domenica 8 aprile 2012

Monti, politico per forza

Monti ha veramente sulla coscienza i suicidi “economici” che da qualche tempo addolorano l’Italia? Antonio Di Pietro, che scorre sui binari dell’oratoria come una vecchia caccavella ferroviaria, ergo senza possibilità di scarti espressivi, gliel’ha gridato in faccia alla Camera, eo absente, mercoledì, 4 aprile. Una cosa indecorosa. Guai, quando un contadino cambia mestiere!, disse una volta un tale ad un barista ex contadino che gli aveva chiesto se il caffè che gli aveva preparato era buono. Monti, che invece parla come un robot – lo ha fatto felicemente notare il comico Crozza – si è limitato a rispondere “no”, quando un giornalista, nel corso di una conferenza stampa, gli ha chiesto di rispondere a Di Pietro. Certo che il momento è grave. Nel mitico Nord-Est già i suicidi per fallimenti e indebitamenti sono diverse decine; il ritmo del farla finita nel Paese aumenta; in Puglia sono già sette. Ma, che c’entra il governo Monti? Si può dire – e lo abbiamo detto – che la soluzione della crisi finanziaria richiedeva una sospensiva della politica, che c’è stata. Essa non piace, potrebbe produrre guasti di altro genere; ma la situazione non è certo dipesa da Monti, che oggi è alle prese con una politica confusa, smarrita. Egli stesso è in difficoltà – è pur sempre un uomo – si abbandona a dichiarazioni politicamente discutibili, poi si corregge, rientra, trova l’ingresso del politicamente corretto. Ma questi sono dettagli, che afferiscono più i modi che i fatti. E i fatti, purtroppo, non sembra gli diano sempre ragione; né la sua fiducia, a volte anche eccessiva, pare che porti il Paese veramente fuori dalle secche. A Monti si può e si deve imputare che opera più per l’Europa che per l’Italia, più in favore dei grandi soggetti economici che per i lavoratori e i poveri. Quando sarà e se sarà lo dovranno inserire tra i padri della patria europea insieme all’altro padre italiano Alcide De Gasperi.
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L’accordo sulla riforma del mercato del lavoro è stato raggiunto (4 aprile). Lo ha detto lo stesso Monti, anche se solo sulla parola; nulla di scritto. La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, ha detto: voglio prima leggere il testo. Quale il nodo sciolto? Il licenziamento per cause economiche, per cui ci può essere il reintegro se si prova che le cause sono insussistenti, prima attraverso una conciliazione tra le parti interessate e poi, eventualmente, col ricorso al magistrato. Un po’ come accade in Germania, che era quanto chiedevano la Cgil e Bersani. Ma, a questo punto, è sorto un altro problema: chi deve provare la causa di licenziamento, il datore di lavoro o il lavoratore? In via di principio generale non c’è dubbio, deve essere chi contesta l’atto, in questo caso il lavoratore. Ma – obietta il sindacato – il lavoratore non ha i mezzi per affrontare un contenzioso; perciò deve essere il datore di lavoro. I soliti bizantinismi, che dimostrano solo che in Italia riforme vere non se ne possono mai fare. Se veramente il nodo è stato sciolto, la riforma è stata un po’ svuotata, perché non c’è giudice in Italia che in un contenzioso tra datore di lavoro e lavoratore non dia ragione al lavoratore; per non parlare dei tempi della magistratura. Sicché se la riforma mirava ad una maggiore flessibilità in uscita, ovvero facilità nel licenziare, per incoraggiare i datori di lavoro ad assumere e gli stranieri ad investire in Italia, il ricorso al giudice la nega in radice. Perfino l’art. 18, come è, potrebbe andar bene solo in presenza di una magistratura diversa, meno appiattita su posizioni di classe e più rapida. Monti si convince sempre più che sua madre aveva ragione quando gli diceva: “Mario mio, guardati dalla politica!”. Se la riforma dovesse subire altri ritocchi in Parlamento, non si capisce che cosa di essa resterebbe.
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Alla Marcegaglia, leader di Confindustria in uscita, non va proprio il passo indietro che ha fatto il governo Monti sull’art. 18, in specifico sulla possibilità di reintegro anche per i licenziamenti per cause economiche. Monti ha ribattuto con poco fair play: se la sognava la Marcegaglia una riforma del mercato del lavoro simile tre mesi fa! La Fornero ha invitato la Marcegaglia ad astenersi dagli isterismi e a leggere meglio il testo. Ma la Marcegaglia è stata dura: se non sarà cambiata in Parlamento ci saranno meno assunzioni e non saranno rinnovati i contratti di lavoro a termine o a progetto. In verità Monti si è inchinato a Bersani e alla Cgil come la Costa Concordia all’Isola del Giglio. Erano decisamente diversi gli accordi contestati da Bersani a “Porta a Porta” da Bruno Vespa. Bonanni ha parlato di compromesso e la Camusso, se pure non è paga del tutto – ma i sindacalisti non lo sono mai per corruzione genetica – ha ammesso che è un passo avanti. Lo stesso Wall Street Journal di venerdì 6 aprile parlava di resa di Monti, che perciò gli ha scritto una lettera di chiarimenti. Ma che significa: il giudice “può”, non “deve” reintegrare? Siamo ancora al post-ovvio; siamo ai soliti bizantinismi, agli arrampicamenti sugli specchi per negare o mistificare la realtà. E la realtà è che prima della levata di scudi del Pd e delle minacce della Cgil la riforma su quel punto era diversa.
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Intanto dei quattro punti promessi da Monti appena nominato Capo del Governo: rigore, crescita, sviluppo ed equità, si è visto e sentito solo il primo: il rigore. E son passati cinque mesi! E gli altri? Pur lasciando stare l’equità – Monti continua a dire che nel rigore è stato equo, bontà sua! – non si vede neppure l’ombra di crescita e sviluppo! Lo spread sale e scende come un ascensore guasto. Si riavvicina ai quattrocento punti. Probabilmente non è cosa di stagione, ma di epoca. Non è come semina quando vuoi che a giugno mieti. Qui le cose vanno per le lunghe, non solo per il rigore, che in genere viene annunciato antifrasticamente: non ci sarà nessuna manovra aggiuntiva; e intanto la preparano. Sviluppo e crescita sono all’approdo sulla terra che non c’è, che per ora non si vede.
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E’ accaduto sotto il governo Monti: ha un senso? Umberto Bossi, giovedì, 5 aprile, si è dimesso da segretario della Lega Nord e, sebbene eletto seduta stante presidente, non sfugge a nessuno l’importanza di quanto è accaduto e sta accadendo nella Lega. Il tesoriere Belsito – quando si dice il nome! – si è dimesso. Accuse? Tre Procure della Repubblica lo accusano di aver elargito soldi a famigliari di Bossi e ad amici personali. Lo stesso Calderoli sarebbe stato della profenda. Soldi per ristrutturare la villa di Bossi; soldi per pagare il diploma del Trota; soldi per pagare la Porsche di Belsito; soldi per aiutare un’amica imprenditrice in difficoltà economica: soldi del partito, come rimborso elettorale. Bossi parla di complotto di Roma ladrona, ma farebbe meglio a star zitto: la cacca più cerchi di rimuoverla e peggio è. Quel che sconcerta ancora di più è il comportamento dei leader politici, Bossi come Rutelli, che non si accorgono di niente e posti davanti al fatto compiuto riconoscono che i soldi di rimborso elettorale sono troppi e invocano una legge per rivedere il criterio di assegnazione. Casini – uomo d’onore, direbbe Shakespeare – chiede addirittura una legge che imponga di restituire i soldi in esubero. La chiede a chi? Fanno ridere gli uomini d’onore italiani, quando non ti fanno girare le scatole. Somigliano a quei pedofili che, dopo aver violentato e abusato di numerosi bambini, chiedono di essere sottoposti a castrazione chimica per non fare ciò che gli stessi ritengono turpe. Si castrino i politici italiani, allora; e non se ne parli più!
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Rispondo alla domanda: ha un senso che il patatrac della lega si sia verificato sotto Monti? Non lo so. Mi rifiuto di pensare che in Italia la giustizia sia sempre ad orologeria, ma sicuramente le indagini della magistratura non possono risalire a qualche mese fa. La Lega era già nel mirino da molto prima. L’inchiesta è maturata come una pera sull’albero e colta prima che cadesse? Può darsi. Oggi il caso ha una triplice valenza. Primo, la Lega, che è all’opposizione del governo, è praticamente alle corde per guasti interni. Secondo, il movimento, componente essenziale dei governi di centrodestra, ha subito un colpo fortissimo che ne mette in forse la sopravvivenza. Terzo, l’effetto devastante sulla credibilità della politica in generale tanto più grave quando crolla una forza politica che si presenta come “dura e pura”. Certo, la sua caduta oggi produce meno effetti collaterali che se fosse caduta sotto il governo Berlusconi o sotto altro governo di cui ne avesse fatto parte. Sulla Lega, in questi giorni, si stanno buttando come sciacalli per deriderla e irriderla; ma, quando cade una speranza, quando si dissolve una prospettiva, c’è poco da far festa. E’ la campana che suona ancora una volta a morto, ma quando muore qualcuno muore sempre qualcosa anche degli altri. Hemingway docet. Il fallimento squallido della Lega è una sconfitta per la politica in generale, un altro terribile colpo per la politica italiana.

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