domenica 28 marzo 2010

I veri intellettuali servono ma non "servono"

Qualche tempo fa, esattamente mercoledì 3 marzo, Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”, pubblicò un editoriale dal titolo “Il fantasma di un partito” per sostenere l’inconsistenza del Popolo della Libertà. Il giorno dopo la ronda berlusconiana, composta dai coordinatori del PdL, Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini, gli risposero a muso duro sempre sul “Corriere della Sera”, sostenendo che il loro è “un partito vero e la gente lo ha capito”, tessendo il panegirico di Berlusconi, snocciolando una serie di successi del governo e concludendo che chi non li vede o non li vuole riconoscere “è accecato dal pregiudizio” e dunque “non sa giudicare con serenità e obiettività”.
Nulla di nuovo: l’eterno conflitto tra intellettuale e potere, anche se in una società moderna, il rapporto si dovrebbe fondare più sulla collaborazione critica che non sulla contrapposizione esclusiva. Ma, evidentemente, occorre dar ragione a Vittorio Alfieri, che nei suoi trattati politici, “Della tirannide” e “Del principe e delle lettere” escludeva che mai un intellettuale dovesse collaborare, neppure in rapporto critico, col potere, configurandosi, questo, sotto qualsiasi forma si presenti, una “tirannide”. Il modo come i tre responsabili del PdL risposero a Galli della Loggia conferma che nulla è cambiato nel rapporto intellettuali-potere: se i primi non servono il potere vuol dire che sono accecati. L’unico passo avanti, rispetto ai tempi dell’Alfieri, sembra che almeno gli intellettuali, oggi, critici o dissidenti che siano, non vengono anche materialmente accecati; caso mai, zittiti, togliendo loro i mezzi e le opportunità per apparire e denunciare.
La querelle non è solo a destra, dove peraltro gli intellettuali sono disorganici per strutturazione mentale, essendo per tradizione degli individualisti. Essa riguarda anche la sinistra, dove addirittura si denuncia il silenzio degli intellettuali, come un distacco dai problemi di tutti, dello Stato e della società, per una sorta di disprezzo che essi hanno nei confronti della politica.
Nel suo intervento su “Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì, 26 marzo, Egidio Zacheo, “Gli intellettuali salentini in letargo”, se la prende con il mondo dell’Università, che, se è vero che oggi, teso alla specializzazione, finisce per atrofizzare la sensibilità degli intellettuali verso le problematiche più generali della politica, è anche vero che essi tacciono nei confronti del potere per “ignavia” e “codardia”. Se la politica li vuole “servi”, gli intellettuali “servono”, magari soltanto chiudendosi nell’accademismo ed estraniandosi dal pubblico, che è già un modo per servire il Principe-tiranno.
Mi permetto sommessamente di eccepire che senza una definizione dell’intellettuale, dei suoi strumenti e dei suoi fini, e senza una precisazione sul verbo servire, ogni discorso diventa vano. Sia il discorso alfieriano di totale contrapposizione intellettuale-potere sia quello gramsciano di assoluta organicità oggi non sono più proponibili, in quanto la democrazia – salvo che oggi non si voglia negarla nel nostro Paese – ha distribuito a tutti la partecipazione al potere, sia pure con modalità diverse. Questo non significa negare del tutto l’inattendibilità del potere (Alfieri) o la completa dedizione (Gramsci), ma che, pur partecipando all’esercizio del potere, l’intellettuale deve vigilare perché questo non sconfini in comportamenti immorali, che è il vero, eterno, irrinunciabile suo compito, direi missione. Come per il magistrato vale l’obbligatorietà dell’azione penale, così per l’intellettuale dovrebbe valere l’obbligatorietà dell’azione morale.
Il punto, allora, è sempre lo stesso. Esemplifico: che l’intellettuale resti zitto per non compromettere il suo personale successo o per non essere dannoso al proprio partito non cambia niente.
Quanto al verbo servire, occorre precisare che si può usare sia transitivamente, nel senso di essere servo di qualcuno o di qualcosa; o intransitivamente nel significato di essere utile e basta. L’intellettuale vero non può coniugare il verbo che nella forma intransitiva. Nel momento in cui la sua azione la fa transitare su un oggetto, tanto più se è una persona o un partito, perde la sua funzione di intellettuale. Quando Gramsci ne teorizzò l’organicità, di fatto ne avallò la perdita. Gramsci non disse che il vero intellettuale è colui che è utile e basta, utile ai grandi valori dell’etica universale, ma restò nell’ottica dell’intellettuale cortigiano e sostenne che piuttosto che essere organico ad una corte signorile era meglio essere organico ad una classe sociale o al suo partito. Questione di tempi; ma l’intellettuale, pur nell’ottica gramsciana, servo era e servo restava. Chiedere oggi che gli intellettuali si sveglino dal torpore e intervengano nella grave crisi etica che stiamo vivendo, per denunciare e combattere i crimina lo si può fare solo nel nome dell’intellettuale che è utile in quanto tale, non in quanto “servo” di questo o quel partito, di questa o quella maggioranza di governo.
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