venerdì 21 ottobre 2011

Onore al combattente Gheddafi!

Gheddafi è stato catturato e ucciso a Sirte, suo ultimo rifugio e campo di battaglia. E’ morto come aveva promesso di morire: da martire. Fino all’ultimo, da autentico combattente, ha infuso ai suoi la certezza della vittoria, come fa un vero capo islamico. Non avrebbe mai chiesto ai suoi di morire solo per la bella morte, nella certezza della sconfitta, o per il dovere fine a se stesso. Bella morte e senso del dovere sono valori occidentali, di ragione, estranei al mondo arabo fatto di fede e di fanatismo. Le Termopili non sono cose da deserto.
Nei suoi 42 anni di potere non è stato un uomo moderato, bensì un esaltato, un terrorista e un assassino. Più che un dittatore è stato un tiranno, a volte buffonesco e grottesco, ridicolo e irritante, è apparso cialtrone e pidocchioso travestito da ricco, nella migliore delle immagini la spalla di un clown in un circo equestre. Ma era un membro dell’Onu, ascoltato più volte nel Palazzo di Vetro. E lì non si è mai presentato in giacca e cravatta. 
Ha inferto all’Italia più di un’umiliazione e tante provocazioni. Ad altri paesi ha fatto cose anche più gravi. Non era amato da nessuno, ma non c’è stato leader internazionale che non lo abbia ricevuto con tutti gli onori e che non lo abbia lusingato per concludere affari economici. A noi ne ha fatto concludere molti e molto proficui. L’Italia era il primo partner commerciale della Libia. Ciò che non era tollerato dai soliti francesi, ravvivati nella loro grandeur dall’ennesimo immigrato: Sarkozy come Napoleone, un po’ più ridicolo. Nutriva odio e amore nei nostri confronti. Sapeva – perché non era fesso – che l’Italia in Libia aveva fatto cose buone e che il nostro colonialismo non era stato di rapina come gli altri.
Il suo sogno era di farsi capo di un continente per secoli al guinzaglio del potere occidentale, recuperarlo alla dignità dopo secoli di servaggio. Aveva consapevolezza di questo suo ruolo, forse smisurato e utopico; ma sapeva anche nella sua megalomania che non aveva un altro percorso se voleva restare nella storia come uno che aveva tentato qualcosa di originale e di grandioso. Non si è africani per caso!
Quando Agnelli ebbe bisogno di danaro, lui acquistò il 10 % della Fiat e successivamente entrò anche nella società della Juventus, di cui era tifoso. Forse aveva il complesso della sponda opposta. Ma era africano! 
Non passerà alla storia in termini complessivamente positivi, ma chi davanti allo scempio della sua persona e del suo cadavere ha gioito e non ha saputo avere nemmeno una parola di pietosa comprensione e di riprovazione per le offese arrecategli, ha dimostrato di valere meno, ma molto meno di lui. Nella grande parata di ovvietà e nullità politiche internazionali, forse il miglior commento è stato quello di Berlusconi: sic transit gloria mundi. La formula che si usa alla morte di un papa. In quelle parole c’è tutto il pensiero e il sentimento di un uomo pragmatico come indubbiamente Berlusconi è: il rispetto dell’uomo, paragonato ad un papa, ossia ad un grande; la consapevolezza che tutto sulla terra è effimero e caduco; l’amarezza per le conclusioni dolorose della vita; il dispiacere per un amico sfortunato e segnato.
Nel 1969, quando cacciò gli italiani dalla Libia, gli avrei fatto guerra o comunque gli avrei dato una lezione; non avrei mai consentito che mancasse di rispetto all’Italia con le sue provocazioni e le sue ridicole prove di ostentata arroganza quando a passeggio per Roma esibiva la foto del padre fucilato dagli italiani nella guerra di Libia nel 1911. Ma ora, davanti alla sua fine non ingloriosa, in necrologio, da italiano non immemore, ritengo di dover dire: onore al combattente Gheddafi!    

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