domenica 20 marzo 2011

La "festa" alla Libia la dovevamo fare noi

Cento anni fa decidemmo di conquistare la Libia, strappandola alla Turchia. Giolitti, restio a fare guerre, pur si convinse che la conquista libica era inevitabile per gli interessi italiani e cedette alle pressioni della destra colonialista. Non fu un’impresa facile per via degli interessi che avevano nella zona francesi, inglesi, tedeschi, russi e perfino americani, come ricorda lo stesso Giolitti nelle sue memorie. Quest’anno avremmo dovuto celebrare il centenario di quell’impresa, che fece dire al mite Giovanni Pascoli: la grande proletaria si è mossa. Mussolini, invece, prima fece espellere dal partito socialista i sostenitori di quella guerra, e poi con Pietro Nenni diede inizio ad una serie di manifestazioni contro la partenza dei militari, facendosi arrestare.
Non l’avremmo festeggiato il centenario libico, per non irritare l’amico Gheddafi e poi perché ormai noi italiani ci siamo convinti che siamo per la guerra solo se la chiamiamo pace. E l’impresa libica non fu certamente di pace.
Con la Libia avremmo dovuto sistemare la faccenda nel 1970, quando il dittatore libico, appena un anno dopo la conquista del potere, confiscò tutti i beni ai 20.000 italiani ancora lì residenti e poi espulse i nostri connazionali dal paese, elevando il 7 ottobre di ogni anno a festa nazionale, giorno della vendetta, contro gli italiani. Allora ci mettemmo la coda fra le gambe. Oltre tutto ci conveniva per via del petrolio. Non erano più tempi di orgoglio o dignità nazionali. Il tricolore godeva di insulti proletari, nascosto sotto un’enorme tovaglia rossa con su falce e martello del partito comunista. Il tricolore allora lo esibivano i liberali, che stavano tra il due e il tre per cento, e i missini nella loro fiammella, che oscillava tra il cinque e il sei per cento. Quale Italia avrebbe potuto far pagare a Gheddafi la sua guapperia? Lasciamo stare.
Da allora tutti i governi italiani hanno fatto a gara a tenersi buono il dittatore libico, venendo meno anche al buon gusto, fino al baciamano di Berlusconi, incontinente in tutto, e alle carnevalate indecorose di Gheddafi a Roma. Ingiurie che non possono mai valere tutte le ricchezze del mondo. E’ la nemesi storica: una volta per le vie di Roma sfilavano i capi stranieri vinti e incatenati dietro il carro di trionfo e in tempi più recenti si cantava: contro giuda e contro l’oro. Pazienza!
Ma, mentre noi siamo veramente convinti che la democrazia, la pace, la libertà sono valori che vengono prima di ogni altra cosa – ma quando finiamo di scontarli i nostri peccati? – così non la pensano gli altri, i soliti americani, inglesi e francesi, che ora hanno messo le mani sulla Libia. Sempre in nome – per carità! – di democrazia, libertà e pace.
Ragioniamo come insegnava Hegel. Tesi: un popolo oppresso si ribella spontaneamente e lotta per la libertà contro un tiranno che ricorre alle armi per difendere il suo potere e annientare il suo popolo, reprimendo nel sangue migliaia di rivoltosi; il che fa intervenire l’esercito della salvezza. Antitesi: potenze straniere interessate provocano disordini in un paese sovrano, facendo scattare la reazione del suo legittimo governo, la cui reazione innesca l’intervento delle su riferite potenze straniere che intervengono come esercito della salvezza. Come stanno le cose? Comunque stiano, l’Italia, che in ogni faccenda libica dovrebbe stare in prima linea, lo è stata per un secolo, sia pure in diversità di metodiche, ora si trova relegata in quinta linea, dietro la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti d’America e il Canada. Abbiamo salutato come un successo nazionale il fatto che il centro delle operazioni militari contro Gheddafi è a Napoli; mentre si continua a dire che l’Italia è in campo. La propaganda non si smentisce, qualche volta si scopre e lascia vedere la brutta realtà.
I rapporti dell’Italia con la Libia erano ottimi, al netto di cafonate e pagliacciate. Gas e petrolio libici per una serie di nostre esportazioni costituivano uno dei fattori più sicuri per la nostra economia. Il trattato di amicizia italo-libico faceva dell’Italia il partner privilegiato della Libia. Dopo questa crisi i nostri rapporti con quel paese non potranno essere come prima. Ci vedremo scavalcati da Francia e Inghilterra. Tornano i nostri nemici storici, oggi camuffati da amici sotto spoglie europee, ma non per questo meno famelici, infidi ed aggressivi.
Il governo italiano aveva davanti a sé una strada obbligata, porsi come mediatore con Gheddafi. Ma poteva farlo? Fin dal primo momento hanno alzato la voce gli altri: Gheddafi se ne deve andare. Lo ha fatto il mite Obama, lo ha fatto il complessato Sarkozy, lo ha fatto il solito predatore inglese, questa volta nelle vesti di Cameron, escludendo fin dal principio qualsiasi tentativo di intervento. Ovviamente Obama, che era in difficoltà di consensi nel suo paese, dalla vicenda libica guadagnerà punti in vista delle prossime presidenziali americane. Sarkozy e Cameron avranno dalla vicenda libica una parte di primo piano.
Purtroppo Berlusconi, azzoppato com'è, non aveva l’autorevolezza per opporsi ai partner europei e della Nato con un diverso punto di vista dell’Italia. In questa circostanza la sua debolezza morale si è rivelata di fondamentale importanza strategica. Un Presidente del Consiglio meno bersagliato all’interno e meno chiacchierato all’esterno avrebbe potuto chiedere agli alleati almeno un tentativo di mediazione.
Ma non potendolo fare, allora avrebbe dovuto agire da politico abile e spregiudicato e mettersi davanti a tutti nell’attaccare Gheddafi. Invece lui, dopo tanta ostentata amicizia col dittatore di Tripoli, non se l'è sentita; e la guerra alla Libia la sta vivendo come un suo dramma personale. Purtroppo per l’Italia sarà peggio.
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