posto
nella condizione di non rubare, ossia spogliato dei suoi paramenti politici,
diventa francescano. Di qui il desiderio di avere meccanismi di controllo
perfetti e leggi in grado di stroncare i furbastri che fossero capaci perfino
di eludere gli stessi meccanismi.
Il secondo desiderio è di avere
una magistratura assolutamente credibile, rigorosa nella sua missione
sacerdotale, ordinata e votata fino al sacrificio, con l’anelito mistico di
Jacopone da Todi. Questo è il desiderio più utopico, forse, ma bisogna crederci
perché solo una siffatta magistratura potrebbe garantire la funzionalità del
sistema anticorruzione, antifurto, antirapina. E’ inaccettabile che i
magistrati possano dismettere la toga e da un giorno all’altro mettersi a fare
politica, non solo perché da politici ruberanno a loro volta, ma anche perché
chi giudica con sollecitazioni politiche, ancorché spontanee e inconsce, non è
un buon giudice e insinua nei cittadini – cosa assai più grave – la diffidenza nella giustizia.
Il terzo desiderio è che
finalmente si faccia una legge elettorale, che non sia un imbroglio, un raggiro
per gli Italiani per impedire che si sappia chi ha vinto e chi ha perso, chi
deve governare e chi no. Utopico anche questo desiderio; ma bisogna crederci,
avere il coraggio di credere. Utopico se si considera che si usa perfino la necessità
di una legge elettorale come strumento di lotta politica. Tutti dicono che
occorre farla, ma solo alcuni vorrebbero farla adesso; e sono quelli che
sperano che da elezioni imminenti possano trarre dei vantaggi. Gli altri,
invece, perdono tempo, perché sanno che fatta la legge si dovrebbe andare a
votare e loro non hanno nessun interesse a farlo ora, mentre sono al potere. E,
allora, perché affrettarsi a fare una legge? Meglio continuare al Luna Park dei
sistemi elettorali.
Desideri utopici. Che almeno se
ne avveri uno!
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