Mi è venuto di pensare in questi
giorni di comiche politiche nazionali ad un romanzo del 1889, a Tre uomini in barca dello scrittore
inglese Jerome K. Jerome. E’ un libro umoristico con qualche episodio esilarante.
Che c’entra con le nostre cose?
C’entra, pur con una piccola variante, siccome andare in barca da noi è anche una
metafora, significa andar d’accordo. E mi viene di pensare
subito per l’uno e l’altro significato, il letterale e il metaforico, ai nostri
tre uomini al governo: Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giuseppe Conte,
rispettivamente due vice-presidenti e un presidente del consiglio, i quali,
appunto, vanno in… barca. Lo hanno dimostrato di recente nella comica faccenda
del decreto fiscale.
Nella conferenza stampa dopo il
Consiglio dei Ministri del pomeriggio del 20 ottobre, in cui è stato trovato
l’accordo su questo decreto, detto della “pace sociale” e invece stava per
essere motivo di guerra politica, Salvini ha esordito definendo surreali gli
ultimi tre giorni. Nel corso dei quali, ancora una volta, Di Maio ha fatto la
figura molto simile a quella di Renzo nei Promessi Sposi, quando se la prese
con don Abbondio e col suo latinorum. E’ di tutta evidenza che Di Maio avverte
una certa inadeguatezza nell’esercizio politico relativo al ruolo che si è
ritagliato. Altrimenti non avrebbe minacciato di rivolgersi alla Procura per un
documento da lui stesso vergato, sua ipsa
manu.
Mettiamo che abbia avuto ragione nel
merito – il che sarebbe tutto da dimostrare – nella faccenda della manina del
peccato, della mano cioè che avrebbe, a suo dire, manipolato il testo in
direzione condono generalizzato a tutti gli evasori fiscali, ci chiediamo: perché
non chiamare subito Salvini per chiedere spiegazioni e trovare una
composizione?
Le risposte sono due. La prima,
potrebbe essersi sentito preso per il culo da Salvini – volgariter – e, arrabbiatosi, ha pensato: mo ti mostro io di che
sono capace!
La seconda potrebbe essersi
accorto di non aver seguito come doveva il testo del decreto e, non volendo
ammettere di essere stato quanto meno leggero, l’ha buttata sull’acido.
Nell’uno come nell’altro caso, emerge
la sua malafede e dalla figura del pirla o, come noi al Sud diciamo, della
testa di cazzo, non si salva. E’ vero, può presentarsi davanti ai suoi e menar
vanto: volevano fotterci, ma noi ce ne siamo accorti e abbiamo reso pan per
focaccia.
Ma quanti si accontenteranno
della pezza a colore? E’ la seconda volta che Di Maio grida alla manina! alla
manina! La prima volta insinuò alludendo alla manina di qualche funzionario del
Ministero; la seconda è andato oltre, dicendo da subito che la questione era
politica. Almeno in questo ha dimostrato – se è stata sua l’idea di metterla
sul politico! – di far capire che non intendeva impelagarsi in questioni di chi
è stato a manipolare il testo e che tagliava corto. Questo decreto così com’è
non lo vogliamo. Dunque o lo si corregge o nada!
Tante parole sono volate in
questi tre giorni. Alcune le ha dette di Maio, altre Salvini. Il capo dei
leghisti in un primo momento ha preso in prestito una frase di Curzio
Malaparte: cosa fatta capo ha! dalla celebre Ballata
dell’Arcitaliano. Come dire: ormai è andata così e non se ne parli più. Ma
quando ha capito che l’altro, Di Maio, avrebbe creato problemi al governo, ha
lasciato che la "cosa" perdesse il "capo". Resta tuttavia che nulla accade a caso e
nulla passa senza lasciare conseguenze.
La prima conseguenza è che fra i
due è finita la fase delle smancerie, non si fidano più l’uno dell’altro. E
quando due soci in affari non si fidano gli affari vanno in malora.
Intanto a rendere sempre più
surreale l’ambiente politico italiano è il diffondersi di un’epidemia che si ha
ragione di definire di tipo psichiatrico. Alcuni giornalisti e
intellettuali – vedi Andrea Scanzi e Maria Giovanna Maglie – difendono a spada tratta il governo Di Maio-Salvini, ma
solo dopo aver premesso di non appartenere a quei partiti e di non
condividerli. E, allora, perché li difendono?
O si vergognano di dire di
condividerli, perché taluni comportamenti sono oggettivamente e universalmente
da condannare; o li difendono, pur non condividendoli, per fare un dispetto a
quanti del Pd o di Forza Italia rappresentano i falliti d’antan, responsabili del disastro in cui versa il Paese.
Ma sembra cosa sensata? Per non parlare del cane diceva il titolo del romanzo di Jerome. Noi potremmo dire: per non parlare dei cani.