domenica 18 luglio 2010

Vendola, prospettiva di un leader

Da quando Niki Vendola in Puglia ha dovuto battere per ben due volte il “suo” centrosinistra prima di battere il centrodestra – direi per poter battere il centrodestra – è aumentata la sua credibilità di leader nazionale. Per piglio e cultura, ne ha la stoffa. Da suo corregionale gli auguro di farcela un giorno a proporsi come capo di un vasto schieramento politico in lizza per il governo della nazione. Ma ne dubito.
Temo che tutta la sua forza stia nel suo eloquio, bello, brillante, metaforico, suggestivo, a tratti poetico ed evocativo, e sempre efficace, come la forza del biblico Sansone stava nei capelli. La sua, la nostra, è la terra di Giulio Cesare Vanini, di Carmelo Bene, di don Tonino Bello, tutti abili parlatori, dalle straordinarie capacità mimetiche, affabulatorie e persuasive. Lui, per la verità è della Puglia settentrionale e ha preso un po’ della musa terragna di Scotellaro e un po’ della pragmaticità rivendicazionistica di Di Vittorio.
Da intelligente ed abile comunicatore ha ben individuato il suo destinatario, in nome del quale parla e opera. E’ quel popolo, assai vagamente assimilabile al Lumpenproletariat (sottoproletariato) ottocentesco, che per vivere non ha ancora risolto i suoi problemi quotidiani, ma, a differenza, del vecchio proletariato “morto di fame”, è figlio dell’abbondanza, ha una cultura edonistica, fondata sullo spettacolo e l’effimero. E’ fatto perlopiù di giovani laureati, disoccupati o diversamente occupati, dai venticinque ai quarantacinque anni, che leggono poesia e frequentano teatri, partecipano a grandi raduni musicalpopolari (tra pizziche e sound) e non avvertono barriere nazionali, insofferenti di generi e di vincoli familiari, e soprattutto privi di progettualità sociale che in qualche modo li impegni in qualcosa che vada oltre la loro individualità dell’hic et nunc.
Il suo errore sta nell’aver come chiuso questo popolo e aver trasformato dei cittadini integrali in “operai” delle sue fabbriche, le “fabbriche di Niki”, come se si trattasse di tutta la sinistra e di tutta la società e non, come effettivamente è, di una loro parte, peraltro la più transitoria. Le fabbriche, quando non sono luoghi di produzione e di profitto, sono soltanto trovate pubblicitarie, un modo più suggestivo per indicare le vecchie sezioni di partito o i più moderni circoli politici. Nel caso di Vendola sono autentici happening, una riverniciatura dei sessantotteschi raduni di gente che si riconosce in una ben precisa condizione sociale. Un’operazione sbagliata, perché un grande partito, che voglia proporsi al governo del paese, per ammodernarlo e farlo crescere, non può essere ad una sola dimensione. Quando lui dice: “La sinistra non ha più categorie in grado di decifrare la realtà e parole capaci di suscitare passioni” rileva sì i limiti dell’area politica, cui egli stesso appartiene, ma ancor più evidenzia i suoi, in quanto non riesce a capire la multidimensionalità della politica e la complessità di uno Stato moderno. La sinistra, che lui accusa di non saper decifrare la realtà, in effetti è la sinistra che al vertice dei suoi pensieri ha lo Stato nella sua fisiologia organica, la società in ogni sua articolazione, la nazione nella sua ricchezza e diversità; è una sinistra che va oltre i vendoliani “poveri in allegria”. Quando poi si decide a guardarla in faccia la realtà, egli è costretto a comportarsi come un ragioniere qualsiasi e per far quadrare i conti, che non sono figure retoriche, impone ticket e chiude ospedali.
Vendola ha avuto per ben due volte ragione prima dei suoi avversari interni e poi di quelli esterni, ma – attenzione! – tutto questo in Puglia. In Italia potrebbe essere lo stesso? Egli ha saputo coniugare la vocazione pugliese all’evasione con le ristrettezze della crisi economica, aprendo ai suoi scontenti vie di fuga. Una volta i nostri contadini si ubriacavano per non avere fame, perché a casa avevano poco da mangiare e tante bocche da sfamare. Si potrebbe dire, parafrasando l’assunto marxiano, che il vendolismo è l’oppio dei “poveri allegri”.
Sicché Vendola, per poter essere un leader nazionale credibile, dovrebbe prima di tutto far tesoro della sua pugliesità ma poi guardare alla nazione come ad un’entità di gran lunga diversa e più complessa. Egli dovrebbe considerare accanto ai tanti che vivono una condizione di sofferenza anche i tanti che vivono altre situazioni, che sono importanti per la vita di una nazione, che voglia stare se non proprio in armonia sociale almeno in dialettico e rispettoso rapporto, interno ed esterno.
Per questo Vendola più che mettersi contro i suoi amici della sinistra, negando loro quell’adeguatezza che riconosce solo a sé con narcisistico compiacimento, dovrebbe fare causa comune e creare davvero la prospettiva di un cambiamento.
Il vero punto debole della sinistra oggi in Italia – ma in Europa non sta meglio – non è tanto l’incapacità di capire la realtà, ma di essere disunita e rissosa. Se tutti insieme capissero che per la sinistra il passaggio è epocale, nel senso che essa, nata nell’Ottocento per rivendicare i diritti dei poveri, degli sfruttati e dei sofferenti, ha oggi un compito ben diverso, allora darebbero la risposta più giusta concorrendo a modernizzarla e a renderla più competitiva. Invece, preoccupati di raggiungere il potere nell’immediato, leggono la realtà con schemi vecchi e litigano proponendosi l’uno all’altro. Si capisce allora come in questa balcanizzazione Niki Vendola appaia sempre più, con la sua pugliesità bella e barocca, il leader più tentato e tentatore. Ma, proprio per questo, perpetua l’equivoco di una sinistra che con caratteristiche di nicchia pretende di conquistare un mercato di massa. E lui, antiberlusconiano professo, neppure si accorge di usare tecniche propagandistiche di chiaro stampo berlusconiano.
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