domenica 5 gennaio 2014

2014: tra coraggio e utopia


Nel messaggio agli Italiani il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato nella prima parte – ma assai lunga – una sorta di direttore di giornale che risponde alle lettere di alcuni cittadini i quali gli avevano manifestato le loro doleances.
Cosa ha voluto dimostrare Napolitano, che in Italia esiste una situazione sociale insostenibile? Ma è bastato ascoltare il telegiornale di pochi minuti prima con la notizia dell’impazzito di Collegno, una persona che, avendo perso il lavoro, ha ucciso suocera, moglie e figlia e poi si è suicidato, per convincersene.
Napolitano si è profuso in una autodifesa che francamente ha rafforzato negli Italiani la convinzione che la situazione politico-istituzionale è gravissima. Ha ripetuto che lui, sollecitato ad accettare la rielezione, non ha saputo sottrarsi all’assunzione di responsabilità; che a votarlo sono stati più del 70 % dei grandi elettori; che perciò è più che legittimato e non cederà agli insulti e alle minacce.
Ma la situazione in cui ci troviamo è in non poca parte riconducibile a lui. Non si può essere responsabili del bene e non responsabili del male se entrambi provengono dalla stessa fonte. La sua excusatio circa i suoi straripamenti politici non convince; conferma semmai la necessità di avere comunque un alto punto di riferimento nella situazione in cui ci troviamo.
Un discorso scontato, anche nella chiusura, con la promessa finale che non starà al Quirinale un giorno in più del tempo che le circostanze e la salute glielo consentiranno. Tempo indeterminato!
Ha convinto, invece, quando ha spronato ad avere coraggio. Sì, bisogna proprio avere coraggio. Il coraggio, quanto meno, di avere ancora dei desideri politici, che oggi sono quanto mai utopici. Tre, per l’esattezza, che certo non potrà portare la Befana, né di quest’anno né dell’anno venturo né mai.
Il primo  è di avere finalmente in Italia meccanismi così efficienti ed efficaci che impediscano a chi si occupa della cosa pubblica di rubare. Dato che ormai è acclarato: rubano tutti. La storia di oltre un secolo ci ha insegnato che gli italiani rubano quale che sia l’appartenenza politica; che, se pure alcuni di essi non rubano, non denunciano, come dovrebbero, quelli che rubano e dunque ne sono complici. Aldo Moro ai tempi dello scandalo Lockeed disse alla Camera: non ci faremo processare sulle pubbliche piazze. Moro non aveva rubato, ma sapeva che altri del suo partito lo avevano fatto e lui li protesse.
I socialisti predicavano onestà dalla fine dell’Ottocento, giunti al potere nella prima metà degli anni Sessanta del Novecento, sono diventati sinonimo di ladri. Tangentopoli dimostrò che sono ladri i democristiani, i liberali, i repubblicani, i comunisti, come nella canzonetta dei gobbi: gobbo il padre, gobba la madre, gobba la figlia della sorella, era gobba pure quella, la famiglia dei gobbò. Ecco, in Italia l’alter hymnus!
Non diversamente i missini, altri predicatori di onestà! Giunti al potere, si sono rivelati ladri al pari degli altri. Le vicende della Regione Lazio sono solo il contorno di più diffuse situazioni, non ultima quella di Gianfranco Fini e della casa di Montecarlo. Un episodio squallido, sia per il valore in sé della casa, sia per la provenienza della stessa, sia per il recinto famigliare in cui l’episodio ha assunto toni incestuosi.
E Di Pietro? Ha fatto la fine dei suoi inquisiti. E Bossi? Ladro pure lui e pidocchioso! Si è ristrutturata la casa coi soldi pubblici, mentre il figlio, che non riusciva a prendersi la maturità in Italia, si è comprato la laurea in Albania, coi soldi – sempre – dello Stato. Roba da far piangere i comici. Ora ci sono i grillini. Faranno la stessa fine. Non è una previsione, è una constatazione, un semplice piccolo ragionamento; come vedere una palla su un piano inclinato.
Non è possibile che in Italia ci sia un popolo di francescani e una classe politica di ladri. La verità è che ogni francescano, posto nella condizione di rubare, ruba; ogni politico, posto nella condizione di non rubare, ossia spogliato dei suoi paramenti politici, diventa francescano. Di qui il desiderio di avere meccanismi di controllo perfetti e leggi in grado di stroncare i furbastri che fossero capaci perfino di eludere gli stessi meccanismi.
Il secondo desiderio è di avere una magistratura assolutamente credibile, rigorosa nella sua missione sacerdotale, ordinata e votata fino al sacrificio, con l’anelito mistico di Jacopone da Todi. Questo è il desiderio più utopico, forse, ma bisogna crederci perché solo una siffatta magistratura potrebbe garantire la funzionalità del sistema anticorruzione, antifurto, antirapina. E’ inaccettabile che i magistrati possano dismettere la toga e da un giorno all’altro mettersi a fare politica, non solo perché da politici ruberanno a loro volta, ma anche perché chi giudica con sollecitazioni politiche, ancorché spontanee e inconsce, non è un buon giudice e insinua nei cittadini – cosa assai più grave –  la diffidenza nella giustizia. 
Il terzo desiderio è che finalmente si faccia una legge elettorale, che non sia un imbroglio, un raggiro per gli Italiani per impedire che si sappia chi ha vinto e chi ha perso, chi deve governare e chi no. Utopico anche questo desiderio; ma bisogna crederci, avere il coraggio di credere. Utopico se si considera che si usa perfino la necessità di una legge elettorale come strumento di lotta politica. Tutti dicono che occorre farla, ma solo alcuni vorrebbero farla adesso; e sono quelli che sperano che da elezioni imminenti possano trarre dei vantaggi. Gli altri, invece, perdono tempo, perché sanno che fatta la legge si dovrebbe andare a votare e loro non hanno nessun interesse a farlo ora, mentre sono al potere. E, allora, perché affrettarsi a fare una legge? Meglio continuare al Luna Park dei sistemi elettorali.

Desideri utopici. Che almeno se ne avveri uno!

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