L’Europa sessant’anni dopo i
Trattati di Roma non soddisfa, è in crisi, è discussa, respinta, ricusata. Perfino
chi la rappresenta o la sostiene non ne è contento. E’ un’Europa che non piace.
E’ un’Europa vecchia senza essere stata mai giovane. Ed è tale perché essa vive
di retorica, ha perso il senso concreto delle cose in nome di un’ideologia
tardoilluministica secondo cui certi principi vengono prima di tutto a costo
anche di negare se stessa, di mettere a rischio la propria esistenza culturale
e politica, il proprio essere soggetto di civiltà e di produttività, di
crescita e di benessere.
Alcuni anni fa, al tempo dell’elaborazione
della sua Costituzione, progetto poi abbandonato per il rifiuto di ratificarlo
con referendum da parte di Francia e Olanda, l’Europa non volle mettere nel
preambolo le sue radici cristiane, con grande dispiacere del Papa ma anche di
tanta parte dell’Europa che teneva ad avere nel cristianesimo la sua
connotazione più significativa.
Si sostenne, all’epoca, soprattutto
da parte francese, che libertà uguaglianza e fraternità sono valori laici che
escludono qualsiasi connotazione religiosa. Come se oggi, dopo duemila anni di
cristianesimo, non si possa considerare il cristianesimo anche nei suoi portati
laici!
Non lo si volle inserire nel
testo a sfregio anche della storia, che dimostra come l’Europa è nata da un
evento ben preciso: la nascita del Sacro Romano Impero con l’incoronazione di
Carlo Magno da parte di papa Leone III nel Natale dell’800. L’Europa nacque
come una realtà politico-religiosa e come tale è giunta fino a noi, dopo aver respinto
ogni tentativo di conquista da parte di popoli non cristiani.
Oggi si sventola come un gran
bene il fatto che questa Europa ha garantito settant’anni di pace. Evviva! Ma
non si dice che questa pace è stata mantenuta attraverso continui cedimenti, a
volte men che imposti neppure richiesti. Stiamo vivendo una delle più grandi
invasioni pacifiche della storia, con l’arrivo ormai di milioni di africani e
di asiatici, nella stragrande maggioranza di religione mussulmana. Si fa finta
dell’ineluttabilità dell’evento, mentre ci sono paesi europei, che, grazie alla
loro posizione geografica, si preservano in qualche modo dall’invasione.
La pace garantita ha avuto un
prezzo molto alto e più alto ancora sarà in seguito: la trasformazione
dell’Europa da come era nata ed era stata per circa mille e duecento anni; un
luogo geografico o un’espressione geografica, per usare il lessico del Principe
di Metternich.
Certo, è nella cultura europea e
cristiana non respingere gli altri; ma un conto è il non respingerli come
uomini di buona volontà, un altro è accettarli come sono-sono per farli
concorrere ad una continua trasformazione del proprio essere, per subirne la conquista. Negando
il proprio atto di nascita, la propria genitura ha significato per l’Europa una
cosa sola: diventare una realtà priva di connotati in continua trasformazione,
in balia di quanti da ogni parte della Terra le si riversano dentro per invaderla,
conquistarla e imporle ogni trasformazione. La liquidità sociale, di cui
teorizzava Bauman, è la pezza che si usa per coprire l’incapacità di difendere
la propria identità. Che una tale conquista avvenga con la migrazione pacifica
e addirittura assistita o con una guerra poco conta. Il risultato è che
l’Europa di una volta non c’è più; soprattutto non ci sono più gli europei.
L’ideologia francese ha prevalso
su ogni altra cultura, dopo che con la seconda guerra mondiale era del tutto
tramontata l’ideologia romana e germanica espressasi con la romanità del
fascismo e col paganesimo del nazismo. Ma la vaga e universalistica ideologia
francese ha di fatto sbiancato l’Europa, l’ha privata di ogni colore. Oggi
anche gli europei più convinti non si riconoscono più nella loro terra, nella
loro patria, nella loro civiltà. Quel che è rimasto del proprio essere europeo
è il dato economico e commerciale, in nome del quale si baratta tutto. La
conseguenza è che gli europei non si sentono più in casa propria, sia quelli ancora
legati alle proprie radici per avere un’età piuttosto avanzata sia quelli che
di radici non ne hanno più per essere giovani e per non aver conosciuto la
propria storia. Per converso, gli stranieri arrivati continuano ad essere se
stessi e rivendicano il diritto di continuare ad esserlo con tutto quello che
significa e comporta.
Oggi, la politica bottegaia
dell’Europa ha alienato i vari popoli che la compongono. Essi
si rinfacciano responsabilità per gli insuccessi e si invidiano reciprocamente
i successi. I più forti cercano di far passare l’idea di un’Europa a più
velocità, come ipocritamente dicono per nobilitare una vergognosa diseguaglianza,
la forza di alcuni e la debolezza di altri. Ma questo significa disfare
l’Europa. Nessun suo membro può accettare un ruolo subalterno. Solo nella
quantificazione può trovare credito la diversificazione. Un ’Europa
composta da paesi più forti e meno forti, in base al Pil, ai bond e allo
spread, non ha nulla a che fare con l’Europa dei grandi valori. Il che
significa che aver rifiutato il cristianesimo come collante di comune identità
si è andati alla deriva.
E tuttavia l’idea di Europa deve sventolare ancora come la bandiera più
importante. Non con su scritto “liberté fraternité egalité”, non perché questi principi non siano più validi ma perché privi di specificità europea. L'Europa deve avere i segni della sua genitura e della sua
storia. Tanto, a prescindere se si sia credenti o meno. Essere cristiani,
infatti, non significa più e necessariamente credere in Cristo, seguirne gli
insegnamenti umani, ma essere
consapevoli di appartenere ad una storia e ad una civiltà ben precise. L’Europa
deve recuperare il senso di sé, il proprio sentimento di appartenenza. Solo se
è veramente unita, nel rispetto della storia di ciascun suo membro, essa potrà
avere quello che fino ad ora non ha avuto: una comune politica estera, una
comune difesa, un comune commercio, una comune bandiera. Se questo non si sarà
capaci di realizzare, l’Europa continuerà ad andare avanti, ma nell’incertezza
e nella precarietà, ritardando e compromettendo un processo che la storia non
potrà non portare a compimento.