domenica 4 luglio 2010

Quale lezione dalla tragedia di Taurisano

La tragedia del 30 giugno scorso in una casa di villeggiatura al mare, con la morte di un bambino di due anni e il tentativo di suicidio del padre assassino, ha colpito una famiglia modello. I nomi qui contano poco. La stampa peraltro ne ha fatto uso ed abuso. Come conta poco ipotizzare i motivi, posto che un gesto di follia, per quanto premeditato, possa averne. Tutto è accaduto in terra greca, la nostra; la tragedia, nei contenuti e nei modi, è tipicamente greca, a prescindere dalla sua contingente territorialità.
Conta, se si vuole trarre un minimo di lezione, fare alcune considerazioni. La prima è che la famiglia colpita era il modello ideale: marito e moglie, una figlia ed un figlio. I genitori tutti tesi al lavoro e al decoro; i figli altrettanto, nello studio. Tutti in una concezione della vita intesa come promozione attraverso la laboriosità, i sacrifici, l’ordine, la programmazione. Genitori normali. Lui, infermiere a tempo pienissimo, oltre al lavoro all’ospedale faceva volontariato a casa dei malati; d’estate le ferie le passava in Svizzera, dove riusciva a lavorare e a farsi il gruzzolo per la famiglia: la casa al mare, l’appartamentino a Lecce per i figli ormai giunti agli studi universitari. La moglie, una saggia e tranquilla donna di casa, attenta alla cura della famiglia, al futuro dei figli, ai rapporti sociali. I figli, bravi e rispettosi dentro e fuori la famiglia; entrambi laureati, alla soglia di una sistemazione professionale. In paese non c’era persona che potesse esprimere nei confronti di questa famiglia la minima critica. Una famiglia perfetta, senza sbavature, senza distrazioni.
Com’è possibile allora che una tragedia così grave, così raccapricciante, così irrazionale e spaventosa, possa essersi verificata in un ambiente così normale, compassato, perfetto?
La risposta, fatta salva ogni altra diagnosi individuale del soggetto protagonista della vicenda relativa a quella sfera murata della sua personalità, di cui si occuperanno psichiatri ed esperti, non può trovare spiegazione che nel fattore ambientale, appunto la famiglia di cui è espressione e in cui si è formato.
Il giovane s’imbatte in una ragazza all’università, se ne innamora, la mette incinta, diventa padre di un bambino, a cui, secondo tradizione, mette il nome del nonno, ossia di suo padre, ma non ha ancora portato a compimento il percorso di studi, ancora non ha una sistemazione lavorativa.
Alt, fermiamoci un attimo e chiediamoci: come si rapporta questa vicenda personale al modello di vita al quale si era conformato? E’ sicuramente un’anomalia, è uno strappo al modello, è qualcosa che si accetta ma con la riserva mentale che solo un successo potrebbe riscattare il gesto, sanare il deragliamento; un ulteriore fallimento sarebbe troppo, aprirebbe la via alla disperazione. Un modello di vita virtuoso diventa una trappola se di fronte all’imprevisto non ha una risposta alternativa, non sa trovare una via d’uscita.
Non si tratta dell’esposizione del giovane ai rimproveri dei genitori, dei quali evidentemente condivide idee e pensieri; ma si tratta che egli non è capace di sopportare il peso del fallimento, non sopporta la sua stessa condanna. Non è stato educato a questa ipotesi, del tutto imprevista; ha sempre proceduto nel successo e nella promozione.
Purtroppo è accaduto proprio quel che non doveva accadere. La giovane coppia, nonostante la nascita del bambino, il conseguimento della laurea e l’approccio al lavoro, si rompe. E’ inutile cercarne le cause, non interessa neppure in questa sede. Una coppia si rompe per mille motivi. Ma quel che qui conta, per capire la tragedia che è seguita, è che dall’errore di mettersi insieme quando non era stato ancora compiuto il corso di studi e trovata una sistemazione, è arrivato il fallimento. Troppo per chi era stato cresciuto in un’ottica esistenziale diversa.
Non vale dire: io avrei fatto questo o quest’altro; perché uccidere quell’anima innocente; porsi tante domande a cui nessuno può dare delle risposte. Se riflettiamo sulla tragedia, facendo violenza anche a qualsiasi comprensibile riserbo, è perché vogliamo cogliere qualche elemento di positività.
Una famiglia perfetta, come tutti i modelli di perfezione, presenta elementi di chiusura. Pur mettendo da parte il paradosso secondo cui la vera perfezione sta nell’imperfezione, è il concetto stesso di perfezione che implica la latenza del difetto. Si sta bene finché tutto procede bene, quando qualcosa non funziona e si cerca una via d’uscita, allora ci si accorge di essere in una gabbia, che la perfezione inseguita e coltivata è la più feroce delle condanne. Niente di consapevole – naturalmente – ma la condizione del malcapitato è questa. Paradossalmente può accadere che nel perseguire il bene, la perfezione, la felicità, si possa andare incontro alla situazione opposta, al massimo dell’infelicità, della disgrazia, della tragedia. Nessun percorso ha in sé scontato l’arrivo.
Ecco, allora, la lezione. Conoscere il male per evitarlo è importante; conoscere le vie di fuga dal male e tenerle a mente, nel caso ci si trovi dentro, è vitale.
Quando si conclude che quel giovane, convintosi che al suo bambino non poteva più offrire un modello di famiglia, ordinato e tranquillo com’era stato il suo e lo uccide per evitargli l’inferno di una vita in carenza di ordine e di affetto, è una vittima, al di là della vicenda nella sua dinamica materiale, si vuol dire proprio questo: paradossalmente vittima di un modello di bene, privo però di aperture di emergenza.
Di qui la necessità che la famiglia come la società, pur lungo un percorso virtuoso, sul quale davvero non si discute, restino aperte, perché la vita è dinamismo e quel che è oggi non è domani, nel bene come nel male.

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1 commento:

  1. perchè questo articolo,minimalizza l'individuo come prodotto della famiglia.

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